È il primo novembre, siamo al Bar Charlie sui navigli di Milano. L’atmosfera è in stile anni Sessanta. La scena davanti a noi è caotica, onirica e suggestiva: sedie rotte, impilate una sull’altra, tazzine da caffè sporche, pagine sparse sul pavimento. Al centro, un tavolino, due seggiole e una macchina da scrivere. Sullo sfondo un musicista, Marco Pagani, commenta la scena con chitarra e pad elettronico. In primo piano, Rossella Rapisarda, co-autrice della pièce con Fabrizio Visconti, è l’unica attrice. Indossa le vesti di un angelo biondo, un po’ spettinato, in attesa di qualcuno che non ci è dato conoscere. Attesa che trasformandosi in racconto dà vita allo spettacolo.
Senza filtro – Uno spettacolo per Alda Merini è la produzione teatrale della compagnia Eccentrici Dadarò andata in scena venerdì 16 Febbraio alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Come da titolo, la rappresentazione omaggia la poetessa e scrittrice milanese, vittima, insieme a molti altri, dell’esperienza di ricovero in manicomio. La Lavanderia, insieme alla Regione Piemonte, al Comune di Collegno e alla Fondazione Piemonte dal Vivo, ha infatti scelto di inaugurare con questo spettacolo la rassegna intitolata Quello che tutti chiamavano manicomio, organizzata in occasione del quarantennale della legge n. 180/1978, meglio conosciuta come Legge Basaglia. Per chi non fosse adeguatamente informato sull’argomento, cercheremo qui di riassumere brevemente i complessi e significativi avvenimenti cui si deve la programmazione dello spettacolo.
Era il 13 maggio 1978 quando venne promulgata la legge “Accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori”, la quale sanciva la chiusura definitiva dei manicomi in Italia. Il luogo scelto per portare in scena lo spettacolo non è casuale: la Lavanderia a Vapore era infatti il luogo deputato al lavaggio dei panni e della biancheria all’interno del manicomio di Collegno, il più grande d’Europa al suo tempo. Qui tuttavia, già nel 1977, anticipando di un anno la legge, su iniziativa dell’Amministrazione Comunale venne abbattuto un primo tratto del muro di cinta che separava la struttura dalla città. Fu un gesto di grande importanza poiché il varco permise per la prima volta a migliaia di cittadini di entrare nel manicomio per visitare una mostra dedicata alla tematica dal titolo Collegno: proposte e documenti. Quell’evento aprì una finestra sulle condizioni di vita dei ricoverati creando così un dialogo tra istituzione psichiatrica e città. Nel 1979 venne infine completata l’opera di demolizione delle mura e il manicomio, da luogo di coercizione, si trasformò definitivamente in un parco pubblico aperto a tutti. Ancora oggi i cittadini collegnesi ricordano vivamente il momento in cui per la prima volta videro camminare liberamente nel parco i tanti pazienti che fino a poco prima avevano vissuto, segregati, a fianco delle loro case. Nel 2008 un’ulteriore trasformazione dello spazio inaugurò l’attuale padiglione multiculturale conosciuto col nome di Lavanderia a Vapore. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile se non fosse stato per la lungimirante battaglia intrapresa dall’intellettuale veneto Franco Basaglia, psichiatra e neurologo.
Quello che ha ospitato lo spettacolo in questione è dunque uno spazio trasformatosi negli anni da luogo di dolore e malattia a terreno fertile per la cultura. Sappiamo come all’interno dell’istituzione manicomiale il sapere e il potere medico venissero usati per creare un’idea di malattia mentale tale da giustificare l’esistenza stessa del manicomio e dei suoi metodi coercitvi. Su queste tematiche si confrontarono importanti studiosi come Foucault, Goffman, Szasz e lo stesso Basaglia, giungendo ad esisti che tutt’ora si rivelano estremamente attuali. Oggi, attraverso una forma di sapere differente, più propriamente culturale, l’ex luogo manicomiale si sta trasformando in una possibilità concreta di condivisione e crescita per il soggetto, attraverso un processo di conoscenza, scoperta e sperimentazione di sé, contribuendo alla formazione di un cittadino, si spera, più critico e consapevole.
Tornando allo spettacolo su Alda Merini, non si fa difficoltà a trovarvi forti parallelismi con questi stessi discorsi. L’angelo biondo sulla scena è un personaggio ripreso da una poesia della scrittrice intitolata Al mio angelo custode che non ha mai imparato a fumare che possiamo vedere come un suo doppio, quello stesso doppio che nella follia spesso partecipa della soggettività dell’individuo. Protagonisti della pièce sono la macchina da scrivere e la musica. Ventiquattromila baci di Adriano Celentano è il brano con il quale inizia la scrittura, che si rivelerà travagliata durante il corso di tutto lo spettacolo: “senza musica – ci dice l’angelo – non c’è amore”. Torna alla mente il momento narrato dalla Merini nel suo testo L’altra verità. Diario di una diversa in cui, durante uno dei numerosi ricoveri in manicomio, il suo medico le diede una macchina da scrivere, invitandola a ritrovare il piacere della scrittura. Com’è la protagonista a ricordarci, in maniera a volte fin troppo retorica, la vita di Alda Merini fu un inno alla vita e all’amore. Una fame d’amore caratteristica dell’uomo che se dura incontrollata tutta una vita comporta facilmente un vuoto, nel quale può emergere il disagio psichico. La poetessa milanese scrisse che “la malattia mentale non esiste, che esistono i dolori e le mancanze ma non la malattia”. In questo troviamo una grande vicinanza con il pensiero di Basaglia il quale sostenne per tutta una vita la distruzione del mito della malattia mentale. Due controverse personalità che, pur da posizioni diverse, hanno dato voce ad una stessa “folle” e visionaria idea.
recensione di Linda Casoli