Tutti gli articoli di Emanuele Biganzoli

Presentazione Stagione 2018-2019 Teatro Stabile Torino

Il 7 maggio 2018 al Teatro Gobetti si è tenuta la conferenza stampa di presentazione della stagione 2018/2019 del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.  Il presidente del Teatro Stabile, Lamberto Vallarino Gancia, e il direttore Filippo Fonsatti, introducono le novità della nuova stagione. Già il 2018 è iniziato con un “tridente artistico” formato dal nuovo Direttore Artistico Valerio Binasco, dal Dramaturg residente dello Stabile che si occupa della parte di ricerca, Fausto Paravidino, e  da Gabriele Vacis per la formazione, nel ruolo di Direttore della Scuola per Attori.  Un punto di svolta per lo Stabile volto a consolidare un rapporto complementare tra le sue diverse funzioni quali la produzione, la formazione e la ricerca.

La parola poi passa al direttore artistico Valerio Binasco, un vero mattatore, che si prende la scena. Ci racconta, teatralizzando la lettura, la sua idea di teatro e l’orizzonte a cui vuole tendere la nuova stagione. Comincia a parlare di sé e spiega diversi problemi a partire dai quali si è posto delle domande. Ha cercato di girare a largo dalla cattiva recitazione e che continuerà a provarci. <<La recitazione ha a che fare spesso con le bugie e l’unico metodo per dire buone bugie è nel crederci>>. Quindi il problema numero  uno è con se stesso.

Il secondo riguarda il suo modo di fare e concepire la regia. Un teatro come prassi che per manifestarsi, non ha bisogno di ragionamenti, ma solo di alcune condizioni fisiche dove persone fatte in carne e sangue incontrano persone immaginarie e in uno spazio dove poter agire. Quindi un regista deve scegliere le persone e lo spazio in cui farle agire e mettersi in ascolto profondo di quel che accade tra attori e lo spazio.

Cita poi uno dei suoi maestri che lo ha influenzato con i propri scritti, Peter Brook. Da lui ha preso anche l’abitudine a lavorare sugli esercizi. La recitazione va continuamente nutrita, stimolata, coccolata.

Il terzo problema  riguardo l’idea del mondo. Per avere un’idea di teatro ci vuole un’idea di mondo, e quindi dell’uomo. Binasco è innamorato della vita degli uomini , e da lì nasce la sua vocazione teatrale . Il suo lavoro è un tentativo di narrare questo amore, condividerlo col pubblico, ma le persone non si meritano tutto questo amore.

Quest’anno darà il via ad un Ensamble, chiamato Lemon Ensamble che si terrà alle Fonderie Limone, dove gli attori vivranno e studieranno e metteranno in scena Shakespeare. Oltre a questa novità, un’altra è quella di dare spazio ai giovani, non relegandoli in una sezione a loro dedicata, per esempio delle nuove scoperte, ma integrandoli con gli altri registi e attori.

Un ultimo punto da lui affrontato è il lavoro sui classici. Teatro è un gioco, una festa. Festa dei sentimenti umani, festa delle storie che l’umanità ha raccontato su se stessa e sui suoi sentimenti. L’antico teatro è ancora il teatro della festa e della favola. Un teatro classico che ha continuato ad essere contemporaneo nei secoli. Siamo tutti contemporanei, almeno da Socrate in poi.

Questa è l’idea di teatro di Valerio Binasco. Ma veniamo agli spettacoli in programma per la prossima stagione. Qualche numero: 67 spettacoli di cui 17 produzioni, 32 spettacoli ospiti e 18 di Torinodanza. Proposte che spazieranno dai grandi classici, portati in scena anche in modo innovativo, alla drammaturgia contemporanea. Un programma molto ricco, attento alla valorizzazione dei talenti emergenti e sempre più internazionale, come conferma l’inserimento del Teatro Stabile di Torino (unico teatro italiano) nel prestigioso network Mitos 21, composto dai più importanti teatri europei.

Nucleo centrale, come di consueto, sarà il progetto produttivo: a portare in scena i classici in modo originale, mantenendo un rispetto del testo risaltandone l’attualità, sarà Valerio Binasco con Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (spettacolo di apertura della stagione al Teatro Carignano) e Amleto di William Shakespeare. A mettere in scena altri classici saranno Antonio Latella che dirigerà L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi di Sergio Tofano e Nino Rota; Filippo Dini che curerà la regia di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello,  con Giuseppe Battiston e Maria Paiato, arte e vita si disintegrano sulle tavole del palcoscenico, potente metafore sull’incertezza delle relazioni; Jurij Ferrini regista e interprete di Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand.

L’impegno Internazionale si conferma con la produzione de La Maladie de la mort, una profonda esplorazione dell’intimità, della pornografia e del sesso, diretto dalla regista inglese Katie Mitchell, coprodotto con il Theatre des Bouffes du Nord,  e con Nora/Natale in casa Helmer diretto da Kriszta Szekely, giovane regista ungherese; Alain Platel porterà in scena Requiem Pour L., riflessione sofferta sul tema della morte intesa come parte sostanziale e sublime della vita, come esperienza umana e spirituale.

La valorizzazione della drammaturgia contemporanea avviene con la messa in scena per esempio de La ballata di Johnny e Gill di Fausto Paravidino , un viaggio della speranza; Sei di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, che si soffermano per la prima volta su un testo pirandelliano; la difficoltà di vivere con un malato, le dinamiche famigliari che si incrinano di fronte ad un disturbo mentale, il rapporto tra genitori ed adolescenti, e un omicidio sono presenti in Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Simon Stephens dal romanzo di Mark Haddon diretto da Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; Il canto della caduta di Marta Cuscunà, giovane talento emergente, artefice di un teatro impetuoso e coinvolgente, racconta della fine di un regno delle donne e l’inizio di una nuova epoca del dominio e della spada, con la presenza di robot analogici creando una sinergia tra arte e tecnologia; Francesco d’amore e Luciana Maniaci mettono in scena Petronia, interrogandosi sull’immaginazione come unica forza capace di rivoluzionare le nostre vite.

Tra le produzioni ci saranno anche Se questo è un uomo di Valter Malosti; tornerà Novecento di Alessandro Baricco diretto da Gabriele Vacis e Mistero Buffo di Dario Fo, per la regia di Eugenio Allegri.

Altri spettacoli saranno Il giocatore da Fedor Dostoevskij diretto da Gabriele Russo ; I miserabili da Victor Hugo e diretto da Franco Però; Massimo Popolizio porterà in scena Ragazzi di vita di Pasolini; sarà presente anche Cechov con Il Gabbiano per la regia di Marco Sciaccaluga; Il vangelo secondo Lorenzo portato in scena da Leo Muscato; Giuseppe Cederna dirige Mozart-Il sogno di un clown; sarà presente inoltre Gabriele Lavia con I ragazzi che si amano da Jacques Prevert; Emma Dante con La scortecata.

