BLACKSTAR – FABRIZIO ARCURI

Lo spettacolo inizia che le luci nel teatro sono ancora accese, una donna scende dalle gradinate e si rivolge a un ragazzo con la maschera da clown che è in piedi sul palco e la guarda:  lui è un clochard che canta davanti a un supermercato, lei una ricca professoressa universitaria che si è innamorata di lui.

Lo spettacolo Blackstar è solo apparentemente diviso in più storie in cui il giovane clochard fa da filo rosso invisibile. 

Nella prima sezione ci sono i tumulti interni di una donna che decide di lasciare la propria famiglia perché invaghita di un giovane uomo che è però strumentalizzato: ci si sofferma sul suo corpo, sulla sua carne, e sulla sua giovinezza.

La donna racconta di quando per la prima volta è andata a trovare la famiglia di lui nella periferia parigina non risparmiandosi commenti inflessibili sulla sporcizia della casa, il puzzo dei componenti della famiglia e sull’indecenza di tutta la periferia nella quale promette di non voler più fare ritorno. Questo personaggio femminile viene connotato da tratti negativi attraverso un lungo monologo.

Nella seconda parte troviamo invece una una coppia con una figlia adolescente.  E’ venerdì sera, sono in casa, il campanello suona e alla vista di un afrodiscendente alla porta la donna chiede al marito di non aprire, ma viene redarguita per i suoi pregiudizi. Il marito con un gesto di tolleranza volto a educare la moglie fa entrare il giovane che dice di essere ferito e di dover scappare, ma il giovane uomo stuprerà e ucciderà la figlia.

La madre in un monologo straziante incolperà per l’accaduto in primis l’uomo ma in secundis il marito che non è stato “uomo abbastanza” da difendere la sua famiglia.

Ciò che percepiamo è da una parte l’idea spiacevole che i pregiudizi della donna l’avrebbero in realtà salvata, dall’altra il fatto che questi pregiudizi rafforzati non potranno che portare a conseguenze terribili che arrivano nell’ultimo atto, ossia quello in cui il poliziotto evidentemente razzista farà redigere una testimonianza falsa al padre in cui accusa un clochard (che immaginiamo essere proprio quello dell’inizio) di aver compiuto lui quegli atti in casa, e ancor prima di affidarlo alla giustizia, che sarebbe stata comunque ingiusta in quanto lui non era davvero il colpevole,  il padre e il poliziotto insieme compiono un linciaggio.

Durante tutto lo spettacolo si percepisce una sensazione di scomodità data da questa presenza muta a cui evidentemente era stata tolta la parola ma che sappiamo essere protagonista di tutte le vicende, che non si muove, tiene una maschera. Vediamo il suo corpo strumentalizzato e oggettificato dalla professoressa che che si diceva innamorata di lui ma si dimostrava schifata da tutto ciò che era la sua vita, lo percepivamo nelle sue parole, nel suo tono e nel suo rivolgersi a lui come se lui non fosse in scena.  Diviene poi un capro espiatorio, uno in mezzo a tutti, nella consapevolezza che lui non era il colpevole del reato ma comunque macchiato dal peccato di essere diverso. 

Solo nel finale arriva un momento di risoluzione.  Il clochard si toglie la maschera e si rivolge direttamente al pubblico, spiegando che adesso lo spettacolo è finito e finalmente potrà essere lui a parlare, e parlerà del personaggio, che è anche un riflesso di sé, raccontando del Congo e attraversando i secoli di colonialismo, sfruttamento e razzismo con  la sua storia. Racconta della natura incontaminata e di come i conquistatori siano arrivati a uccidere la sua gente e portare via ciò che di prezioso la sua terra avesse.

L’ispirazione è il Tito Andronico di Shakespeare, in particolar modo l’idea della violenza, interpretata in questo caso come violenza social dato che la trama non viene ripresa in modo fedele.  Nelle parole di Fabrizio Arcuri “Il Tito Andronico di Shakespeare è una vena sotto traccia di cui non si ricalcano le vicende ma da cui si attinge per parlare della violenza nella società. Le società sono costruite su dinamiche di competizione, e anche la logica del capitalismo lo esige, ma affinché tenga questa idea di base e affinché le società non implodano nello scontro intestìno è necessario sia sempre attivo il meccanismo di persecuzione e di sacrificio, un capro espiatorio.” 

Lo spettacolo è doloroso e inaspettato, vediamo molte ambivalenze: da una parte l’empatia con una madre distrutta che espone perfettamente il suo sentire attraverso la metafora di una bomba che detona ma che propone argomentazioni problematiche; lo spaesamento di  un padre che ha perso una figlia e si sente inutile e colpevole e si rifugia nella violenza cieca per espiarsi; sappiamo infine di non dover perdere di vista un personaggio che è sempre in silenzio ma che per questo è oscuro e incomprensibile, e ci viene solo narrato dagli altri.

Empatizzare con queste figure, che sappiamo essere in realtà negative o che non rispettano la nostra etica ci mette a disagio ma è il punto vero dello spettacolo. Il monologo finale di Martin Chishimba ci dice di non nasconderci come spesso succede dietro al “Io non sono razzista, io non penserei mai queste cose, non agirei così” ma capire che tutti siamo cresciuti all’interno di una cultura inevitabilmente razzista.

Il finale mette in discussione tutto, suggerendo prospettive aperte: “Ma il finale non c’è. Questa non è la fine”.

Chiara Papera Unaretti

  • di Fabrizio Sinisi
  • regia e luci Fabrizio Arcuri
  • con (in o.a.) Gabriele Benedetti, Martin Chishimba, Michele Guidi, Aglaia Mora, Maria Roveran
  • musiche composte ed eseguite dal vivo da Giulio Ragno Favero
  • scene e costumi Luigina Tusini
  • video Renzo Carbonera
  • macchinista Mario Iob
  • datore luci Maurizio Tell

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *