MEMORIE DEL SOTTOSUOLO – MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA

Da martedì 16 a domenica 21 novembre, al Teatro Gobetti, va in scena Memorie del sottosuolo, adattamento drammaturgico e regia di Marco Isidori, dall’opera omonima di Fëdor Dostoevskij. Il romanzo è passato alla storia come l’ennesima aspra riflessione sulla condizione umana, in particolare nella sua presunta inconciliabilità tra “volontà” e “ragione”, e tutte quelle convenzioni umane che per mezzo di quest’ultima si giustificano: scienza, tecnica, organizzazione sociale. Il positivismo ottocentesco, le speranze nell’edificazione di un mondo più giusto, dunque più prevedibile e quindi più “agibile”, sono contraddette dai sofismi del protagonista – logici quando sufficienti, meramente volontaristici quando necessari: 2×2 può anche fare 5, e non sarebbe poi così male! L’opera prende la forma di un discorso-fiume, un dialogo artificiale che il protagonista intrattiene con dei presunti destinatari di cui lui stesso formula domande e risposte.

Il pubblico entra in sala, il sipario aperto mostra una scena vuota interamente percorsa sullo sfondo da un ampio telo dipinto: è il Trionfo della Morte, rivisitazione dell’omonimo affresco palermitano conservato a Palazzo Abatellis, di Daniela dal Cin. Linee e colori decisi disegnano una massa di uomini sovrastati dallo scheletro di un animale, la morte. Si scattano fotografie, si discute di quale rifacimento si tratti, ci si chiede quale sia il palazzo che ospita l’originario affresco palermitano, non essendo indicato nel foglio di sala – finché, sulla platea cala il buio.

Paolo Oricco si mostra al pubblico sollevando lentamente il telo/sipario; la testa china, i lunghi capelli brizzolati calano sul volto. Qualche secondo e prende parola: non si fermerà più. Il volto bianco fa dell’attore una marionetta, un mimo, un cadavere benvestito. La recitazione è esasperata, infarcita di alti e bassi repentini, schizofrenica; complice la velocità, l’ascolto risulta ostico, ma gradualmente le parole si fanno udibili. La scena statica viene tagliata dai movimenti convulsi dell’attore come dai giochi di luci e ombre a cura di Fabio Bonfanti e Paolo Scaglia. Il monologo segue interrotto da qualche domanda retorica e brevi pause; poi, il fiume, sempre identico a se stesso, arriva alla foce: il chiacchierone indietreggia, si dimena sul grande telo che gli sta alle spalle finché non vi si crocifigge. Piedi a terra, polsi legati alla massa umana dipinta: grida le ultime parole. Chiusa e saluti finali si ballano sulle note di Caterina Caselli – immancabile pizzico di postmodernismo, come a dire: si scherza, eh.

Per come comunemente s’intende l’opera di Dostoevskij, essa sembra la messa in discussione dei valori scientifici e civili su cui si regge la modernità. Dunque si oppone come da copione il due per due uguale quattro alla volontà, troppo spesso irrazionale, dell’individuo; si oppone il disordine della vita alla pretesa di calcolarne ogni interesse; si scade infine in un confronto tra Razionale e Irrazionale. Memorie dal sottosuolo è invece composto in due sezioni: Il sottosuolo, che spiega la visione del mondo del protagonista, estremamente mentale quanto ipertrofica; e A proposito della neve bagnata dove lo stesso racconta le passate esperienze che l’hanno presumibilmente portato a tali conclusioni, fino a voler abitare il “sottosuolo”. Esiste, nell’opera, una relazione dialettica tra le convinzioni raziocinanti del narratore e la sua personale biografia, c’è insomma uno scambio reciproco tra mente e natura, ragione e storia: una contaminazione. Mentre due per due fa quattro è la tautologia di un linguaggio convenzionale – quello matematico – di cui la scienza si serve per regolare i propri studi, la scienza tout court non è una tautologia, bensì un rapporto virtuoso tra teoria e sperimentazione che non porta mai certezze bensì a più o meno accettabili risultati, condivisibili. Ciò che risulta interessante in Memorie del sottosuolo è proprio questo scambio tra idea e materia, ragione ed esperienza a cui il protagonista si sottrae (sottraendosi alla vita sociale) pensando per astratte opposizioni, (elaborate proprio dal positivismo scientifico che gli è nemico) in un mondo che invece non ne ha di così nette. La ragione, e con essa i suoi frutti, ha una dimensione sociale che, se rifiutata, mette in discussione se stessa – come possiamo intuire in questi mesi di ambigui dibattiti scientifici. Questo rapporto, in scena, è esemplificato dal dipinto, raffigurante appunto una collettività scomposta minacciata dalla morte. Eppure, la relazione, che può anche essere un’opposizione, sembra non essere sviluppata dai Marcido, perché tra i due elementi, recitativo e pittorico, non c’è dialogo, se non parziali adiacenze attraverso i giochi di luce; un non-rapporto è anche quello con il pubblico: dalla platea si ha l’impressione che nulla di quello che accade in scena possa uscire dalla scena, e nulla di quello che accade in platea possa avere a che fare con la scena, piuttosto anomalo per una scelta drammaturgica del genere. Il virtuosismo recitativo calca la mano nel voler impersonare il paradosso della coscienza denunciato dal testo dostevskiano: una coscienza ipertrofica, un pensiero che si ripiega su se stesso, esonda in un fiume di parole e inibisce l’azione. Ma, per questa via, si riduce a mostrarci solo un attore.

Comunque, Caterina Caselli mette tutti d’accordo e il pubblico dimostra di aver apprezzato.

Nicolas Toselli

da Fëdor Dostoevskij
adattamento drammaturgico di Marco Isidori
con Paolo Oricco
regia Marco Isidori
assistente alla regia Ottavia Della Porta
tecniche Sabina Abate
luci Fabio Bonfanti e Paolo Scaglia
scenario Trionfo della Morte di Daniela Dal Cin
Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa 2021

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