In alto a sinistra compaiono i titoli dei tre atti in cui è scandito lo spettacolo che Daria Deflorian e Francesca Marciano hanno scritto riprendendo la struttura dell’omonimo romanzo di Han Kang (Adelphi, 2016). Si susseguono così, contrassegnati da colori, i punti di vista del marito (Gabriele Portoghese), del cognato (Paolo Musio) e della sorella (Daria Deflorian), che sono contemporaneamente prima e terza persona insieme, alternando dialoghi a racconti, a tratti quasi come fossero letture.
Andare avanti per inerzia. «Aveva creduto nella sua bontà connaturata, nella sua umanità, ed era vissuta di conseguenza, senza mai fare del male a nessuno. Si era sempre impegnata, indefessamente, a fare le cose nel modo giusto; tutto il suo successo era dipeso da questo, e lei avrebbe continuato così per sempre».[1] Conservare lo stato delle cose. Finché non c’è un rallentamento e si rompe qualcosa. «Di colpo, fu assalita dalla sensazione di non aver mai davvero vissuto in questo mondo. […] Anche da bambina, per quanto indietro si spingesse la sua memoria, non aveva fatto altro che subire».[2]