All’inizio vi è solo un flebile ticchettio; alla fine, il suono sincopato di una banda di paese. Nel mezzo, la storia del giovane Arturo, figlio settimino della prostituta Lucia, nato a seguito delle botte con cui l’uomo che l’aveva messa incinta ha ucciso sua madre, e che le amiche-sodali Bettina, Anna e Nuzza hanno deciso di accudire e crescere, pur nella miseria di un appartamento desolato, un tugurio che non basterebbe per una persona, dove per sopravvivere devono vendere il loro corpo alle fameliche voglie degli uomini di passaggio.
Il ticchettio è quello dei ferri da maglia: le tre donne sferruzzano, con Arturo (il bravissimo Simone Zambelli), affetto da un ritardo mentale dovuto alla sua nascita traumatica, che dondola a quel ritmo, poi si alza, danza, sublimando con il movimento sinuoso del corpo, la malattia, in uno stupore incantato che non ha bisogno di parole. E’ naturale pensare quelle donne come le tre Moire, le filatrici cui anche gli déi dovevano sottostare, che filano la vita, la misurano e, infine, ne decidono la lunghezza: e quello cui stiamo per assistere è il momento del taglio, della separazione, ma non è la morte ciò che attende Arturo, nel teatro di Emma Dante tutto si fa continua metamorfosi e trasformazione e la separazione che le tre donne hanno architettato da Arturo non è un abbandono, una fine, un lutto, piuttosto un’alba che miracolosamente disperde in colori delicati una notte nerissima.
Elias Canetti racconta che l’idea originale di questo suo testo teatrale – quasi un unicum nella sua produzione, più nota per il romanzo Autodafé e, soprattutto, per l’imponente e fondamentale saggio Massa e potere – ovvero quella di un bando esteso a tutti di non potersi specchiare, di privarsi della propria o altrui immagine riflessa o fotografata, è nata come idea giocosa nel tedio ambiguo e per certi versi imbarazzante del guardarsi allo specchio dal parrucchiere, ma che fu solo il cortocircuito con la realtà dell’inizio del regime nazista, che produceva ordini e imposizioni aberranti, come il rogo dei libri, e che vedeva tali ordini eseguiti con ottuso fervore, a dare a Canetti l’intuizione finale di scrivere questo testo.
Claudio Longhi, in questo quarto pannello di scavo sull’identità europea dopo La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht, Il ratto d’Europa e Istruzioni per non morire in pace di Paolo Di Paolo, affronta il difficile e complesso testo canettiano organizzando una sinfonia in tre tempi basato su di uno spazio circense, come il monologo iniziale del banditore Wenzel Wondrak poteva suggerire, e dove i numerosi personaggi si aggirano come marionette stilizzate e oppresse da un potere invisibile ma onnipresente, che ha lanciato il divieto assoluto di specchiarsi o di vedersi in immagine fotografiche. Accompagnati da Fausto Russo Alesi che sovente si fa una sorta di guida-burattinaio dello spettacolo, recitando le didascalie del testo, informandoci dei luoghi e dei personaggi che appena dopo appaiono e così uscendo e straniandosi dai tre personaggi che interpreta, l’imballatore Barloch – uomo grezzo e popolano – Heinrich Föhn e Josef Garaus, emblemi, come spiega Longhi stesso nel libretto introduttivo, il primo di una versione degenere del superuomo nietzschiano e il secondo della frustrazione del potere, assistiamo nel primo movimento alla gioiosa e carnevalesca adesione al bando, dove tutti i personaggi, agghindati da abiti appariscenti o grotteschi, spesso deformanti le figure, portano al rogo le fotografie, che diventano quasi una moneta di scambio per potervi partecipare con più zelo. La successione di questi personaggi (dall’insegnante alle tre amiche fino alle sei ragazzine in abito color pastello) rammenta lo svolgimento a “numeri” dei varietà e dei circo, una sorta di variazione su di un unico tema, dove la regia spinge sul pedale del grottesco per una società che pare ballare inconsapevolmente sull’orlo di un abisso – o, forse, più propriamente con l’ambientazione dello spettacolo come acrobati che non sanno di non avere reti di sicurezza sotto di sé.
L’allungamento del naso in Pinocchio è solitamente raccontato in termini morali, legato alla riprovazione verso il proferire bugie; ma sollevandosi da questo orizzonte, si potrebbe anche dire: Pinocchio è colui che, raccontando fole o fantasie, subisce una trasformazione fisica: e non è, questa, una delle possibili condizioni o definizioni dell’attore?
Ecco dunque che gli avvenimenti dei tre capitoli del Gran Teatro dei Burattini nel Pinocchio di Collodi detengono il ruolo essenziale di rivelatore della natura burattinesca di Pinocchio: e le grida con cui Arlecchino e gli altri burattini interrompono la recita nel momento in cui lo scorgono tra il pubblico segnano il momento del riconoscimento, dell’appartenenza di Pinocchio a quel mondo, in una sorta di misterioso ritorno a casa. E in quel Teatro, messo alla prova da Mangiafoco, l’enorme e pauroso burattinaio, che minaccia di bruciare Arlecchino in sua vece dopo averlo graziato dalla medesima fine, Pinocchio si propone come eroe tragico, come legno da ardere, adeguandosi perfettamente e naturalmente, per dirlo con Giorgio Manganelli dal suo Pinocchio: un libro parallelo, al “mondo, le leggi, il linguaggio del Gran Teatro”: è il momento, sempre Manganelli dixit, in cui “Egli ha incontrato se stesso, e si è riconosciuto. E si è salvato.”
