Thebes: A Global Civil War

Appena entri nella sala, una scena piena di abiti sparsi sul pavimento cattura l’attenzione; sembra quasi una rappresentazione del caos e della disorganizzazione, oppure un simbolo di identità perdute e dimenticate. Questa immagine è un’introduzione a un viaggio emotivo e interiore che ci apprestiamo a vivere con lo spettacolo. Senza una sola parola di dialogo, la scena con gli abiti sparsi crea un’atmosfera di confusione e domande senza risposta. La prima domanda è: cosa vogliono dirci questi vestiti?

Qualcuno inizia a parlare, ma in una lingua sconosciuta. Gli spettatori guardano curiosi intorno, ma non capiscono chi stia parlando. All’improvviso, una voce in arabo risuona nell’aria, e qualcuno tra il pubblico scende le scale. Poi, un’altra persona inizia a parlare in una lingua che potrebbe essere il greco, seguita da qualcuno che parla in francese. Quattro persone, ognuna proveniente dal pubblico, si dirigono verso il palco.

Questi quattro attori portano ciascuna una storia diversa: una dalla Bosnia, una dal Congo, una dal Libano e un’altra dalla Grecia. Tutti con lingue ed esperienze diverse si riuniscono sul palco. Questa combinazione multiculturale e multilingue, come simbolo della diversità e pluralità dell’umanità, crea un’atmosfera affascinante e complessa che coinvolge immediatamente lo spettatore. Rapidamente, ognuno di loro inizia a pronunciare nomi e anni di nascita, uno dopo l’altro e senza interruzioni, come se in ogni istante stessero riportando alla memoria qualcuno o rivelando un’identità. Uno spazio pieno di nomi e date che continua per qualche minuto, mentre una musica inquietante costruisce una tensione palpabile e un’atmosfera di attesa. La scena si riempie di nebbia e una luce illumina una grande scritta: Thebes: A Global Civil War.

Tutto si ferma in quell’istante; come se il tempo si fosse bloccato per un momento, ed è l’inizio…

Lo spettacolo sfrutta abilmente la tecnologia e riesce a creare un’armonia perfetta tra teatro e cinema. Questa scelta intelligente dà vita a una struttura semplice ma potente, che evita complicazioni inutili e, nella sua semplicità, risulta estremamente efficace.

Ogni personaggio sulla scena racconta la storia della propria vita, mentre contemporaneamente vengono proiettate sullo schermo immagini di tipo documentaristico. Queste immagini sembrano far sentire lo spettatore come se stesse guardando un documentario con la presenza diretta del narratore. Inoltre, l’uso della videocamera sulla scena aggiunge un altro strato all’esperienza dello spettatore. La videocamera ha più funzioni: prima di tutto, trasmette un primo piano di ogni personaggio, insieme ai sottotitoli e alle immagini documentaristiche, sullo schermo, facendo sì che lo spettatore si concentri attentamente sul display, dovendo seguire anche i sottotitoli. La seconda funzione della videocamera è creare un senso di maggiore vicinanza ai personaggi, proprio come un primo piano cinematografico che aiuta a stabilire una connessione emotiva con il pubblico. Alla fine, l’uso della telecamera crea una sensazione come se fossimo dietro le quinte di un documentario in fase di realizzazione; questa scelta intelligente unisce ancora una volta semplicità e creatività, dando vita a un’atmosfera vivace e unica. Tuttavia, il tutto non sempre funziona perfettamente; in alcuni momenti, la telecamera non è riuscita a catturare correttamente l’immagine dell’attore o le proiezioni sullo schermo non sono sincronizzate con la scena. Queste dissonanze hanno ridotto in qualche momento l’impatto dello spettacolo compromettendo in parte l’uniformità dell’esecuzione.

Gli attori ci parlano di guerre che stanno ancora avvenendo; guerre che non solo hanno influenzato il passato, ma che continuano a segnare il presente. Questa parte dello spettacolo sottolinea in particolare l’importanza della documentazione e della memoria, poiché finché esisterà l’umanità, esisteranno anche le guerre. Documentare significa raccontare le storie delle persone che sono vittime della guerra; coloro che, in un batter d’occhio, hanno perso la casa e la patria, lasciati a vagare tra la violenza e la disperazione.

Questo spettacolo, attraverso la documentazione, mantiene vive le storie di queste persone, offrendo agli spettatori l’opportunità di confrontarsi con le crude realtà che accadono in tutto il mondo. La presenza diretta e manifesta dona una voce agli individui colpiti dalla guerra, e forse questa voce può, anche solo per un momento, attirare l’attenzione degli spettatori sulle vite distrutte dall’ombra della guerra.

All’interno dello spettacolo l’elemento musicale cattura l’attenzione sin dal primo istante; una musica che rapidamente richiama alla mia mente le opere di Eleni Karaindrou. Le melodie danno vita a un’atmosfera emotiva e profonda, simile a quella sensazione di malinconia e riflessione che avevo sperimentato nelle musiche di Karaindrou. Temi musicali che non solo potenziano il carico emotivo dello spettacolo, ma creano anche una connessione immediata tra il pubblico e la storia, perfettamente in sintonia con l’atmosfera del momento.

Lo spettacolo si avvia alla conclusione con le parole di Antigone: “Io, una donna, scaverò la tua tomba. Io, una donna, spargerò la terra su di te. Nessuna legge potrà fermarmi”.

Gli abiti sparsi sulla scena sono di coloro che non possono più essere con noi, non più alle feste né ai compleanni.

Roozbeh Ranjbarian

  • uno spettacolo diPantelis Flatsousis & the ensemble / Spectrum
  • regiaPantelis Flatsousis
  • drammaturgiaPanagiota Konstantinakou
  • interpretiVedrana Bozinovic, Racha Baroud, Albertine Itela, George Paterakis
  • scene e costumiConstantinos Zamanis
  • musiche originaliHenri Kergomard
  • videoConstantine Nisidis
  • disegno sonoreChristina Thanasoula
  • assistente alla drammaturgiaIoanna Lioutsia
  • consulente scientificoManos Avgerides
  • assistenti alla regiaAthena Bakoyianni, Anna Karamanidou
  • manager di produzioneRena Andreadaki, Zoi Mouschi
  • produzioneAthens Epidaurus Festival

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