NOBODY NOBODY NOBODY. It’s ok not to be ok. Collective experience, è un complesso progetto dove il coreografo e danzatore Daniele Ninarello coniuga sperimentazione laboratoriale e performance. La ricerca artistica di questo lavoro nasce durante i primi mesi di restrizione dovuta alla situazione pandemica da Covid-19. L’autore indaga il movimento, inteso come azione di protesta contro i dispositivi di potere, la mascolinità tossica e il bullismo. NOBODY NOBODY NOBODY rappresenta un modo per potersi esporre alla propria vulnerabilità, agendo di conseguenza la propria rivoluzione nella maniera più libera possibile. Un attento processo, costituito da diverse residenze artistiche, che il coreografo ha già condiviso e che continuerà a condividere con gli studenti di diverse scuole, affiancato dalla sociologa Mariella Popolla.
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L’ORESTEA DI LIVERMORE
– Note intonate di un’orchestrazione imperfetta –
“Io voglio mostrare a cosa può assomigliare un albero quando lo si vede per la prima volta nella vita”. – (Werner Herzog)
“Se siete finiti in un vicolo cieco tornate al punto di origine…” e quale origine può essere migliore del mito?
Gli eroi e i personaggi della mitologia greca, proprio perché eccezionali, sono i più indicati per mostrare sentimenti e valori in forme accentuate e, quindi, più evidenti. Per questo il mito è quasi sempre, sia nell’antichità che nella modernità, materiale per la tragedia.
Ma il mito, nella tragedia, è sempre reinterpretato alla luce dell’attualità, cioè dei problemi culturali, sociali ed esistenziali che chi scrive vuole mettere in luce. Lo spettatore si trova così di fronte a uno specchio deformante di quello che lui stesso potrebbe essere e che a tratti è già.
La tragedia infatti diviene il luogo – letterario e teatrale – in cui si dibattono idee e questioni di carattere universale, affronta le contraddizioni della vita e della civiltà, e spesso è costruita in base a conflitti insanabili, che sono propri di ogni era. Come nel caso dell’Orestea che vede contrapporsi giustizia e vendetta, polis e sfaldamento della società, legge del taglione e giustizia amministrata da un primo tribunale.
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L’Orestea di Eschilo, l’unica trilogia integrale arrivata sino a noi da un lontano passato che ci risalda alle nostre origini, è andata in scena al teatro Carignano per la regia di Davide Livermore, in due serate ravvicinate (Agamennone e Coefore/Eumenidi) o proposta anche in un’unica maratona, dando la possibilità agli spettatori più temerari di testare il loro grado di resistenza fisica e mentale.
La tragedia, come abbiamo visto, è per sua stessa natura il genere delle grandi passioni, dei grandi amori e delle grandi atrocità.
Sarà a causa di tutta questa grandiosità che Livermore ci propone una trilogia, organizzata in due “atti”, dalla sfarzosa realizzazione: 40 attori, 2 pianoforti, 50mq di ledwall e una lancia Aprilia 1500 presente per la messa in scena al teatro greco di Siracusa, ma che al chiuso del teatro Carignano ci viene risparmiata.
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Come da tradizione del mito, Livermore prende la storia degli Atridi e l’attualizza, così l’eco della guerra di Troia diviene, grazie agli splendidi costumi di Gianluca Falaschi e alle accurate acconciature, l’eco della Seconda guerra mondiale, in un’ambientazione che si attesta tra gli anni ’30 e ’40. Il cotesto evocato si rifà però più a un certo immaginario cinematografico, sarà perché non riproduce “l’orrida realtà” ma una realtà edulcorata, “imbellettata come fa il 99% dei film hollywoodiani” per citare Tarantino. E il cinema aleggia su entrambi gli spettacoli, frequenti sono le citazioni, pensiamo fra tutte al fantasma della piccola Ifigenia che apre l’Agamennone e che nel finale si sdoppia, restituendoci l’iconica immagine delle gemelle di Shining.
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Se “Il cinema è la scrittura moderna il cui inchiostro è la luce” per dirla con Cocteau allora, come abbiamo anticipato, nella messa in scena di Livermore l’elemento che visivamente connota entrambi gli spettacoli è uno schermo di forma circolare, fatto di luce, un ledwall di 50 mq, sul quale appare una sfera che ruota sul proprio asse (come un globo terrestre) e dentro alla quale prendono forma i video progettati da D-Wok; l’elemento illusionistico è tutto tecnologico e lo riscontriamo soprattutto nella forte tridimensionalità delle immagini.
Il risultato è di impatto “grandioso”, uno strumento dall’enorme potenziale vanificato però da un utilizzo eccessivamente didascalico o che veicola una spicciola morale che disattende l’intento registico che troviamo nel pamphlet di sala:
“Ogni volta che realizziamo l’atto umano di ritrovarci a teatro, un atto intimamente più complesso della condivisione, ci troviamo a formulare una riflessione profonda nei confronti della società, una riflessione che, in questo caso diviene concreta in quanto, nell’abbraccio della parete di specchi che delimita il mondo dell’Agamennone, il destino dei personaggi sulla scena si unisce indissolubilmente a quello degli spettatori che, nel riflesso, divengono agenti”
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Così siamo investiti da occhi giganti, maremoti, incendi, esplosioni, immagini di tragedie umane degli ultimi anni, tra cui persino la Costa Concordia… d’accordo con Andrea Pocosgnich si tratta di un “un campionario di effetti visivi tutt’altro che imprescindibili se non come compendio simbolico e didascalico di certe situazioni: il fuoco e il sangue nominato si riverberano nella sfera amplificando l’immagine già impressa nella parola”.
Quel desiderio di Herzog con cui abbiamo cominciato, mostrare un albero come se lo si vedesse per la prima volta, mi sembra che appartenga in qualche modo anche a Livermore ma la natura delle parole di Eschilo contengono un potere evocativo possente, per stessa ammissione del traduttore Walter Lapini, Eschilo è l’unico dei tre tragediografi greci “a parlare davvero una lingua ancestrale e oscura”. Il suo stile grandioso, solenne, magniloquente, seppur sbiadito nella traduzione, rimane comunque poderoso. Una lingua che come dice Pasolini “si fa strada verso la meta pressando e sfondando” e che proprio per questo non ha bisogno di rafforzi visivi che distraggono e in qualche modo de-potenziano. Soprattutto se si ha a che fare con degli interpreti di indubbio valore come la brava Linda Gennari, Giuseppe Sartori nei credibili panni di un Oreste partigiano o Laura Marinoni con la sua imponente presenza scenica, orchestrati da Livermore all’interno di una precisa partitura ritmica di gesti declamatori e ostentatori che richiamano alcune plasticità tipiche dell’opera lirica. Griglia che risultava a tratti, per alcuni interpreti, persino un po’ stretta, ma che rivela una certa fedeltà alla tragedia antica.
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Il teatro di Livermore è un teatro di regia nel senso molto classico del termine. Abbiamo un assoluto rispetto del testo, si esige una fusione degli interpreti che vuol dire star lontano da un teatro che poggia sull’ “esibizionismo” degli attori, sul lusso delle attrici, sulla distinzione dei ruoli, nel senso che anche il più piccolo ruolo ha il suo momento di centralità e declamazione, in maniera molto “democratica”. Le sfarzose scene che hanno il compito di trasformare poeticamente il dramma di Eschilo, non sempre riescono nell’impresa. Scene e i costumi dovrebbero infatti essere considerati come parti integranti dell’opera poetica, cui è imposto l’obbligo non di fotografare la realtà ma di trasformarla poeticamente secondo lo stile e il carattere del dramma rappresentato a prescindere dalla scelta dell’adattamento. Ma per quanto riguarda la scenografia risulta decisamente poco organica, si ha l’impressione che gli apparati e i materiali scenici predomino e ingombrino. L’attore si trova così costretto nel movimento, a causa di uno spazio sacrificato, lo scenario spesso attrae tutta l’attenzione dello spettatore.
Va detto però che lo spettacolo, come abbiamo già accennato, e come si può vedere dall’immagine di copertina, nasce per essere rappresentato al teatro greco di Siracusa, che è uno spazio fuori misura, rivelando un progetto che forse manca di lungimiranza rispetto alla possibilità di un riadattamento in uno spazio diverso e al chiuso.
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Il pubblico è chiamato in causa come parte integrante del dramma ma se in Agamennone non è così chiaro nonostante il monologo di Cassandra che si rivolge direttamente alla platea, del resto quasi tutta l’azione scenica si svolge in proscenio con una prossimità al pubblico che tenta di inglobarlo, ma rimane il dubbio se ci riesca, nel secondo spettacolo, che racchiude Coefore/Eumenidi, il coinvolgimento del pubblico è esplicitato nominandolo come popolo di Atene durante il processo. Il pubblico è infatti invitato a votare sulla colpevolezza o innocenza di Oreste, pura formalità visto che alla fine sarà Atene con il suo voto che vale doppio ad assolvere il matricida.
Gli spettacoli nel loro complesso sono estremamente godibili, ma non assomigliano a “un albero visto per la prima volta”. Quello stupore, quella meraviglia, quello shining che entrambi gli spettacoli hanno, abbaglia, confonde, disorienta, ammicca eccessivamente.
Così alla fine il verso greco non tradotto risveglia ricordi ancestrali e anela rimpiante passeggiate nei boschi, di alberi magari non visti per la prima volta ma che non hanno la pretesa di essere altro da sé.
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Nina Margeri
CAST E CREDITI COMPLETI
AGAMENNONE
Produzione Teatro Nazionale di Genova, INDA Istituto Nazionale del Dramma Antico
Traduzione Walter Lapini
Regia Davide Livermore
Personaggi e interpreti
Musici | Diego Mingolla, Stefania Visalli
Sentinella | Maria Grazia Solano
Corifea | Gaia Aprea
Coro | Maria Laila Fernandez, Alice Giroldini, Marcello Gravina, Turi Moricca, Valentina Virando
Clitennestra | Laura Marinoni
Messaggero | Olivia Manescalchi
Agamennone | Sax Nicosia
Cassandra | Linda Gennari
Egisto | Stefano Santospago
Spettro di Ifigenia | Aurora Trovatello, Ludovica Iannetti
Vecchi argivi | Davide Pennavaria, Marco Travagli, Alessandro Trequattrini
Oreste bambino |Riccardo Bertoni
Elettra bambina| Anita Torazza
Scene Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Costumi Gianluca Falaschi
Musiche originali Mario Conte
Luci Marco De Nardi
Video Design D-Wok
Regista assistente Giancarlo Judica Cordiglia
Assistente alla regia Aurora Trovatello
Costumista assistente Anna Missaglia
Cast tecnico
direttore di scena Alberto Giolitti
direttore di palco Michele Borghini
capo macchinista Marco Fieni
macchinista Nathan Copello
macchinista / attrezzista Giulia Chittaro
capo elettricista Toni Martignetti
fonici Edoardo Ambrosio, Umberto Ferro, Stefano Gualtieri
video Luca Nasciuti
trucco e parrucco Barbara Petrolati, Giuseppe Tafuri, Giovanna Molinaro
sartoria Cristina Bandini, Viviana Bartolini
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COEFORE/EUMENIDI
ProduzioneTeatro Nazionale di Genova, INDA Istituto Nazionale del Dramma Antico
Traduzione Walter Lapini
Regia Davide Livermore
Personaggi e interpreti “Coefore”
Musici | Diego Mingolla, Stefania Visalli
Oreste | Giuseppe Sartori
Pilade | Gabriele Crisafulli
Elettra | Anna Della Rosa
Le Coefore | Gaia Aprea, Alice Giroldini, Valentina Virando, Cecilia Bernini (cantante), Graziana Palazzo (cantante), Silvia Piccollo (cantante)
Voce e immagine di Agamennone | Sax Nicosia
Clitennestra | Laura Marinoni
Cilissa | Maria Grazia Solano
Egisto | Stefano Santospago
Una donna | Nicoletta Cifariello
Le Erinni | Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca
Guardie | Lorenzo Crovo, Lorenzo Scarpino, Davide Niccolini
Personaggi e interpreti “Eumenidi”
La Pizia (Profetessa) | Maria Grazia Solano
Apollo | Giancarlo Judica Cordiglia
Le Eumenidi | Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca
Fantasma di Clitennestra | Laura Marinoni