Come un tentativo di
distillazione, lo sforzo di cogliere una essenza che sia oltre il mero
susseguirsi degli eventi: così ci pare il lavoro di Letizia Russo nel suo
inevitabile tradimento del romanzo “Il Maestro e Margherita” di Michail
Bulgakov nella forma teatrale. Ne sia esempio la trasformazione del capitolo
più funambolico ed esaltante del romanzo, “La magia nera e il suo
smascheramento”, nella conclusione della quête
di Woland-Satana della Margherita che sarà sua Regina nel ballo dei cento
re di quella sera: evitando saggiamente la trasposizione in scena affida il
racconto di quei folli eventi del Teatro Varietà di Mosca ad una Margherita
straniata e incantata sotto lo sguardo di Woland che la scruta con i suoi occhi,
uno verde uno colore del buio, che la ascolta, la segue, e che, infine, al riconoscersi
e consegnarsi come in sogno di Margherita come la donna cercata, la accetta
come sua compagna.
L’infinita trama del romanzo da
centinaia di personaggi è sciolta e ritessuta davanti ai nostri occhi seguendo
tre fili narrativi: quello, come si è detto, della ricerca di Margherita da
parte di Woland; la storia d’amore tormentata di Margherita e del Maestro e la
sua reclusione in un ospedale psichiatrico a seguito della mancata
pubblicazione del suo romanzo; e quella di Jeshua e del Procuratore della
Giudea Ponzio Pilato, che è la trama del romanzo scritto dal Maestro. In una
scena chiusa sui tre lati da pareti nere ardesia istoriate da scritte e disegni
ma con aperture-ante da cui fuoriescono o si affacciano i personaggi, la regia
di Baracco fa sì che i tre fili si intreccino e si alternino giocando su stili
diversi: il grottesco feroce della coorte di Woland, con le sue marionette
crudeli Korov’ev, Behemot e Hella, perfetti e inquietanti nelle loro movenze e
alterità demonica; le caricature dei dirigenti del Teatro Varietà (caricature
che però talvolta sfumano in un eccesso di ridicolo), la forza greve e possente
del dialogo alto tra Jeshua e Pilato che si fa rito nella scena dell’esecuzione
di Jeshua; e poi il fervore di Margherita, la sempre intensa Federica
Rosellini, che vola nuda non a cavallo di una scopa ma su di una altalena, un balocco
infantile, come se la liberazione del vero sé possa affermarsi solo attraverso un
ritorno all’infanzia. E poi il Maestro, Francesco Bonomo anche nel ruolo di
Pilato, ora disperato ora sommesso, che brucia il proprio manoscritto una volta
rifiutata la pubblicazione ma che anche il ricongiungimento con l’amata
Margherita non pare regalare felicità. Infine Woland, un Satana dalla sguardo
in tralice, sconfitto ma non domo, che si aggira in quello che proclama anche
suo mondo e che si riconosce figlio del dubbio, della disperazione, di tutto
ciò che davvero e propriamente riconosciamo umano: nell’interpretazione di
Michele Riondino si sovrappongono talvolta reminiscenze cinematografiche, ma lo
scoppio di risata gelida, il peso del tempo infinito che è stato e che sarà che
si porta nello sguardo, il suo essere oltre il bene e il male (non appare come
un concentrato di malvagità, accetta il mondo così com’è e soffre piuttosto
delle stesse frustate che Jeshua riceve sul corpo prima dell’interrogatorio con
Pilato, per quanto le accolga con risate e scatti giullareschi) attraggono e ne
fanno una sorta di buco nero magnetico dello spettacolo stesso. Facendosi poi
esecutore dell’imperscrutabile decisione divina di concedere il riposo e non la
pace a Margherita e al Maestro, Woland rivendica nuovamente la sua adesione e
partecipazione alle vicende umane, molto più di un lontano creatore
impossibilitato a capire davvero le sue inafferrabili creature.
Spettacolo ambizioso per forme e
contenuti, Il Maestro e Margherita tenta di mostrarci quel mistero al quale il
popolo russo del Teatro Varietà aveva rinunciato, secondo le parole di Margherita
e lo fa in quella forma – il teatro – che forse unica può ancora custodirlo e
rivelarlo.
Gabriele Cardini
Piccolo
Teatro Strehler dal 15 al 27 ottobre 2019 Il Maestro e
Margherita di Michail
Bulgakov riscritturaLetizia Russo regiaAndrea Baracco conMichele Riondinonel ruolo di Woland eFrancesco Bonomo (Maestro / Ponzio
Pilato) Federica Rosellini (Margherita) e conGiordano Agrusta (Behemot) Carolina Balucani (Hella /
Praskoy’ja / Frida) Caterina Fiocchetti (Donna che fuma
/ Natasha) Michele Nani (Marco l’Ammazzatopi /
Varenucha) Alessandro Pezzali (Korov’ev) Francesco Bolo Rossini (Berlioz /
Lichodeev / Levi Matteo) Diego Sepe (Caifa / Stravinskij /
Rimskij) Oskar Winiarski (Ivan / Ieshua) scene e costumiMarta Crisolini Malatesta luciSimone De Angelis musiche originaliGiacomo Vezzani aiuto regiaMaria Teresa Berardelli produzione Teatro
Stabile dell’Umbria con il contributo speciale
della Brunello Cucinelli Spa