Molti altri nomi comporranno la prossima stagione dello Stabile di Torino. Tutti insieme formeranno, per riprendere alcune delle parole di Valerio Binasco, una festa, perché il teatro è una festa, a cui tutti siamo invitati.

Torino, 7 maggio 2018

 

INFO STAMPA: Area  Stampa e Comunicazione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

CarlA Galliano (Responsabile), Simone Carrera

Via Rossino 12 – Torino (Italia). Telefono + 39 011 5169414 –  5169435

E-mail: galliano@teatrostabiletorino.itcarrera@teatrostabiletorino.it – www.teatrostabiletorino.it

 

XXIII Edizione Festival delle Colline Torinesi

Presso la Fondazione Mertz si è tenuta il 26 aprile scorso la presentazione della XXIII edizione del Festival delle Colline Torinesi, dedicato alla drammaturgia e tematiche contemporanee.

Il Festival, diretto da Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla, è realizzato in sinergia con la Fondazione  Teatro Piemonte Europa. Il Festival presenta autori, registi, interpreti  di diverse paesi del mondo, tra cui Francia, Svizzera, Spagna, Grecia, Romania, Iran, Costa D’Avorio oltre che all’Italia, ancora una volta per ribadire al sua internazionalità e apertura verso altri contesti teatrali. Tante le collaborazioni, tra le quali quelle con Teatro Stabile Torino, Piemonte dal Vivo, Casa del Teatro Ragazzi e con altre istituzioni non teatrali come Il Museo Nazionale del Cinema e la Fondazione Merz.

Dall’1 al 22 giugno 2018 si potrà assistere a molti spettacoli e incontri stimolanti che ruotano attorno al Festival .

Alla presentazione si sciorina il programma degli spettacoli anticipando che questa edizione avrà come tema principale il Fluctus, il viaggio in tutte le sue declinazioni. Il viaggio e il valore della memoria in Empire di Milo Rau, dove protagonisti sono quattro attori/migranti che raccontano le loro odissee. Ancora le migrazioni come fenomeno culturale ritornano in Birdie di Agrupacion  Senor Serrano, compagnia catalana che accosta i migranti agli Uccelli di Hitchcock. La compagnia greca Blitz Theatre con Late night cercherà di capire cosa stia accadendo all’Europa, raffigurandola ferita e decadente.  Il viaggio interplanetario con Vieni su Marte di Vico Quarto Mazzini, Premio Siae Sillumina.

Un altro tema importante è il rapporto tra le generazioni e i sessi. L’apertura del festival sarà affidata alla Trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati. Tre spettacoli nella stessa serata partendo con Peter Pan guarda sotto le gonne, poi Stabat Mater e infine Un Eschimese in Amazzonia. L’iraniano Amir Reza Koohestami in Summerless riflette sul rapporto fra uomini e donne, giovani e vecchi, in mondo che sta cambiando. Lo scontro tra le culture presente sia in Causa di Beatificazioni di Massimo Sgorbani diretto da Michele di Mauro, e sia in Ritratto di donna araba che guarda il mare di Davide Carnevali, messo in scena da Lab121 con la regia di Claudio Autelli.

Molti sono gli spunti letterari o riferimenti alla drammaturgia classica: Giulio Cesare. Pezzi staccati da Shakesperare, spettacolo-istallazione di Romeo Castellucci; Dialoghi con Leucò, studio firmato da Silvia Costa e dedicato al mondo di Cesare Pavese; Platonov / commedia senza padri, progetto biennale cechoviano del Mulino di Amleto; Oh no, Simon Weil!, liberamente tratto dalla vita e dalle opere di Simon Weil, monologo di Milena Costanzo; uno spettacolo itinerante di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti, Dickinson’s Walk; una serata a soggetto di Chiara Lagani, sulla saga dei Libri di Oz. Inoltre saranno presenti il premio Ubu per il miglior spettacolo 2017 Macbettu, un Macbeth recitato in sardo e da soli uomini, e il premio Ubu miglior attrice under 35, Cristina Balivo che reciterà in La buona educazione della Compagnia Dammacco. A chiudere il Festival sarà Aiace di Linda Dalisi e Matteo Luoni che riscrivono la tragedia di Sofocle, interpretato dall’attore ivoriano Abrham Kouadio Narcisse.

Oltre a questi e altri spettacoli, non mancheranno eventi che ruotano attorno al Festival, come “Cinema in scena”, in collaborazione con Il Museo Nazionale del Cinema, proiezioni di film che si terranno al cinema Massimo, inerenti agli spettacoli in cartellone: a maggio, Untitled viaggio senza fine di Michael Glawogger/Monika Willi, nel mese di giugno, Uccelli di Alfred Hitchcock, Macbeth di Roman Polanski, Stanze di Gianluca e Massimiliano De Serio.

Ci saranno incontri con gli artisti de Festival a cura di Laura Bevione e un incontro dal titolo Fluctus, riflessioni sulle declinazioni del viaggio, aperitivo per confrontarci su viaggi geografici, emotivi, intellettuali, teatrali che caratterizzano la nostra epoca contemporanea.

Ma questo non basta. Ritorna, l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori., in cui si possono commentare spettacoli e consigliare quelli da non perdere.

Gli spettacoli, oltre che nei teatri torinesi Astra, Cafè Muller, Casa del Teatro e Gobetti, saranno proposti anche a Moncalieri alle Fonderie Limone, a Collegno alla Lavanderia a Vapore e in spazi cittadini non tradizionali quali la Fondazione Merz, il Superbudda e il Caffè Elena.

Dopo aver visto il volto di bambini che non hanno mai avuto modo di sorridere […],

dopo esser stati in balia dei venti del deserto che accecano e bruciano gli occhi per farvi dimenticare […],

allora è lo stesso, vivere, morire, sognare o amare,

allora la nostalgia è come il troppo vino che finisce per ucciderti […].

(Lida Abdul, Segno di artista: Time, Love and the workings of anti-love)

Con questa poesia  vi auguriamo buon festival chiedendovi di partecipare numerosi, non per fare come si suol dire numero, ma condividere il momento teatro  con chi vi sta accanto e chi sulla scena. Ribadendo che anche un buon spettatore è necessario alla rappresentazione. Vi aspettiamo!

Per chi sente un desiderio profondo di partecipare al Festival e vuole divorare gli spettacoli, indichiamo riduzioni dei biglietti se acquistati entro al data del 13 maggio. I biglietti possono essere acquistati al Teatro Astra, nelle rivendite Vivaticket (online www.vivaticket.it), A  Infopiemonte  – Torinocultura.

