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Cuore/Tenebra: racconto di una tirocinante.

Ho avuto la fortuna di svolgere il tirocinio presso il Teatro Stabile di Torino, seguendo come assistente allestimento la prima fase della creazione dello spettacolo Cuore/Tenebra: migrazioni da de Amicis a Conrad, in cartellone al Teatro Carignano dal 22 maggio al 10 giugno, con la regia di Gabriele Vacis e l’allestimento (o meglio, la scenofonia) di Roberto Tarasco.

Con questo articolo voglio condividere con i lettori del blog la mia esperienza in un mondo teatrale che non conoscevo e che ho trovato estremamente interessante e coinvolgente.

Da subito mi è stato chiaro che non si trattava solo della produzione di uno spettacolo nel senso stretto del termine, ma che questo sarebbe stato il risultato finale di un progetto più ampio.

Cuore/Tenebra infatti è il primo esito spettacolare dell’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona, un progetto ideato da Gabriele Vacis, Roberto Tarasco e Barbara Bonriposi, sostenuto dal Teatro Stabile di Torino, la Regione Piemonte e la Compagnia di San Paolo.

Per comprendere l’esperienza dello spettacolo è indispensabile fare un excursus sul progetto da cui nasce.

L’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona propone un teatro sociale, basato sull’inclusione, dedicandosi alle tecniche che il teatro può offrire all’individuo, a prescindere dallo spettacolo e facendole confluire nella pratica della Schiera e nel teatro di narrazione.

La base per la cosiddetta salute personale è la consapevolezza.

In un mondo dove l’attività principale è il fare, non siamo più abituati a soffermarci ad ascoltare noi e le persone che abbiamo accanto, non siamo più in grado di prestare attenzione allo spazio in cui ci troviamo e alle relazioni che in questo spazio stabiliamo.

La parola chiave è Attenzione, e la pratica con la quale viene allenata prende il nome di Schiera, o Stormo.

Ispirandosi al volo degli uccelli, la pratica della schiera (apparentemente ma ingannevolmente facile), chiama in causa corpo, movimento e voce. Si tratta di ascoltare ciò che accade e farne costantemente parte, con la consapevolezza che chiunque può modificarlo in qualsiasi momento; di trovare un respiro comune, in cui si è parte di un coro, ma si è anche persona singola, si è parte di un gruppo ma si è anche protagonisti, consapevoli del fatto che le dinamiche e le relazioni cambiano costantemente.

Accanto all’allenamento dell’attenzione, la narrazione.

Ognuno di noi ha la sua storia, o meglio, le sue storie da raccontare e il palcoscenico si offre come il luogo dove farsi ascoltare. Un teatro per dare voce ai racconti.

A questo proposito l’Istituto porta avanti diverse attività tra le quali i colloqui con i migranti e i laboratori nelle scuole.

Mi ricollego ora con il progetto specifico Cuore/Tenebra, con il quale ho collaborato.

Lo spettacolo vede la partecipazione, oltre ad attori a tutti gli effetti, di un paziente del centro di salute mentale di Settimo Torinese, un ragazzo immigrato e sei scuole superiori di Torino e provincia.

Il punto di partenza sono i due famosi romanzi: il libro Cuore di Edmondo de Amicis e Cuore di Tenebra di Conrad.

Cuore, uscito nel 1886 è da subito uno dei libri in assoluto più venduti, nel tempo elogiato o criticato, ma che non lascia di certo indifferenti. Forte la sua matrice pedagogica nel voler formare gli Italiani come popolo unito. Enrico, un ragazzino torinese delle scuole elementari, grazie al suo diario ci racconta l’Italia e le sue storie di ricchezza, povertà, amicizia ed immigrazione (dal sud al nord Italia).

Cuore di Tenebra, del 1899, è un libro di ben diverso spessore e complessità. Narra di un viaggio nell’Africa nera, raccontando le barbarie e le razzie compiute dalle potenze occidentali sul continente africano.

Lo stesso periodo storico raccontato dai due punti di vista: storie di colonialismo e immigrazione.

Sono queste storie che Gabriele Vacis vuole portare sul palcoscenico del Carignano, mescolate con i racconti dei ragazzi delle scuole superiori e le loro esperienze di vita. Il progetto infatti si sviluppa su due fronti: la creazione con gli attori e i laboratori nelle scuole.

Durante il mio periodo di tirocinio ho avuto modo di seguire entrambi i fronti, ma in particolar modo vorrei descrivere il lavoro svolto nelle scuole, poiché è questa esperienza a rendere cosi diversa la proposta di Gabriele Vacis e Roberto Tarasco.

Il principio fondamentale è che ai ragazzi non viene detto cosa devono fare e quando devono farlo, ma vengono allenati alla consapevolezza e al racconto. Da un lato praticando la schiera e ascoltando i testi (presi da Cuore e Cuore di Tenebra) che gli attori raccontano loro, dall’altro gli viene chiesto di ricordare ed elaborare delle esperienze personali a partire da spunti di riflessione nati da temi presenti nei libri, con lo scopo di creare un filo di collegamento tra i racconti di Enrico nel suo diario e la loro quotidianità scolastica: “Ricordi una volta che hai avuto davvero paura?”, “Quando ti sei sentito parte di un “noi”?”, “C’è stato un momento in cui ti sei sentito al sicuro?”.

Ogni classe si approccia in modo diverso, e in ogni classe ci sono ragazzini e ragazzine di ogni tipo: il bulletto che si rifiuta di fare le cose, il timido, quello a cui piace stare al centro dell’attenzione, il ragazzino veramente interessato a quello che si sta facendo.

All’inizio del percorso laboratoriale le differenze erano molto evidenti. Una cosa che mi ha colpito molto è stato vedere come man mano che il lavoro avanzava, i ragazzi hanno iniziato a capire l’importanza e soprattutto la bellezza di quello che stava accadendo, lasciando piano piano cadere le resistenze, trovando cosi il piacere di fare parte di questo progetto comunitario.

Di sicuro non è questo quello che si aspettavano quando gli è stato detto che avrebbero fatto parte di un progetto teatrale.                                     Più di qualcuno nelle video interviste o nel loro Diario ha scritto “ci aspettavamo di dover interpretare qualche personaggio, e invece passiamo il tempo a camminare”.

E difatti è cosi: non c’è nessun personaggio da recitare, c’è da portare sul palcoscenico se stessi. E per portare sul palcoscenico se stessi bisogna imparare ad essere presenti, nel qui e ora, in relazione a ciò che accade e alla presenza dei compagni.

Lo stesso tipo di allenamento viene chiesto agli attori, in prova alle Fonderie Limone. Ad ogni attore sono assegnati dei racconti, ma oltre a questo, non esiste una drammaturgia precisa di ciò che deve accadere in scena. Esiste solo la verità del presente di ognuno, e sono queste verità che vanno a costruire lo spettacolo.

Concludo così, augurando una buona visione a tutti coloro che saranno prossimamente tra il pubblico del Carignano.

Lara Barzon

IL BALLO

Un’attrice, 5 voci, tanti specchi.

Sonia Bergamasco porta sulla scena del Teatro Gobetti una favola nera di Irène Némirovsky, scrittrice francese di origine ebraica vittima dell’olocausto.

E’ la storia di Antoniette, una ragazzina quattordicenne, figlia di ebrei arricchiti, trascurata da una madre troppo narcisista ed egoista per preoccuparsi di lei.

Finalmente la madre ha ottenuto la ricchezza tanto desiderata e può permettersi di dare il primo ballo, che le aprirà le porte al suo debutto in società. Ma Antoinette viene esclusa: non può parteciparvi, e tanto meno rivolgere la parola a qualcuno. Chiusa in camera. Quello è il suo posto.

La ragazza allora compie il suo atto di vendetta: in un attimo d’ira getta nel fiume gli inviti, così che nessun nobile lo riceverà mai.

E’ il giorno del ballo: il tavolo è imbandito con pietanze di ogni tipo, la sala addobbata a festa, l’orchestra pronta per suonare. Ogni cosa è predisposta per accogliere la più alta società.

Ma non arriva nessuno. Solo la vecchia cugina, presenza non gradita dalla madre, ha ricevuto il biglietto a mano, e si trova ad essere partecipe di quest’immensa umiliazione.

Di fronte alla disperazione, la figlia, col viso nascosto tra le braccia della madre in lacrime, ride. La vendetta è stata compiuta.

Sonia Bergamasco porta in scena con un’interpretazione magistrale il racconto in tutta la sua spietatezza, dando voce ai 5 protagonisti: Antoinette, la madre, il padre, l’educatrice e la vecchia cugina.

Come scrive la stessa Bergamasco è una storia “di vendetta e di disamore; (..) il teatro di un bambino solo che costruisce il suo mondo, perchè il mondo conosciuto (quello degli adulti) non è bello e non gli piace”

Ed è questo che noi vediamo: una figura esile e bianca, che si muove sola, in un palcoscenico pieno di specchi, in cui si è costretti a guardare e guardarsi: in cui madre e figlia sono costrette a rispecchiarsi.

Ma la storia di Antoinette è molto più di questo: “è l’arma di vendetta di una scrittrice che sempre, in ogni sua opera, ricorda e non perdona. La scrittura come arma, scoperta molto presto da Irène, proprio contro quella famiglia, quella madre che non aveva saputo amarla.”

Lara Barzon

Racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco
liberamente ispirato a 
Il ballo di Irène Némirovsky
disegno luci Cesare Accetta
scena Barbara Petrecca
costume di scena Giovanna Buzzi
Teatro Franco Parenti / Sonia Bergamasco

UNA VITA A MATITA

In scena il 24 Febbraio alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani “Una vita a matita” della compagnia Quinto Equilibrio.

Ogni anno nel mondo vengono festeggiati all’incirca 7 miliardi di compleanni e 21 milioni di non compleanni”

Così ci accoglie una voce fuori campo, mentre due figure entrano all’unisono in scena e si fermano ad ascoltare. Chi sono? E qual è il loro compito? Sono due scienziati alle prese con la sperimentazione delle giuste formule e tecniche per evitare catastrofi e sprechi durante i festeggiamenti di compleanno, cercando di capire quando e perchè questo rituale si è trasformato in pura forma, in un evento consumistico.

Gli esperimenti dei ricercatori, dimostrati attraverso virtuosismi acrobatici e di giocoleria, sono intervallati dalla voce registrata che passa in rassegna dati statistici e cifre di consumo talmente incredibili da farci scoppiare a ridere.

Tute bianche, scenografia quasi vuota, ad eccezione di un tavolino con lo stretto indispensabile, e delle “righe” luminose colorate costituiscono il set del laboratorio.

Le ricerche passano in esame i principali oggetti usati nelle feste di compleanno, e ne suddividono lo studio in varie fasi.

L’oggetto di studio n. 1 non poteva che essere il POP CORN. Come nasce il pop corn è noto a tutti, ma cosa succede in quell’istante in cui il nucleo si espande generando il fiocco bianco? E cosa accade quando lo sottoponiamo alla forza di gravità? Ce lo raccontano attraverso giochi sempre più comici e assurdi, che ci portano infine al secondo oggetto di studio: le trombette. Pochi sanno che il loro nome esteso è “trombette o lingua di Menelik”, e ancora meno risapute sono le sue radici. Esse affondano del XV secolo, e il nome deriva da Menelik II d’Etiopia, sovrano dalla lingua assai pungente, come il suono di queste trombette, che nessuno sopporta ma che continuano ad essere usate.

Di studio in studio arriva il momento di ricreare l’habitat ideale per i festeggiamenti: musica alta, strobo sfera, e due “ciuffi” di palloncini a creare un po’ di ambient. Ma mentre i due scienziati ballano, si rendono conto di essere soli in mezzo a tanti oggetti. Senza abbandonare la dimensione comica, la riflessione sposta la sua attenzione dagli oggetti alla sfera emotiva. Il compleanno non è solo regali, cibo e festoni, ma è in primo luogo uno di quei momenti che crea eccitazione e grandi aspettative, ma allo stesso tempo lascia dietro di se una scia di malinconia, e tutto ciò che ci rimane da fare,è esprimere i nostri desideri soffiando sulle candeline:

Vorrei sapere perchè le cose si rompono
V
orrei che gli esseri umani fossero più umani e meno esseri
V
orrei affacciarmi alla finestra di san Pietro e urlare Buon anno!
V
orrei andare in letargo con gli orsi
V
orrei che i pinguini non fossero sempre associati ai camerieri
V
orrei che mia figlia piangesse solo di felicità
V
orrei tuffarmi in una piscina piena di tagliatelle
V
orrei che una candelina rimanesse sempre accesa”

Lara Barzon

Sei Personaggi in cerca d’autore

I sei personaggi pirandelliani cercano il loro autore sul palcoscenico del Teatro Astra dal 24 al 28 Gennaio, diretti da Luca de Fusco.

Uno dei testi teatrali italiani più importanti del Novecento; un’opera, come afferma lo stesso de Fusco, “che proveniva dal futuro, anticipando i tempi in modo clamoroso”.

Per apprenderla appieno e comprendere il motore che ha spinto Pirandello a scrivere quest’opera credo sia necessario un breve excursus storico sul dramma.

A partire dall’Ottocento il sistema di valori del dramma borghese, ossia il suo essere assoluto, primario, presente e basato su rapporti intersoggettivi, va in crisi.

Con autori come Ibsen, Cechov e Strindberg, comincia a scardinarsi il modello secondo il quale un dramma per essere tale deve essere un concatenamento di azioni mosse da rapporti interpersonali che avvengono nel momento stesso in cui noi vi assistiamo.

Si comincia a riconoscere l’impossibilità di continuare a portare sulla scena drammi di questo tipo, e ad intravedere la necessità di lasciare spazio ad altri temi, come il passato, la frammentazione dell’io e l’impossibilità dei rapporti umani.

Pirandello, agli inizi del Novecento, appena dopo la fine della Prima guerra mondiale, è proprio questo che porta in scena: l’impossibilità.

Ma impossibilità di cosa?

I personaggi, entità che provengono da un altro mondo, che esistono e vivono come il loro autore li ha concepiti, “più vivi di quelli che respirano e vestono panni; meno reali forse, ma più veri” (come dice il Padre al Capocomico), costretti a vivere giorno dopo giorno il loro dramma, senza possibilità di uscirne, non possono essere rappresentati a teatro senza perdere la loro autenticità. Ogni attore interpreta un personaggio inevitabilmente a modo suo, e lo stesso spazio teatrale non permette la rappresentazione realistica dei fatti, ma è necessario mettere in atto delle convenzioni che i personaggi non accettano.

Allo stesso tempo però essi hanno bisogno di vivere il loro dramma, dal momento che esistono in relazione ad esso. Cercano un autore perchè colui che li ha concepiti (Pirandello stesso) si è rifiutato di completare l’opera dal momento in cui si è reso consapevole della sua irrappresentabilità.

Dovevano essere predestinati al romanzo, ma sono approdati al teatro, e smaniano per avere una vita artistica. Ma forse non è il teatro la forma più adatta per quello che cercano.

Questo il punto di partenza di Luca de Fusco.

Citando lo stesso regista: “la loro vicenda, così piena di ricordi, di visioni, di particolari di splendente importanza, mi ha subito fatto pensare ad una trama che si presta ad essere rappresentata più attraverso l’occhio visionario del cinema che tramite quello più concreto del teatro”.

Il lavoro del regista nasce dal pensare ai personaggi come un esperimento in rapporto con una fase iniziale dell’arte cinematografica.

Come ci racconta Gianni Garrera “i sei personaggi rinviano ad un eventualità di un cinema parlante, in un epoca in cui il cinema era ancora muto e in cui l’ipotesi avveniristica di un cinema parlante era vista come una minaccia per il teatro”.

I comportamenti dei personaggi appartengono al linguaggio cinematografico più che a quello teatrale, grazie al quale si possono udire i sottovoce, lo zoom può passare da un primo piano ad una panoramica o ad un dettaglio e ci permette di assistere ad azioni simultanee guidandoci tra i diversi luoghi senza difficoltà.

Con questo lavoro di contaminazione tra teatro e cinema de Fusco cerca di dare ai personaggi “ciò che chiedono invano al regista”.

Il video è usato per accentuare la dimensione “altra” dei personaggi, per creare gli spazi da loro richiesti e per permetterci di entrare nei loro ricordi.

Per il resto viene mantenuta l’atmosfera esplicitata dalle indicazioni di Pirandello, anche se queste non vengono rispettate alla lettera: gli attori e il capocomico entrano dalla platea, la prima attrice fa la sua entrata con un cagnolino al guinzaglio, i personaggi, molto differenziati rispetto agli attori grazie a trucco, costumi e luci (anche se non portano le maschere), non entrano dalla platea ma dal fondale del teatro che si apre “come per magia”.

La scenografia rappresenta uno spazio teatrale, più sobrio e crudele rispetto a quello che ci raccontano le didascalie dell’autore.

A completare la grande efficacia della messa in scena c’è l’interpretazione magistrale degli attori e dei personaggi, in particolare Eros Pagni e Gaia Aprea rispettivamente nel ruolo di Padre e Figliastra.

Meravigliosa e surreale l’entrata di Madama Pace (Angela Pagano), agghiacciante la scena del bordello, indisponente il silenzio del Figlio (Gianluca Musiu), emozionante l’annegamento della bambina (non un attrice ma una bambola) dietro ad uno schermo d’acqua, sorprendente lo sparo del giovinetto (Silvia Biancalana).

Immancabile il finale in cui non è più possibile distinguere i due mondi di realtà e finzione, che ci lascia, ora come nella prima rappresentazione del 1921, senza parole.

Concludo citando ancora una volta de Fusco: “Spero di indurre ad una rilettura scenica e letteraria di un testo che parla ancora oggi alla nostra coscienza contemporanea e ci invita a farci le domande più importanti e terribili sulla natura, il significato, l’essenza stessa della nostra esistenza”.

Lara Barzon