Un enorme letto, posto su un piano inclinato verso il pubblico, domina la scena. Gli spettatori osservano, o per meglio dire “spiano”, come guardando attraverso le veneziane della camera da letto, l’aspro scontro che si scatena fra i due protagonisti, Yona e Leviva, sposati da trent’anni. Imprigionati nella routine di una vita ormai consumata e monotona, che per Yona è diventata così insopportabile da spingerlo ad alzarsi, in piena notte, e a svegliare la moglie, scaraventandola a terra con tutto il materasso, chiedendole: “Perché sto con te Leviva?”. E mentre lei cerca di placarlo, di parlargli con calma, lui, insultandola, si veste e prepara la valigia, pronto ad andarsene, per staccarsi da quella vita che ormai gli si stringe addosso come una prigione. A questo punto l’iniziale calma di Leviva viene meno. Anche lei comincia a rispondere aspramente alle offese del marito, dando così inizio a uno scontro spietato, dove i due infieriscono l’uno sull’altro, sputandosi addosso i rancori, le frustrazioni, le delusioni , incolpandosi a vicenda di non avere avuto la vita che avevano sognato. Quella camera matrimoniale, simbolo di intimità e affetto, si trasforma così, sotto lo sguardo del pubblico, in una sorta di ring, dove la coppia si affronta con ironia e ferocia. Sarà l’arrivo di un terzo personaggio, Gunkel, l’indiscreto amico di Yona, straziato dal celibato e dalla sua vita desolata, a portare a una sorta di svolta nel conflitto. Infatti, dopo la sua comparsa, Yona mette fine al suo proposito di andarsene e si arrende alla realtà delle cose. Lui non può andare via, gli manca il coraggio di apportare un vero cambiamento, perché ciò che lo tiene ancorato a quella vita che ormai disprezza è la paura schiacciante di rimanere soli, “soli nel buio della notte”. Ed ecco quindi la rivelazione che si spiega davanti ai due, loro stanno insieme, e staranno ancora insieme, continuando ad andare avanti nel loro quotidiano lavoro di vivere, preferendo quella vita grigia e ormai spenta, piuttosto che affrontare la solitudine. Solitudine che alla fine giunge comunque, Yona muore, l’infarto lo spegne, in quel letto che ha dominato la scena.
Con un’ottima recitazione, gli attori hanno saputo esprimere appieno la triste realtà in cui vivono i loro personaggi. Carlo Cecchi, con una recitazione un po’ trascinata, con delle frasi biascicate e il passo strisciante, ha saputo mostrare l’angoscia e lo sfinimento interiore del personaggio di Yona. Accanto a lui Fulvia Carotenuto, con una voce squillante e decisa, ha interpretato e ha reso vivo il personaggio di Leviva. Buona anche la recitazione di Massimo Loreto nei panni di Gunkel.
La regia di Andrée Ruth Shammah, grazie al grande lavoro degli attori, ha saputo mettere in scena al meglio il testo di uno dei maggiori drammaturghi israeliani, Hanoch Levin, poco conosciuto e rappresentato in Italia. Un autore criticato da coloro che non apprezzano il suo approccio libero e sincero nel raffigurare i tabù, lo stile di vita e il modo di pensare della sua gente. Il suo modo di rappresentare con sincerità il mondo che vedeva, senza censure o perbenismo, gli ha permesso di rendere vivi, veri, i suoi personaggi. Di creare un testo che svela le ombre e le meschinità che si celano dietro a ognuno di noi, e che fa riflettere sulle pieghe amare della vita e sulle debolezze dell’animo umano.
Gisella Marcuz