@Contatti (per info e abbonamenti):+011 5634352

+393462195112; www.festivaldellecolline.it

@Luoghi: Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Cafè Muller, Fonderie Limone (Moncalieri), Lavanderia a Vapore (Collegno), Fondazione Merz, Superbudda, Caffè Elena.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

Elvira (Elvire Jouvet 40)

“Il teatro è una cosa dello spirito e un culto dello spirito”, così Louis Jouvet pensando al perché si fa teatro e che cosa spinge un attore a entrare in questo mondo misterioso e affascinante. 

Brigitte Jacques traendo spunto dal saggio di Jouvet Molière et la comedie classique (1965, Gallimard), scrive questa pièce teatrale che si concentra su sette lezioni che l’artista francese fece stenografare tra il 1939 e il 1940. Toni Servillo dirige e interpreta  l’apologo del mestiere dell’attore, entrando  nella tecnica e nel pensiero di Jouvet.

In queste lezioni,  che si svolsero  tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940, Jouvet fa preparare a una giovane attrice, Claudia, l’ultima scena del personaggio di Elvira nel Don Giovanni di Molière.  Un’avventura a due, maestro e allieva che si prendono per mano addentrandosi in un territorio oscuro, quello del personaggio. Un territorio da indagare fino in fondo per poter comprendere e dialogare con il personaggio, che va  costruito passo passo, così che lo spettatore in scena al posto dell’attore veda il personaggio. Per giungere a questo il percorso è arduo, estenuante, ma necessario. Per Jouvet  è dovere di una grande attrice arrivare a quell’emozione del personaggio. 

In questa ultima scena Elvira è cambiata: non è più rancorosa a causa del tradimento di Don Giovanni.  È come in estasi, in pace con se stessa. Va incontro a Don Giovanni, all’uomo che ha creduto di poter amare, come un angelo che scende lentamente con gli occhi pieni di luce ad annunciare qualcosa. E’ dunque una scena di annunciazione per Jouvet, in cui Elvira si accosta a Don Giovanni per supplicarlo di cambiare vita, altrimenti l’unico posto che lo accoglierà sarà l’Inferno. Tutto questo è detto   pacatamente, quasi vergognandosi dei suoi momenti di ira precedenti. Torna da lui perché in fondo lo ama ancora, vuole salvarlo.  Sarà l’ultima volta che si vedranno. Così la storia di Elvira e Don Giovanni si intreccia con la storia vera, di un maestro e un’allieva che per sette mesi hanno condiviso lavoro e passione, lezioni di vita e rimproveri reciproci, per poi perdersi e non incontrarsi mai più a causa della guerra e dell’occupazione nazista di  Parigi.

Toni Servillo, nelle vesti di Jouvet, accentua la figura di un  maestro le cui  parole sono cariche di passione, emotività e tenerezza.  È uno spettacolo fatto di sguardi e di silenzi, degli sguardi e dai silenzi da cui nasce la creazione. Può sembrare a prima vista uno spettacolo semplice, ma la grandezza sta nel rendere vive queste lezioni. Lezioni  di recitazione, ma ancor  più lezioni di vita. Sul palcoscenico accade la finzione, ma sul palcoscenico della vita ci aspetta quotidianamente e anche qui l’entrata e i movimenti devo essere quelli giusti.

Abbiamo la possibilità di vedere l’uomo, l’artista nel momento di più alto sforzo e tenerezza, il momento della creazione. Un momento grandioso e allo stesso tempo tenero, ma qui non si tratta di creare un oggetto, un materiale, ma creare il personaggio  attraverso il corpo e le parole di un’attrice.  Per arrivare al punto più alto, le paure e l’orgoglio vanno messi da parte, è necessario liberarsi mentalmente.   Così storia umana e recitazione si intrecciano in un apologo  del mestiere dell’attore che è anche una lezione di vita.

Emanuele Biganzoli

Di Brigitte Jaques

Da Molière e la commedia classica di Louis Jouvet

Traduzione: Giuseppe Monetsano

Regia: Toni Servillo

Interpreti: Toni Servillo (Louis Jouvet), Petra Valentini (Claudia/Elvira) Francesco Marino (Octave / Don Giovanni), Davide Cirri (Leon /Sganarello)

Costumi: Ortensia De Francesco

Luci: Pasquale Mari

Suono: Daghi Rondanini

Aiuto regia: Costanza Boccardi

Produzione: Teatro Milano- Teatro D’Europa, Teatri Uniti

Il senso della vita di Emma

Chi è Emma? Si potrebbe rispondere in molti modi. Emma siamo noi, la nostra vita.  Emma è semplicemente la ragazza scomparsa. Ma è anche una figura astratta, tant’è che la vediamo solo alla fine. Permette la narrazione di una storia, crea dinamiche familiari, e trasforma i personaggi. Emma è un po’ vera e un po’ falsa.   Si potrebbe continuare a trovare altri significati. Ed facile che ci sovvenga  anche una seconda domanda: qual è il senso della vita di Emma? Niente di più sbagliato. Lo spettacolo non vuole essere incentrato sulla ricerca del senso della vita di Emma, o il senso della vita in generale.

Fausto Paravidino, attore, autore e regista, molto attivo nel panorama  teatrale italiano e internazionale, da gennaio di quest’anno Dramaturg residente del Teatro Stabile di Torino, scrive e mette in scena, interpretando anche uno dei personaggi, lo spettacolo Il senso della vita di Emma. Un romanzo teatrale in due parti, dove diverse storie e dinamiche familiari si intrecciano a piccoli cambiamenti di costume e di arte, sullo sfondo della storia grande; una storia che succede addosso ai personaggi, ma non motore della vicenda, a detta del regista.

Uno spettacolo che fin dall’inizio vuole rivolgersi direttamente al pubblico, dove i personaggi hanno bisogno di narrare la loro storia, per capire come mai Emma sia scappata. Infatti, la quarta parete sarà infranta ripetutamente. Padre, madre, fratello e sorella e gli amici racconteranno a tratti qualche spezzone della vita di Emma. Lo spettatore assiste ad  una storia di due  famiglie, dagli anni sessanta fino ai giorni nostri, da quando i genitori di Emma e i loro amici si sono conosciuti fino al ritrovamento di Emma. Classi sociali differenti, ma che si incontrano. Due coppie di amici che si accorgono che è arrivato anche per loro il momento di crescere e assumersi responsabilità: da una parte Carlo (Fausto Paravidino) e Antonietta (Eva Cambiale) e dall’altra Giorgio (Jacopo Maria Bicocchi) e Clara (Marianna Folli). La prima coppia, un uomo semplice dedito ad impagliare gli animali e una professoressa di lettere un poco svampita; la seconda, una donna pettegola e isterica, che scarica le sue frustrazioni sul compagno, un letterato per bene, che si fa mettere i piedi in testa dalla compagna accettando la situazione.

I problemi giungono quando nascono i primi figli di Carlo e Antonietta: Marco, il maggiore (Gianluca Bazzoli) sempre in crisi con la propria identità, scoprendo in seguito di essere bisessuale, e vittima degli scherzi della sorella Giulia, la stronza (Angelica Leo). Impreparati a gestire i propri figli, i problemi si trasferiranno anche sugli amici: questi, stanchi del fatto che l’altra coppia ha scelto di avere figli, forse anche invidiosi, decidono di non frequentare più Carlo e Antonietta. Il punto di svolta si avrà quando Antonietta rimane incinta per la terza volta. Tutte le frustrazioni della coppia saliranno in superfice: Carlo non riesce a vedere e capire le sofferenze della moglie e così quest’ultima decide di prendersi una pausa di riflessione e si trasferisce dagli amici, con cui si era riconciliata poco prima. Il padre dovrà occuparsi dei figli, o meglio dovrà imparare ad occuparsi di loro.

Emma che per più di metà spettacolo viene solo evocata a parole, finalmente entra in scena (era la bambina che aspettavano Antonietta e Carlo), prima come bambina neonata, poi cresciuta come una marionetta, una  bambola. Forse per accentuare il fatto che sono gli altri, i genitori e i fratelli che la dirigono nella sua infanzia, la manipolano a loro piacimento, oppure solo per mostrare che è un personaggio immaginario, finto, che rappresenta qualcosa in più della semplice Emma. Fatto sta che lei procurerà non pochi problemi alla famiglia. Crescendo parla poco, ha solo un’amica con cui condivide le sue stranezze e le sue avventure di ribellione contro un sistema sporco e radical chic.  A Londra fa irruzione con altre compagne in una galleria d’arte contemporanea, con una maschera di maiale sul viso e completamente nuda, per distruggere con un quadro una pecora, sezionata a metà, esposta come opera d’arte. Qui, come all’inizio dello spettacolo si vede tutto l’intento parodico su cosa ormai possa essere considerato bello e su cosa sia un’opera d’arte. Tutto può essere considerato opera d’arte? I cambiamenti di cultura e costume, vanno di pari passo con la crescita di Emma, come se lei rappresentasse uno spartiacque tra la cultura sessantottina dei genitori e quella successiva  dei figli, di lei, che deve fare i conti con l’eredità che i genitori le hanno lasciato: non a caso è nata il giorno del delitto  Moro.

Emma è compresa solo da Leone  (Giuliano Comin), figlio dell’altra coppia, di Giorgio e Clara. Lui, innamorato,  va a cercarla, ma sarà poi rifiutato da lei. Emma torna a casa, e si allinea al sistema : va a lavorare per un’industria che di ecologico non ha nulla e sposa Nello lo Splendido (Giacomo Dossi), un discotecaro bisessuale che la tradisce con la sua logopedista. Emma a seguito in un furto nell’azienda in cui lavora, scappa in Kosovo, per riapparire in un museo inglese dove è esposto il suo ritratto. Finalmente ha lasciato il suo corpo di marionetta e la vediamo come una persona viva (Iris Fusetti). Si è tolta la maschera, una maschera imposta dagli altri, da sé con le sue fughe i suoi atti sovversivi, una maschera per stare al mondo, in un mondo che fa marionetta e ti dirige? La maschera si è trasformata nel ritratto appeso al museo ed è per questo che lo vuole distruggere?  Sarà bloccata da Leone che si trovava lì per caso ad ammirare il quadro, o meglio ad ammirare Emma. Leone le fa capire cosa ha sbagliato in tutti quegli anni di fughe di comportamenti ingrati, ma lei continuerà a sentirsi disadattata, vuole ma non riesce a trovare una sua identità, a piacersi. Colpa degli insegnamenti sbagliati, o meglio delle mancanze dei genitori? Forse. Leone e l’artista del quadro le fanno capire che la persona raffigurata nel quadro è si lei, ma rappresentata dal punto di vista dell’artista, e così il quadro rimane lì. Non dobbiamo aver paura di come ci raffigura la società ed essere noi stessi?

La chiusa finale è un piccolo gioco sul teatro, dove la storia di Emma è un po’ vera e un po’ no come il teatro, per usare le parole del regista. E qui sta il senso di chi sia Emma, una figura che esiste, che si porta dietro problemi, fa evolvere le vite degli altri personaggi e si immerge nei cambiamenti culturali, ma che allo stesso tempo è una marionetta, è finta. Emma siamo noi, è la nostra vita, così si chiudeva la prima parte.

Fausto Paravidino non vuole dare un senso ultimo allo spettacolo, ma lascia libera interpretazione allo spettatore. Non vuole neanche fare una critica alla società post-sessantottina che si trasforma, a costumi che cambiano velocemente, pur inserendo commenti parodici verso l’arte e una storia che c’è come sottofondo.

Ma se si vuole appagare la nostra ricerca a dare senso ad ogni cosa, si può trovare un possibile significato dello spettacolo parafrasando le battute di Giorgio. La vita magari non è quella che ci siamo sognati, va così. Ci sono momenti belli e altri invece di meno, ma l’importante è esserci, vivere.

Uno spettacolo da tutto esaurito pure alla penultima rappresentazione. Un pubblico però che abbocca più facilmente alle battute volgari. Altre scene potevano meritare di più la risata, ma hanno avuto meno applausi. Uno spettacolo quindi comico, ma con venature drammatiche che si diramano attraverso le crisi di queste persone, il tutto per dare uno spaccato particolare, ma abbastanza probabile di due possibili famiglie.

Uno spettacolo forse troppo didascalico. Dove a volte le azioni compiute, che si sovrappongono alle parole, suscitano la risata, o sono costruite molto bene per aumentare il senso di quello che si ascolta, altre volte questo risulta troppo pesante e scontato.
E un finale in cui tutto si fa troppo dilatato e prolisso. Ci riferiamo soprattutto all’incontro tra i due giovani al museo.
Invece, punto di forza sono le scene corali, costruite molto bene dal regista e dagli attori. Un gruppo di ben 12 attori, con a “capo” Fausto Paravidino che fa da punto focale di queste piccole coreografie, anche nei momenti in cui in scena gli attori sono solo una parte. Sul palcoscenico lo si sente e lo sentono anche gli altri attori, come se si nascondesse dietro ai suoi personaggi per far da base, da spinta per far risaltare di più i suoi compagni/personaggi.
Uno spettacolo che seppur con qualche caduta è divertente e abbastanza riuscito. In un microcosmo dove esistono problemi, si deve vivere un po’ giocosamente, prendere coscienza di sè e cercare di non morire democristiani.

Emanuele Biganzoli

Produzione: Teatro Stabile di Bolzano e Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale

Di Fausto Paravidino

Regia: Fausto Paravidino

Con: Eva Cambiale (Antonietta), Fausto Paravidino (Carlo), Marianna Folli (Clara), Jacopo Maria Bicchiere (Giorgio), Gianluca Bazzoli (Marco), Angelica Leo (Giulia), Sarà Rosa Postilla (zia Berta), Giuliano Comin (Leone), Veronika Lochmann (Ingrid), Emilia Pizza (Genziana), Maria Giulia Scarcella (dottoressa Forlì), Iris Fusetti (Emma), Giacomo Dossi (Nello, lo splendiso / don Mario).