Statua di Atena | Bianca Mei
Atena | Olivia Manescalchi
Scene Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Costumi Gianluca Falaschi
Musiche originali Andrea Chenna
Luci Marco De Nardi
Video Design D-Wok
Regista assistente Sax Nicosia
Assistente alla regia Aurora Trovatello
Cast tecnico
direttore di scena Alberto Giolitti
direttore di palco Michele Borghini
capo macchinista Marco Fieni
macchinista Nathan Copello
macchinista / attrezzista Giulia Chittaro
capo elettricista Toni Martignetti
fonici Edoardo Ambrosio, Umberto Ferro, Stefano Gualtieri
video Luca Nasciuti
trucco e parrucco Barbara Petrolati, Giuseppe Tafuri, Giovanna Molinaro
sartoria Cristina Bandini, Viviana Bartolini
FESTIVAL CONFORMAZIONI 2023, CONFERENZA STAMPA
“ConFormazioni” ovvero la primavera performativa palermitana
Martedì 28 marzo 2023 si è svolta a Palermo, nella cornice dello Spazio Franco presso i Cantieri Culturali alla Zisa, la conferenza stampa del Festival ConFormazioni, arrivato alla sua settima edizione.
Il Festival di danza e linguaggi contemporanei tornerà a Palermo dal 21 al 30 aprile 2023. Una versione allargata dell’ormai conosciuta azione che vede alla direzione artistica Giuseppe Muscarello e a quella organizzativa Danila Blasi: a precedere il festival ci sarà un’anticipazione in collaborazione con Scena Nostra, rassegna dello Spazio Franco dedicata alle creazioni contemporanee.
Continua la lettura di FESTIVAL CONFORMAZIONI 2023, CONFERENZA STAMPATANGO MACONDO, IL VENDITORE DI METAFORE – GIORGIO GALLIONE
Tango macondo è un assemblaggio, un’operazione contemporanea che trova le sue radici nel mito.
Continua la lettura di TANGO MACONDO, IL VENDITORE DI METAFORE – GIORGIO GALLIONEKEERSMAEKER/LOPEZ/EKMAN
Tre coreografi con percorsi, linguaggi ed estetiche differenti in scena al Teatro Camões di Lisbona dal 3 marzo al 19 marzo 2023.
GROSSE FUGE
Anne Teresa de Keersmaeker, una delle grandi referenti della danza contemporanea e figura assidua del repertorio del CNB si presenta in scena con Grosse Fuge, pezzo creato nel 1992 per il quartetto di corde di Beethoven e che la compagnia integrò nel suo repertorio nel 2012. Una sequenza di corsa, salto, caduta e rotazioni dal ritmo veloce ma contrappuntato anche da movimenti lenti. Un corpo di ballo numeroso di circa 10 ballerini di cui solo due ballerine. Forse la più tecnica delle tre performance. Molta tecnica e poca interpretazione ed espressività, pur non mancando di coordinazione e coerenza tra le parti.
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AVANT QU’IL N’Y AIT LE SILENCE
Fabio Lopez, giovane coreografo portoghese radicato in Francia, crea la sua prima opera per il CNB utilizzando la musica di Gavin Bryars.
Tecnicamente è l’unico pezzo del programma danzato sulle punte.
L’opera ha una relazione con il racconto della Genesi: “All’inizio un ragazzo è spinto per terra come se fosse Adamo e quando una ragazza lo va a cercare, per me è come se uscisse dalla sua costola” (dalle parole dell’autore nel libretto di sala). Di nuovo una composizione accademica come la precedente ma sicuramente più “raccontata” e vissuta, con un’estensione dei corpi portata al massimo verso rotazioni e movimenti circolari rapidi.
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CACTI
Alexander Ekman è uno dei più grandi coreografi della scena internazionale. Entra nel repertorio di CNB con Cacti, opera realizzata nel 2010 che, nelle parole del coreografo stesso, è una critica al modo in cui osserviamo e giudichiamo l’arte contemporanea senza spesso capirne il significato: “Cacti fu creata in un periodo della mia vita in cui mi sentivo molto perturbato da quello che veniva scritto riguardo al mio lavoro”.
Cacti è il lavoro più interessante dei tre, perché coniuga e intreccia aspetti teatrali e coreografici con un voice-over di sottofondo nella parte finale della coreografia interpretata da due ballerini che rappresentano due amanti che battibeccano. Sembra che l’intento sia quello di tradurre il linguaggio danzato, che pur se silente esprime sempre un racconto.
Un intento ben riuscito grazie all’ironia e alla coordinazione totale tra parole e movimento, espressione del corpo e letterale.
Il testo è recitato in lingua inglese (tradotto in portoghese nel libretto di sala) e inizia così:
“Ciao Aram
Ciao Riley
Come stai?
Bene
Oggi è il terzo?
Non sono sicura, penso di sì”
Un dialogo assurdo e ironico che ha conquistato le risate del pubblico.
Notevole anche la quantità e la qualità dell’interazione con gli oggetti di scena.
All’inizio della performance infatti si trovano diciassette piattaforme che si muovono, occupate e manipolate da diciassette ballerini, un corpo di ballo molto ampio ma compatto al tempo stesso. Ad un certo momento la scena viene invasa da piante di cactus che rappresentano le critiche spinose a cui il coreografo si riferisce nell’intervista menzionata in precedenza. Una pièce bella ma “spinosa” che si conclude con quel voice-over nel dialogo tra i due ballerini che si interrogano se questa sia la fine. Ma chissà la fine di cosa.
Nel complesso uno spettacolo piacevole e anche riflessivo per certi aspetti anche se non tanto portatore di novità rilevanti ma leggermente critico verso le realtà esistenti della critica stessa e di quel mondo complesso di cui la danza e l’arte in generale fanno parte. Sicuramente l’accompagnamento musicale del quartetto di violini e violoncelli rappresenta un plus che dà enfasi e sostanza all’intero spettacolo.
Irene Merendelli
Insecto primitivo – Compagnia Elías Aguirre Imbernon
Che cosa accadrebbe se gli uomini vivessero come degli insetti? Una risposta a questa domanda è stata data al Teatro Astra, dove la compagnia spagnola Elías Aguirre Imbernon ci offre una performance di danza contemporanea e street dance che prende le mosse dal mondo dell’entomologia.
Continua la lettura di Insecto primitivo – Compagnia Elías Aguirre ImbernonDANZA CIECA – VIRGILIO SIENI
Un incontro tra corpi complici
Tante sedioline, una accanto all’altra, delimitano uno spazio nel quale il pubblico viene subito inghiottito. Prendiamo posto. A disegnare l’ultimo segmento di questo cerchio sono Virgilio Sieni e il danzatore non vedente Giuseppe Comuniello: seduti con la schiena appoggiata al muro, ci osservano. Al centro scorgiamo un tappeto bianco fatto di cartone e, su di esso, due blocchi di argilla. I due danzatori si avvicinano e iniziano ad occupare lo spazio: attraverso i loro corpi modellano l’area circostante disegnando linee curve, segmenti spezzati e forme circolari. Si sfiorano, si sostengono, si guidano, si completano, insieme danzano.
Continua la lettura di DANZA CIECA – VIRGILIO SIENISIGUIFIN
IL GRIDO RIBELLE DELL’AFRICA
Se da un lato il balletto classico, cinque volte centenario, continua a stupirci attraverso splendidi interpreti del suo repertorio, dall’altro, nelle pieghe in continuo divenire della danza contemporanea, si fanno largo e prendono corpo forme alternative di espressione che a volte non si riesce a collocare nel pur capiente grembo di Tersicore.
Le contaminazioni continue, agenti sotto forma danzata sembrano aver definitivamente sdoganato il significato che abbiamo sempre dato alla parola Danza.
Lo spettacolo
La parola, il gesto atletico , il grido dissonante che si mescola a piacevolissime melodie riportano ai canti degli schiavi, prostrati ma comunque fraternamente uniti in un corteo che è cerimonia di consapevolezza di una condizione umiliante.
Ritmico calpestio sincronico e una scena buia che ne risalta la sonorità invita immediatamente lo spettatore ad affacciarsi in terra d’Africa, successivamente una tiepida luce sagoma gentilmente i corpi che procedono a ritmo sincopato scandendo gli accenti con stamp energici e decisi. Una corposa voce femminile canta una melodia difficile da tradurre ma comunque efficace e diretta interprete dell’azione coreografica.
Così esordisce con il suo ensemble di artisti lo spettacolo Siguifin del coreografo Amala Dianor, andato in scena il 14 ottobre alle Fonderie Limone per la rassegna Torinodanza.
Sin dall’inizio si comprende subito, o almeno lo si crede, l’atmosfera e il logos, tuttavia quella forma di rituale che ci si aspetta generi e successivamente sviluppi un tema tutt’altro che astratto, sembra non arrivare. Il susseguirsi di situazioni in cui stili di danza, dal tribale all’Hip-hop dalla Breakdance al Jazz primitivo e accenni di Capoeira si mescolano e interagiscono, sembrano elementi di un puzzle che stenta a completarsi. La palese assenza, fatta eccezione per alcuni casi, di un disegno coreografico efficace e coerente, sembra volerci distogliere dalla ricerca di un punto focale sul quale concentrare la nostra attenzione, di conseguenza ci costringe a seguire la performance di un danzatore rispetto ad un trio che agisce in prossimità del fondale o di una coppia che dialoga in proscenio. Con questo modus si va avanti in attesa che qualcosa accada ed anche se il gesto atletico, che ormai ha completamente sostituito l’azione danzata, è di notevole efficacia il ritmo dello spettacolo si stabilizza su una linea continua e prevedibile, che non lascia spazio ne’ all’immaginazione tantomeno all’emozione. La musica, nella maggior parte dei casi è fondamentalmente generata da percussioni di origine elettronica a volte accompagnata da un sottofondo mono accordo di tastiera anch’essa elettronica, ripetuto come un mantra. Molto più efficaci i suoni prodotti dagli stessi artisti così come i cori e gli assolo vocali sempre dal vivo. Lodevole la cantante solista che riesce a mantenere limpida e legata la voce nonostante i movimenti energici. Piccola annotazione sui costumi che richiamano le pitture di Piet Mondrian, si presume debbano rappresentare la complessa forma neoplastica che ingloba l’anima selvaggia e libera dagli schemi precostituiti, ma qui ognuno è libero di vederci quel che vuole.
Giuseppe Paolo Cianfoni
Creazione coreografia Alioune Diagne, NaomiFall, LadjiKonè, Amala Dianor
Luci Nicolas Tallec
Costumi Laurence Chalou
Musiche Awir Leon
I PUPI (LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI…) – GIUSEPPE MUSCARELLO
Sono le declinazioni del movimento e della postura, gli elementi su cui Giuseppe Muscarello vuole indagare nel suo lavoro “I PUPI – Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori…”
È andato in scena domenica 9 ottobre alla Lavanderia a Vapore di Collegno, nell’ambito del Festival Incanti, rassegna internazionale di teatro di figura. Il lavoro è stato seguito da un breve momento di confronto col pubblico. Muscarello, in questa sua coreografia, partendo dalla grammatica dei pupi siciliani di scuola palermitana, esplora il movimento in relazione al codice dello spazio. Il confine tra cavalleria e passione, tra il lottare e l’amare, sono il fulcro su cui si dipanano i dinamici quadri costruiti dai quattro performer presenti in scena.
Continua la lettura di I PUPI (LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI…) – GIUSEPPE MUSCARELLORUA DA SAUDADE: LA TEORIA DEGLI ETERONIMI A TORINODANZA
sḁudħàdħë s. f., port. [lat. solĭtas -atis «solitudine»]. Sentimento di nostalgico rimpianto, di malinconia, di gusto romantico della solitudine, accompagnato da un intenso desiderio di qualcosa di assente in quanto perduto o non ancora raggiunto.
La “Saudade” di Bolognino è una capsula trasparente che sigilla ma offre visione di ciò che non si può vedere e che si è lasciato dietro di sé ma che si conserva nel proprio cuore.
Continua la lettura di RUA DA SAUDADE: LA TEORIA DEGLI ETERONIMI A TORINODANZA