LE MIE TRE SORELLE – ASHKAN KHATIBI

Due date con il tutto esaurito, un pubblico vasto ed eterogeneo in cui si incontrano persone e culture diverse.  Entrando nella sala del Teatro Astra, si viene accolti da un ambiente raccolto. Le pareti scure di cemento assorbono i rumori, lasciando spazio solo ai suoni della scena e ai respiri del pubblico, che si fondono in un silenzio denso di aspettativa.

Il palco, con scenografia essenziale e minimalista, si presenta quasi spoglio, composto da pochi e semplici elementi (tavole di legno, teli e sedie sono gli unici oggetti di scena). Il teatro ben accoglie lo spettacolo, dal momento che il ferro e il cemento a vista che compongono la struttura possono ricordare le macerie prodotte dalla guerra. Una coincidenza da cui la scena stessa trae beneficio. Il titolo che cita Le tre sorelle di Cechov, è in grado di incuriosire e attirare lo spettatore.

Gli unici riferimenti chiari a Cechov sono tuttavia solamente tre:  il fatto che le protagoniste siano tre sorelle, il desiderio di fuggire a una vita mediocre di provincia (in questo caso di fuggire dalla miseria di un paese in guerra) e il desiderio di una delle tre ragazze di avere un lavoro più gratificante. Lo spettacolo riesce a restituire con autenticità uno spaccato della quotidianità femminile in Iran. Attraverso le vicende della protagonista e delle sue sorelle, il pubblico viene trasportato nei luoghi della loro vita: il lavoro, la casa, la strada di un Paese in cui le donne lottano ogni giorno per essere riconosciute e rispettate. 

Alcune scene dello spettacolo risultano meno incisive ed efficaci, una in particolare – il dialogo tra il padre e la ragazza – che risulta un intermezzo scollegato dalla narrazione e poco utile all’effettivo sviluppo della storia, in cui alcuni luoghi comuni sull’ Italia (cibo, musica e gioia), sebbene leggermente stereotipati, mostrano il sogno e l’illusione di fuggire in un luogo lontano e felice. Un racconto che, pur con qualche limite strutturale, riesce a dare voce a una realtà tanto dura quanto necessaria da rappresentare. La struttura narrativa dello spettacolo appare infatti a tratti frammentaria, dando l’impressione di una scrittura impulsiva. L’idea di affrontare il tema degli uomini e della società patriarcale è sicuramente potente e necessaria, ma tende in alcune scene ad offuscare la costruzione della storia stessa, in particolare nei monologhi di riflessioni della protagonista in cui emerge anche un accento psicologico nei discorsi sui rapporti di potere.

La cura dei dettagli è, invece, particolarmente evidente nell’intenso momento in cui le tre sorelle, adagiate sul letto, vengono avvolte da una luce soffusa che, insieme a una scenografia minimalista, trasforma lo spazio in un angolo di intimità. Qui, lo spettatore viene delicatamente invitato a condividere le loro emozioni più profonde: una sorella arrabbiata, una affamata e l’altra appena licenziata, ognuna immersa nel proprio tumulto interiore. Il futuro è al centro di questa scena: si nota il sogno di un futuro migliore, ma allo stesso tempo la difficoltà nel credere di poterlo raggiungere realmente. Al grido di donna, vita e libertà lo spettacolo racconta una storia reale e cruda e in grado di scuotere gli animi delle persone.

Il dolore fisico e psicologico raccontato e trasmesso è una secchiata d’acqua gelida che si riversa sul pubblico, che rimane vigile e attento per tutta la durata dello spettacolo. La lingua è elemento che crea un interessante legame tra due culture. Lo spettacolo infatti è in parte in italiano e in parte in persiano, soprattutto nelle parti cantate, quando viene proiettata la didascalia in traduzione sul fondale. Tali parti cantate, alcune rap, nelle quali risuonano i testi di Hichkas, e alcune con canti popolari attraverso la voce di Sahba Khalili Amiri, sono subito state riconosciute da chi appartiene alla cultura iraniana, perché al centro dei movimenti di protesta legati all’uccisione di Masha Amini nel 2022.  Esse risultano d’altro parte coinvolgenti e interessanti anche per un pubblico italiano, che percepisce la forza e la rabbia che stanno dietro alla lotta per i diritti umani.

Forte il pathos quando la protagonista, Sadaf Baghbani, afferma che nella lotta la sua attività fisica sia ormai diventata correre in mezzo alle terre che sono state portate via dal suo popolo e dalla pace. La scena si conclude con un video di immagini vere che raccontano come la protagonista dello spettacolo sia stata davvero la protagonista della vicenda narrata.  Quest’ultima, con 146 proiettili nel corpo, giunta in Italia per curarsi, ospitata al Teatro Astra di Torino, porta con sé una storia di dolore, resistenza e denuncia.  Sconvolge apprendere da alcuni giornali e siti d’informazione (il Manifesto, Fanpage, Amnesty international) che i proiettili presenti nel suo corpo siano di probabile produzione Italo-francese. Lo stesso Occidente che l’ha curata e l’ha aiutata a diffondere la sua storia è quello che ha prodotto il mezzo del suo dolore. un dettaglio agghiacciante che fa apprendere quanto non sia mai corretto generalizzare idee e azioni basandosi sull’area geografica di provenienza. Sul palco, la sua presenza diventa un simbolo vivente di una realtà crudele e contraddittoria.

Foto del suo corpo martoriato da 146 colpi, spezzoni di video delle proteste e immagini di corpi sofferenti e insanguinati chiudono lo spettacolo. Ne emerge un messaggio duro da cui però traspare la forza degli ideali, la fede e la speranza di poter vedere un giorno un mondo migliore. Per questo motivo lo spettacolo viene dedicato a Hossein Mohamadi, giovane attore di 27 anni iraniano, arrestato il giorno in cui la protagonista è stata colpita, condannato prima a morte e poi a tre anni di prigione.

Marta Cavalliere | Roozbeh Ranjbarian

  • drammaturgia e regia Ashkan Khatibi
  • con Sadaf Baghbani, Nazanin Aban, Saba Poori, Sahba Khalili Amiri
  • costumi Delshad Marsous
  • assistenti di scena Alma, Ava, Negar, S.A
  • assistente alla regia Pari Naz Ghasedi, Kimia Rahmani
  • realizzazione del teaser Kimia Rahmani
  • traduttrice Parisa Nazari
  • coordinatrice del progetto Negar Mokarram
  • produzione gruppo artistico Charpayeh (Scagnell)

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