Scene: Laura Benzi

Costumi: Sandra Cardini

Luci: Lorenzo Carlucci

Musiche originali di Enrico Melozza, eseguite da Orchestra Notturna Clandestina, diretta dall’autore

Maschere: Stefano Ciammitti

 

“Le Baccanti”. Chi è Dioniso?

Dio è morto. Ma quale Dio? Nietzsche lo ha constatato. Tutto il nostro mondo, la nostra cultura deve fare i conti con questa morte. Noi tutti, figli di Cadmo, lo abbiamo ucciso e la modernità ha preso il sopravvento. Siamo in grado di contrastare la sua rabbia feroce? Il teatro è ancora il luogo dove un dio può prendere vita?

Dopo  Fedra di Seneca, partendo dalla domanda “Chi è Dioniso?”, il regista Andrea De Rosa prosegue la sia indagine sui classici, mettendo in scena un adattamento della tragedia di Euripide, Le baccanti, in data 5 dicembre 2017, al teatro Carignano di Torino. Una produzione Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli e Fondazione Campania dei festival.

Un linguaggio antico che parla alla nostra modernità, alle sue contraddizioni ed incongruenze. Il mondo di Tebe come metafora di una ipotetica metropoli  di un mondo postmoderno, in cui si cerca di alienarsi dal mondo circostante, essere altro da sé.

Dioniso è colui che accompagna verso i confini dell’anima, confini che non si raggiungeranno mai. Spinge gli uomini ad abbandonarsi, a strapparsi di dosso la propria identità, costruita faticosamente. È un Dio portatore di doni: il vino, la droga, la danza, le allucinazioni, ma soprattutto il lenimento del dolore. Esperienze che vivono gli adolescenti. Per questo, Dioniso è un dio adolescente che si rivolge a loro. Gli adolescenti si trovano nella situazione di non sapere chi sono e in questa fase complicata, quel dio porta loro sollievo, unico modo per non sentire il dolore della crescita. Tematica più che attuale.

foto Marco Ghidelli

Dioniso è interpretato da una donna, l’attrice Federica Rosellini,  già assistente alla regia di Luca Ronconi per Panico, attrice di molti spettacoli teatrali tra cui Santa estasi di Antonio Latella, e attrice di cinema premiata a Venezia. Una scelta che si è rivelata giusta. Si ha veramente la sensazione che Dioniso sia in scena. Capelli lunghi biondi che cadono sul seno coperto appena da una velo trasparente, e dei jeans scuri completano questo dio moderno che con la sua voce deve penetrare nelle persone, ammaliarle e comandarle verso l’irrazionalità più sfrenata. La scelta di Dioniso al femminile sottolinea meglio la natura bisessuale di questo dio e l’attrice riesce a condensare insieme la parte più femminea e fanciullesca del dio, con l’altra più violenta e feroce. L’insieme di questi due aspetti aumenta il livello di tensione erotica, che raggiunge il  massimo grado nel rapporto tra Penteo e il dio. Un erotismo con una vena infantile, sì violento, ma anche ferito. Dioniso è un personaggio bestiale solo nella forma più genuina del termine: è stato strappato dal grembo materno e risente di questa mancanza.

Penteo allora è il suo doppio, con le sue ossessioni. Anche lui è privo della madre, Agave, preda di Dioniso, ormai a capo delle baccanti a condurre una vita istintuale e selvaggia. Sicuramente ha qualcosa di represso: tentato e pieno anche lui di Dioniso, vorrà vedere la madre posseduta. Penteo deve morire per aver osato mettersi contro il dio. Così questi  lo punisce, ma non prima di avergli fatto provare l’abbandono dei sensi, l’irrazionalità, l’amore carnale, non prima di avergli fatto sentire chi è Dioniso. A interpretare Penteo è Lino Musella, non benissimo, perché viene accentuata troppo la parte influenzabile,  corruttibile, repressa di un re che non sa fare il re, come se fosse un ingenuo che viene abbindolato dal primo venditore che vede. Manca, o meglio, è un po’ sbrigativa la congiunzione tra quando Penteo è un re che non vuole sottomettersi al dio, e quando invece cade preda di questi. Invece, reso molto bene da Dioniso-Rosellini l’atto di possedere il re, avvicinandosi lentamente e poi arrampicandosi con movimenti ferini sul trono per  trasformarlo.  Penteo in primis è un re di una grande città, Tebe, e per questo deve proteggerla dalla nuova “moda”, dal nuovo culto che si sta diffondendo a causa di Dioniso. Lui sa chi è, al contrario di chi ha perso coscienza di sé, è per questo è saldo, forte e non deve cedere al dio. Tuttavia, verrà  anche lui ammaliato perché Dioniso agirà sul  suo lato più insicuro, rivelando a Penteo il suo bisogno di perdersi. Tale passaggio poteva essere reso con più efficacia. Infatti, solo l’atto finale di questa trasformazione è reso bene, con Penteo che, vestito con abiti da donna,  va verso la morte per la propria curiosità, mentre Dioniso, seduto sul trono di Tebe, osserva il suo prodotto e si prepara a finire la sua vendetta.

foto di Marco Ghidelli

Gli altri personaggi Cadmo e Tiresia, rispettivamente Ruggero Dondi e Marco Cavicchioli, sono due figure grottesche, due furbi. Il primo è pronto a trarre profitto da questo nuovo culto di Dioniso e il secondo è un opportunista. Incitano il popola a perdersi, e danzano mentre si compirà la tragedia. Sono dei finti folli contrapposti ai veri folli, come Penteo o la madre Agave, interpretata da Cristina Donadio. Una madre che uccide il figlio, posseduta dal dio, in una caccia di belve tra belve. Una testa cullata tra mani, trofeo di guerra, protetta e riconosciuta solo dopo il parto. Una madre che partorisce un figlio. Morto. Questo parto è un parto di Dioniso, del dio, un parto morto, una metafora per dimostrare come noi nasciamo già morti, ma anche metafora ribaltata della condizione di un dio che è morto. Un parto non molto chiaro nell’immediato, ma a cui una riflessione successiva contribuisce a dare forza espressiva e semantica. “Agave la si può immaginare come le ragazze madri, o le donne degli anni ’70, dove non c’erano limiti”, ci dice l’attrice Cristina Donadio. Alla fine, Dioniso dirà basta e tornerà al suo mondo selvaggio.I personaggi non hanno un carattere vero e proprio, sono follia, maschere. Dioniso offre a tutti la  possibilità di mascherarsi. Non ci sono caratteri, ma solo corpi. Corpi seminudi, sporchi, insanguinati, vestiti con indumenti trasparenti e color carne altrettanto sporchi, tacchi al posto degli zoccoli: la natura  selvaggia di questi corpi è evidente.

Lo spettacolo inizia con Dioniso che si presenta, mentre dispensa  piacere con  la sua voce ammaliatrice, come se fosse un cantante su un palco di un rave party mentre canta e urla in un escalation sempre più forte, e la sue baccanti ballano, perse, fino a che hanno forza. Dioniso è il marionettista che con la sua voce, il vino, la droga, fa danzare le sue marionette.  In fondo al palco si intravede il rito, l’orgia in onore di Dioniso. Una parete fatta di casse acustiche rimanda la musica  allucinatoria di Dioniso. Un suono di basso continuo che dura per quasi tutto lo spettacolo, interrompendosi solo quando Penteo viene ucciso, ma che poi ricomincia, perché la musica di Dioniso non termina mai. Un suono ossessivo che investe anche lo spettatore e lo fa immergere in quel rito che si sta compiendo sul palcoscenico, fino al punto di non accorgersi più di quella musica. Lo spettacolo è tutto giocato sul ritmo e gli attori recitano in modo antinaturalistico seguendo sempre il tempo  della musica. Così come è  arrivato a Tebe, ora Dioniso se ne va, dopo aver compiuto la sua vendetta contro un re e un popolo che hanno osato sfidare  il dio, peccando di “ubris”. Nulla può fermare Dioniso, perché tutti hanno bisogno di lui.

foto di Marco Ghidelli

Un adattamento ben fatto e non didascalico, in cui emerge con chiarezza il paragone con il nostro mondo. Una tematica attuale: noi siamo tentati da vari rimedi facili per alleviare il nostro dolore e abbiamo bisogno di estraniarci dalla razionalità, dalla realtà che ci circonda per fermare per un attimo un tempo che ha visto la morte di Dio causata da noi stessi. Dioniso è in noi, lo abbiamo reso indispensabile.

Emanuele Biganzoli

 

Autore: Euripide

Adattamento e regia: Andrea De Rosa

Attori: Marco Cavicchioli (Tiresia), Cristina Donadio (Agave), Ruggero Dondi (Cadmo), Lino Musella (Penteo), Matthieu Pastore (Messaggero), Irene Petris (Coro), Federica Rosellini (Dioniso), Emilio Vacca (Messaggero), Carlotta Viscovo (coro), allieve della scuola teatrale del Teatro Stabile di Napoli Maria Luisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei (Coro)

Scene: Simone Mannino

Costumi: Fabio Sonnino

Luci: Pasquale Mari

Musiche originali: G.U.P. Alcaro e Davide Tomat

Produzione: Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli, Fondazione Campania dei Festival

 

Ma sono mille papaveri rossi-Tangram Teatro

Chi è il nemico? E dove si trova? L’identificazione del nemico e, in seguito, il passo successivo di elaborare una strategia per annientarlo, è una costante che permea tutta la nostra vita. Oggi, come cento o mille anni fa e così a ritroso. Il nemico c’è quando lo creiamo noi, è una nostra invenzione. Ne abbiamo bisogno per dare forse un senso alla nostra vita, per muoverci dal torpore della noia dandoci una spinta, facendo da catalizzatore o solo per giustificare qualche nostra azione. Se il nemico è sempre l’altro, noi ad un primo sguardo siamo autorizzati a far la parte dell’eroe, ma l’altro lato della medaglia mostra come tutti possiamo diventare il nemico dell’altro. Un discorso vivo anche tutt’ora, dove questa figura fa comodo, costruisce strategie politiche e militari, o in piccolo, strategie sociali di quartiere, che si portano dietro discriminazione e odio. Un camaleonte in questo mondo camaleontico.
Un passo ulteriore è stato fatto. Ora è superflua anche la domanda iniziale: siamo sicuri che il nemico è lì davanti a noi, però non sempre ha il fucile in mano. Il dubbio dell’errore non ci turba. Ma questo è solo un dettaglio.

Un passo indietro ora è necessario: ritornare almeno, se non possiamo farne a meno, a riflettere su quella domanda iniziale per poter cercare una risposta adeguata. Qui ci vengono in soccorso la grande storia dei libri e quella piccola di persone comuni, come Susanna, che sono state catapultate nel Novecento e che probabilmente un nemico lo hanno trovato. “Il nemico è dentro di noi”, dice Susanna, ormai nonna, al nipotino. Tutto questo sottovoce, meglio che la gente non lo senta, non può capire.

La regista e direttrice del Tangram Teatro Ivana Ferri, mette in scena la storia di Susanna, bambina al tempo marcio della Grande Guerra che crescendo vedrà e sarà toccata dai grandi eventi che hanno visto luce durante tutto l’arco del Novecento. “Un viaggio”, dice la regista, “attraverso un secolo alla ricerca del nemico, per crescere, imparare e capire con la saggezza dei semplici e l’onestà di chi non ha dimenticato i valori”.
Come un vero e proprio cantastorie, l’attore e co-direttore del Tangram Teatro Bruno Maria Ferrario, ci narra questa vicenda, districandosi tra le decadi del secolo, attraverso la storia Grande e quella piccola di Susanna, delle persone comuni e tendendo le fila con le canzoni d’autore di grandi cantautori italiani che hanno a loro volto raccontato di quei momenti, come Ivano Fossati, Roberto Vecchioni, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Lucio Dalla. La canzone d’autore è riuscita ad indagare il nostro tempo, accompagnando la crescita di generazioni, dando spazio alle figure emarginate, a spaccati sociali e alla rabbia del momento.

<<C’è un giorno che ci siamo perduti
Come smarrire un anello in un prato
E c’era tutto un programma futuro
Che non abbiamo avverato>>,
( Estratto di C’è tempo di Ivano Fossati.

Susanna ha tre anni quando nel 1917 è costretta ad accompagnare la madre nella sua discesa agli inferi, perché, stanca di aspettare, vuole riafferrare la vita, riportarla in superficie. Attraversa campi, soldati maciullati lì distesi. C’è il vento che porta le voci dei morti. Può desistere, la incitano a non desistere. Ma questo non è contemplato da lei. La vita, la voglia di portare fine a quell’ansia, a quel dramma personale, la necessità di voler rivedere suo marito. Va a Caporetto a cercare il marito, con la sua bambina Susanna. Una madre e una piccola ignara di ciò che accade intorno a lei, immerse in un mondo in disfacimento che vogliono andare oltre la consolazione di un papavero rosso. Susanna ritrova il suo papà. Tornano a casa. Eroe è colui che cerca e che continua a cercare.
La prima guerra mondiale si portò dietro la seconda guerra, e altro terrore e distruzione. Altro tempo in cui quello che abbiamo seminato non darà mai frutti. Nuovi nemici da annientare.

