“È possibile cambiare il mondo di qualcuno dal di dentro?”
Marta Cortellazzo Wiel porta in scena, in prima nazionale, al Teatro Gobetti di Torino, uno dei testi della Trilogia della bellezza, scritta da Neil LaBute, La forma delle cose. L’incontro tra un’artista e uno studente, nonché guardia di un museo, sarà la genesi della depersonalizzazione di quest’ultimo, sempre più dipendente e manipolato.
Adam, interpretato da Marcello Spinetta, è uno studente lavoratore, o meglio, un lavoratore ancora studente. Il venerdì sera fa due lavori: finisce il turno di guardia al museo e attacca con quello alla videoteca. È un inetto, che non riesce nemmeno ad essere autorevole quando Evelyn scavalca il cordone che separa i visitatori dalle opere d’arte per imbrattare una statua. Evelyn, interpretata da Beatrice Vecchione, invece, è più giovane di lui, è una studentessa, un’artista e un’attivista. Evelyn è tutto ciò che Adam non è, e questa consapevolezza spingerà sempre di più lui ad essere come crede di voler essere, ma in realtà come lei vorrebbe che fosse. La loro relazione è di dominio, di manipolazione. Evelyn non forza mai Adam a fare qualcosa: gli suggerisce di allenarsi, di perdere peso, di rifarsi il naso, ma mai lo costringe. Ebbene, quanto le nostre scelte, i nostri pensieri sono figli legittimi e quanto sono figli adottivi? Il ruolo di un individuo dominante e manipolatore è proprio quello di mettere la vittima davanti ad un bivio, la cui scelta ricadrà più sulle volontà del dominante che della vittima, convinta, tuttavia, di essere padrona delle proprie decisioni. In tal senso, è interessante evidenziare la datazione del testo: durante i primi anni 2000, Neil LaBute scrive un testo sulla violenza di genere ai danni di un uomo da parte di una donna. Non esiste l’idea di maschio alpha in Adam, questo ruolo lo ricopre Philip, il suo migliore amico, interpretato da Christian di Filippo. La relazione tra Adam ed Evelyn è diametralmente opposta a quella di Philip e Jenny, interpretata da Celeste Gugliandolo. Jenny è sempre molto delicata e carina, non vuole che si dicano parolacce e per quanto ricambiasse il sentimento di Adam ai tempi del liceo, è rimasta ad aspettare che lui facesse il primo passo. Adam, ovviamente incapace di farlo, è stato poi sorpassato da Philip e i due presto dovranno sposarsi. Tutto, però, si trasforma dopo l’incontro tra Adam ed Evelyn.
L’allestimento dello spettacolo è una scatola di specchi deformanti, quindi l’immagine non è reale, ma de-formata. Lo specchio, l’unico modo che abbiamo per vedere la forma di noi stessi, trasforma le cose in forme sinuose, irregolari, storte e rimbalzate, a causa degli specchi paralleli, che conferiscono anche una conoscenza totale dello spazio – torna il tema del controllo. Sia l’allestimento che il testo stesso hanno un’evidente componente religiosa: la creazione del mondo visibile è specchio di Dio. Nei misteri dionisiaci si sperava di riconoscere nell’immagine dello specchio l’anima disciolta dal corpo, che ascendeva all’esistenza immortale; proprio per questa ragione, si aggiungeva uno specchio nelle tombe. Evidente il collegamento diretto tra la forma delle cose e il proprio interno, l’anima. Durante l’incontro di Retroscena, Christian di Filippo fa notare come la parola “forma” sia sempre accompagnata da un aggettivo e che isolata è priva di significato. Siamo noi a concepire quella forma: l’altro si specchia nel nostro occhio e assume una forma, che può o meno rispecchiare la realtà, ma è una forma relativa, riguardante la nostra sensibilità. Importante è non attivare pratiche intrusive che trasformano l’altro.
Tornando all’aderenza religiosa: i due protagonisti si chiamano Adam ed Evelyn e si incontrano davanti ad una statua del Fornecelli, raffigurante un Dio. In questa scena abbiamo la rappresentazione del peccato originale: Evelyn, intenta a mangiare una mela, scavalca il cordone che separa il visitatore della statua, e convince Adam, non solo a scavalcare a sua volta, ma a seguirla. Durante queste battute viene anche evocato un incontro precedente tra i due, avvenuto in videoteca: lui l’aveva aiutata a trovare Il ritratto di Dorian Gray. Non è un caso che LaBute scelga proprio questo titolo, manifesto del concetto di realtà e finzione, nonché uno dei temi principali del testo. Evelyn dice che la statua è un falso, non perché sia una riproduzione, ma perché è stata innestata una foglia nella zona genitale del dio. Difatti, lei voleva disegnarci sopra un pene. Eppure, qui troviamo una forte componente di ambiguità: Evelyn dichiara il suo odio verso l’arte falsa, ovvero quella che altera la bellezza, l’opera originale, per poi alterare e trasformare un altro originale, Adam, per quanto l’obiettivo sia la perfezione. Evelyn racconta di essere stata colpita da una frase di Alfredo Jaar, letta qualche giorno prima l’incontro con Adam: “l’arte cambia il mondo, ma una persona alla volta”. In altre parole, rendendo un essere perfetto si può cambiare il mondo attraverso una reazione a catena. Alla fine del testo il mondo di Adam è stato cambiato dal di dentro, ma ne esce da vinto, falso, solo e con una forma che non gli appartiene.
Federica Mangano
La forma delle cose (The Shape of Things) di Neil LaBute, regia di Marta Cortellazzo Wiel, al Teatro Gobetti, fino al 19 gennaio 2025.
di Neil LaBute
traduzione Masolino D’Amico
regia Marta Cortellazzo Wiel
scene e costumi Anna Varaldo
luci Alessandro Verazzi
suono Filippo Conti
con (in ordine alfabetico) Christian di Filippo, Celeste Gugliandolo, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione
Produzione Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale