QUANDO DIVENTERÒ PICCOLO – SERGIO BEERCOCK

“In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli.”

Mt. 18, 2-4

Ci sono spettacoli, la maggior parte di quelli che vediamo, che giacciono nella discarica della memoria, appallottolati accanto a migliaia di immagini inutili a cui il nostro presente bulimico ci sottopone; e ce ne sono altri, più rari, che al contrario reclamano di essere salvati. Li riacciuffiamo tra i ricordi e li riammiriamo, come chi si rigira tra le mani un cristallo, stupefatto dalla grazia: tra gli spettacoli pieni di grazia c’è sicuramente questo di Sergio Beercock, Quando diventerò piccolo. Da quando l’ho visto in scena, domenica 30 marzo al CuboTeatro, in occasione di PollineFest a Torino, non faccio che pensarci con amore.

Laddove gli spettacoli del primo tipo, i dimenticabili, sono spesso prosaici, discorsivi, letterari (se siamo fortunati, possiamo trovarci dei testi pregevoli, che possiamo leggere con gusto in solitudine); gli spettacoli amabili sono invece poetici, musicali, sgorgano con la spontaneità della vita: sono vivi e ravvivano. Si potrebbe, infine, dire che, se il teatro che si fa dimenticare è adulto, quello amabile è bambino: non un teatro per bambini, ma un teatro bambino.
Ce lo ha donato Sergio Beercock, classe 1990, inglese di nascita, ma cresciuto in Sicilia tra Enna e Palermo. Siamo di fronte a un teatro che (evviva!) non viene amputato della musica. Beercock, infatti, è anche un musicista; e se le qualità d’attore vengono fuori nei suoi concerti, così le sue performance teatrali si giovano di un sapere musicale: i live electronics sono una presenza costante in questo lavoro, e Beercock ne sfrutta tutte le possibilità drammaturgiche, certificando: stiamo assistendo a uno spettacolo dal vivo dal vivo.
Questo spettacolo è un viaggio, un percorso tra i ricordi d’infanzia in cui il pubblico è soggetto a una trasformazione: Sergio Beercock rimbambisce il pubblico, nell’accezione più letterale del termine, lo fa tornare bambino. Questo processo lo attiva insieme ai bambini (tra il pubblico, nella nostra replica ce n’erano due, Agostino e Nora, svegli, ricettivi, precisi) con cui entra in un rapporto dialettico fatto di domande e risposte per ritrovare lo stato infantile, per ripulire i concetti dall’usura dell’abitudine: che cos’è il tempo? Una macchina, un treno, rispondono i bimbi. E attraverso lo sguardo rinnovato dai piccoli, Sergio Beercock ritrova uno stato infantile, può viaggiare da bimbo nei suoi ricordi d’infanzia; e si scopre che non è un luogo fatto solo di gioie, non è solamente piacevole, ma può rivelarsi duro, cattivo, e il teatro non ha paura dell’oscurità.

Quando diventerò piccolo Sergio Beercock l’ha scritto con il poeta Bruno Tognolini, autore dei testi che puntellano lo spettacolo, ed è un lavoro capace di operare davvero un ribaltamento in cui i bambini sono gli adulti e gli adulti sono bambini, e questo ribaltamento avviene in una dimensione mitica, in un tempo in cui il teatro era ancora rituale e i filosofi erano poeti: il tempo in cui l’umano era ancora bambino.

Giuseppe Rabita

Rime originali: Bruno Tognolini
Musiche originali: Sergio Beercock
Movimento scenico: Simona Argentieri
Produzione esecutiva: Babel

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