“Sogna, ragazzo sogna
Quando cade il vento ma non è finita
Quando muore un uomo per la stessa vita
Che sognavi tu”

( da Sogna ragazzo sogna di Roberto Vecchioni)

E intanto Susanna cresce. La mente rivolta sempre a Pierino, il suo grande amore scomparso chissà dove. Sposa, però, Giovanni a cui col tempo si era affezionata. Ha due figlie. La storia del mondo si intreccia ancora una volta con quella personale. Arriva in Italia il boom economico e Susanna si trova a confrontarsi con le nuove tecnologie, la TV. La prima e ultima volta.  Vedrà sì i primi computer e i telefonini, ma non rimarrà influenzata dalle innovazioni, tenendosi a debita distanza. Probabilmente non riuscirà a comprenderle sino in fondo, o forse le vedrà solo come un ulteriore faccia del nemico. Lei nella sua vita di nemici ne aveva visti tanti. Il soldato con la giubba diversa, il fascista, ora trasformatosi nel rosso comunista, o semplicemente il barbone, il nero. E così velocemente se ne va via anche il boom, con le sue contraddizioni. Lasciando sogni non propriamente realizzati, punte amare in bocca tentata.

Però la storia non si ferma
davvero davanti ad un portone
la storia entra dentro le stanze e le brucia
la storia dà torto o dà ragione

(Da La storia siamo noi di Francesco De Gregori)

Sì, la storia non si ferma, e così il malcontento scoppia nel ’68. Studenti, ragazzi, è un giorno in cui quasi tutta la gente si tende la mano. Così una delle figlie di Susanna, quella più combattiva sarà affascinata dalla rivolta, sarà parte degli eventi, della contestazione. Stato corrotto, povertà, mancanza di diritti. Il ribelle contro lo sporco poliziotto. Il comunista contro lo sbirro. Lo sbirro contro il rosso. Una folla borghese benestante che sfida il poliziotto ormai povero. Punti di vista diversi, nemici nuovi e diversi.
Susanna ormai nonna, vede mutare la sua Nazione, i suoi ideali si nascondono, sono vecchi e vanno verso la rovina. Un mondo in trasformazione, un mondo forse che non le appartiene più. Ma per stare al mondo basta la saggezza, quella semplice ricevuta in dono dal trascorrere dei giorni, da elargire gratuitamente a chi ha tempo per ascoltare. E con le sue parole cresce il nipotino. Parole a volte che non comprende, perché ancora troppo piccolo, ma che capirà in futuro, come la piccola Susanna comprese la ricerca di vita della madre. Si ricorderà le parole della nonna su il nemico che, prima, bisogna cercare dentro di sé. E i sogni. La nonna seppur anziana oltre ai crucci per il presente, sognava. Un sogno che tende al futuro, ma che si salda sul passato. Su quel giorno in cui non vide più Pierino e quello futuro, ormai novantenne, in cui al notiziario venne trovato il corpo del giovane congelato dal gelo di un ghiacciaio per tutto quel tempo. Fantasia e realtà si mescolano per dare un tono in più alla nostra vita.

Sogna, ragazzo sogna
Quando lei si volta
Quando lei non torna
Quando il solo passo
Che fermava il cuore
Non lo senti più.

(Da Sogna ragazzo sogna di Roberto Vecchioni)

Susanna si fermerà alle soglie del nuovo millennio. Vedrà gli stravolgimenti sociali, politici ed economici. Si è portata dietro, da bambina fino ad ora, cicatrici, esperienze e valori. Ne ha parlato, ha cercato di tramandarli pur sapendo che non potevano adattarsi ad un mondo nuovo. Lei se ne va e lascia spazio al nipotino, al futuro e quindi a noi. Con lei il Novecento con i suoi picchi e le sue voragini ci lascia. Cosa abbiamo imparato da Susanna? Cosa abbiamo noi di lei? È il caso che riflettiamo meglio sul nostro tempo perduto, per poter affrontare meglio le contraddizioni del nostro presente e poter tornare a cercare la vita.
Questo spettacolo ci invita a continuare a cercare e sognare, continuando ad alimentare la storia, magari senza generalizzare il nemico.
La storia siamo noi. La si trova nei libri, nei film, nelle canzoni, ma con più attenzione la si ritrova anche nelle parole di chi ha vissuto più di noi.

Emanuele Biganzoli

 

Scritto e diretto da IVANA FERRI con Bruno Maria Ferraro

Musiche di Ivano Fossati, Roberto Vecchioni, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Lucio Dalla

Voci fuori scena: Susanna Ferro e Niccolò Fortunato

Arrangiamenti musicali: MASSIMO GERMINI

Disegno luci: MASSIMILIANO BRESSAN

Montaggio immagini: GIANNI DE MATTEIS

Assistenza tecnica: ANDREA BORGNIN

Materiali tecnici: DB SOUND- ASTI

Organizzazione: ROBERTA SAVIAN

Segreteria di produzione: FRANCESCA ROSINI

Produzione: TANGRAM TEATRO TORINO con il sostegno del SISTEMA TEATRO TORINO- REGIONE PIEMONTE MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI

 

 

Elettra: una vendetta al sapore di libertà

La tragedia di Elettra viene portata in scena da Giuliano Scarpinato, attore e regista della scuola del Teatro Stabile di Torino. Ma non è strettamente la tragedia greca, comunemente nota a noi spettatori e lettori dei classici greci, Eschilo, Sofocle o Euripide. È una tragedia che si protrae nel tempo, un mito che passa per diverse rielaborazioni e rimane pregno di esse, fino a raggiungere la penna del drammaturgo viennese Hugo Von Hofmannsthal (1874-1929). Una rilettura in chiave moderna, non dimentica delle precedenti. Messa in scena per la prima volta il 30 ottobre 1903 al Kleines Theater di Berlino, per la regia di Max Reinhardt (1873-1943). Dedicata a Eleonora Duse, che però non recitò mai il ruolo, Von Hofmannsthal struttura la tragedia in un atto unico, in modo tale che la vicenda risulti concentrata in poco tempo, con l’assillante paura, da una parte, e la fretta di una vendetta da compiere al più presto dall’altra. Il drammaturgo incentra tutta la vicenda sulla figura di Elettra, una figura animale, una belva che rantola e si nasconde per casa, non più figura umana ormai, delirante e pazza, ma conscia dell’orrore e del sangue marcio di quella casa; l’unica che non vuole e non può rimanere indifferente davanti al padre ucciso, umiliata, imprigionata nell’ambiente domestico, la cui ostilità l’ha resa cane. Il drammaturgo, partendo dalla psicologia con accenti freudiani dei personaggi, arriva a scandagliare la psicologia e l’animo degli uomini in una chiave moderna. Sarà da qui, da questa analisi della psicologia, da questa caratterizzazione che muove il lavoro di Giuliano Scarpinato. Il regista si concentra sui personaggi e sui loro corpi, dando una maggiore fisicità, innestando tutto ciò dentro le loro pulsioni, odio sì, ma anche eros.

Lo spettacolo inizia con il sipario socchiuso. Si intravede un tavolo, presumibilmente la sala da pranzo, e alcune serve che girano intorno ad esso e poi al di fuori della nostra visuale in cerca di Elettra, chiamandola a gran voce. La paura che Elettra scappi da quella prigione è molto forte. Il sipario si apre del tutto e troviamo questo tavolone rettangolare alle cui estremità, seduti, ci sono Egisto e Clitemnestra che cenano. A bordo tavolo, in posizione centrale, tre serve ascoltano e aspettano le richieste dei padroni. Sul lato destro del palcoscenico Aio è seduto su una sedia con una chitarra in mano. ELETTRA_nuove.1Ma uno sguardo più attento va rivolto alla scenografia e al suo significato. Una tavola rettangolare lunga, come si è detto, con tovaglia bianca e tutt’intorno delle tende bianche, che lasciano intravedere l’ombra della figura che passa dietro. Un bianco dai cui traspare un’atmosfera quasi surreale, di sogno, di pace in contrasto con il sangue e l’odio presenti in quella casa, un luogo che si astrae da tutto il resto, chiuso da queste tende candide. La scelta della sala da pranzo è significativa: essa è un luogo di convivialità, luogo dove possono capitare tutti e quindi non luogo segreto, privato, dove si pianifica la morte di qualcuno. Elettra a un certo punto parlando a sua sorella, Crisotemi, quando quest’ultima rammenta che le porte sono chiuse, le consiglia di non fidarsi vivamente di questa casa e delle porte, perché dietro si può celare qualche imprevisto, qualcuno che origlia, persino i muri non sono sicuri in una casa che ha tradito il suo padrone. Un certo rimando ai drammi di Ibsen, dove le porte assumono una notevole importanza. Qui la sala da pranzo è un luogo quasi a sé stante rispetto alla casa, riparato dalle insidie dell’animo dei personaggi, una specie di rifugio fino a quando Elettra non parla con la madre, e qui svanisce l’aura da luogo incontaminato.

Egisto, qui con il corpo e la voce di Lorenzo Bartoli, è il classico usurpatore, crudele e violento, tiranno di una casa che non è sua, ma che può fare tutto quello che vuole dato che ha il benestare di Clitemnestra. Una figura goffa e spesso sciocca, che non vede oltre quello che ha e la situazione agiata in cui si trova e deve mantenere. Lo si capisce dalle prime battute, quando  pronuncia tre freddure che non fanno ridere, ma essendo lui padrone, figura maschile dominante, ha il potere di far ridere gli altri e tutti ridono, forzatamente, ma ridono, dalle serve a Clitemnestra, per di più potendo sbeffeggiare anche il povero Aio, indotto a cantare per le gozzoviglie e le bevute dei due padroni. Dapprincipio il giusto amante, la riserva ad un marito via da più di dieci anni per la Guerra, a tal punto da essere infatuata, imprigionata dai suoi voleri fino a cambiarlo come figura dominante della casa con il marito, poi ucciso in bagno. Il maschile che vince e infatua il femminile.

Finite le gozzoviglie, le serve ormai prolungamenti viventi dei voleri dei padroni, non indietreggiano o si pongono domande vedendo l’orrore della condizione in cui è ridotta Elettra. Hanno paura del mostro, ma devono controllarlo e tenerlo prigioniero per i voleri dei padroni. Elettra, interpretata formidabilmente ed energicamente da Giulia Rupi, è una belva, uno sciacallo che si nasconde e viene alla luce a fine banchetto, cercando rimasugli di cibo. Quasi una figura pazza che cerca disperatamente in una pozza o nel cielo la figura del padre, lo chiama ma lui non c’è più. Lei non è dimentica di ciò che è accaduto, il ricordo le fa riaffiorare la ragione, una ragione di vendetta nei confronti di una madre che ha ucciso e infangato il proprio marito. Sente profumo di vendetta e deve compierla ora, ma da sola non riesce e ha bisogno di un aiuto. Lo cerca nella sorella, che è però troppo spaventata: ha orrore della madre ma pensa solo a delle possibili nozze per uscire dalla casa prigione. L’aiuto Elettra lo trova invece in un avventuriero, il fratello Oreste, dapprima non riconosciuto, che torna per compiere la vedetta. Lo scontro non si gioca con pugnali e sangue, ma a parole, che colpiscono più di un’arma. Clitemnestra, qui Elena Aimone,  acconsente alla figlia Elettra di parlare. Ha bisogno di parlare, perché con il suo amante non può, buono solo per le voglie carnali; ha bisogno di ascoltare una figlia che seppur ritrosa e belva, è sempre la propria figlia. Ha bisogno di perdono e lo spera anche quando la figlia le dice che per placare tutto ci vuole il sacrificio suo, della madre. Elettra da belva ritrosa la ascolta, ma ciò le fa traboccare l’ardore di vendetta, che da lì a poco si consumerà. Finalmente libera e non più sotto le angherie dei padroni, non più prigioniera della vendetta e del ricordo del sangue del padre, Elettra sentendo voci melodiche può raggiungerle e si libera definitivamente. Una morte forse riduttiva, ma consona ad uno spirito prigioniero che raggiunge la sua pace interiore.

Il regista ci vuole mostrare come questo dramma non sia solo un dramma di vendetta, odio, ma anche un dramma dell’eros. Innanzitutto eros tra Egisto e Clitemnestra, la passione non lecita, ridondante, che sfocia in camera da letto nel programmare l’assassinio di Elettra. E poi tra Oreste ed Elettra: l’idea di una vendetta che si può compiere, il fratello disperatamente creduto morto, il fratello eroe pronto a salvare la sorella, il fratello re, re Oreste, tutte queste idee spingono Elettra all’attrazione per il fratello. Elettra da belva si trasforma in seduttrice e inganna Egisto, che si lascia influenzare dal suo appetito di carne, reso cieco dal sesso, nonostante sia l’amante della madre della ragazza.

Rimane da aggiungere che il tempo che scorre, la vendetta inesorabile sono scandite ad intervalli, da spezzoni cinematografici che ricostruiscono una specie di thriller.

ELETTRA_nuove.10

È un dramma dove il maschile trionfa sempre sul femminile. Da un’età arcaica misogina, dove è l’uomo che comanda, ad un età moderna, dove poco è cambiato. Si può persino pensare che sia un dramma attuale, magari non con vicende uguali, ma pur sempre un mondo di drammi familiari, di spargimenti di sangue, donne segregate. Ma anche nel piccolo dove a volte può apparire la figura del genitore tiranno e della prigionia del figlio, ad un assillante supervisione, per diverse ragioni, che poi porta ad una inevitabile ribellione e ad un sentirsi liberi in qualcos’altro.

Una dramma sempre attuale, una dramma di libertà, psicologica e fisica.

Emanuele Biganzoli