Si è tenuta dal 10 al 13 ottobre di quest’anno la nuova
edizione della NID Platform, la vetrina della nuova danza contemporanea che
porta in scena le migliori produzioni di danza italiana e le presenta a un
pubblico mirato di operatori teatrali italiani e stranieri (direttori di
teatri, di festival, di circuiti, ecc.) affinché essi acquistino tali
produzioni per inserirle nei propri cartelloni. La precedente
NID risaliva al 2017 e si era tenuta a Gorizia, in Friuli-Venezia-Giulia.
Quest’anno la vetrina è stata ospitata dalla città di Reggio Emilia, con il
supporto di Ministero, Regione e Comune oltre a quello ormai consueto del
grande raggruppamento di numerosi operatori italiani. A questi si sono poi
aggiunte le due più importanti realtà della città emiliana, la Fondazione I Teatri
Reggio Emilia e la Fondazione Nazionale della Danza Aterballetto, due punte di
diamante nella produzione e distribuzione di danza in terra nostrana.
Per il nostro blog abbiamo assistito la mattina di sabato
agli Open Studios che si sono tenuti nella Fonderia, lo spazio dove di
norma prova e lavora Aterballetto. Quello degli Open Studios è un
formato breve, pensato apposta per consentire la presentazione di più
spettacoli in un tempo ridotto: massimo venti minuti di durata per ogni
compagnia. Grazie a questo pretesto i lavori possono essere presentati anche
non ancora ultimati, di modo da cercare un supporto produttivo che ne consenta
la continuazione creativa. Un pratico mercatino allestito a fianco al palco
consente agli operatori di chiarirsi le idee discutendo con i rappresentati
delle produzioni presentate. Sette dunque, grazie al formato breve, gli ‘studi
aperti’ che abbiamo potuto vedere e commentare.
Il primo lavoro, OPACITY #5 di Salvo Lombardo, è una
delle diverse estensioni del suo spettacolo Excelsior, nel quale
l’autore aveva tentato una possibile riattualizzazione in chiave post-coloniale
dell’ottocentesco Gran Ballo Excelsior. Queste estensioni, raccolte
sotto il titolo Opacity, sono dunque un formato più adattabile del
progetto Excelsior, pensato per un solo performer
e di esito più performativo che coreutico. Queste iniziative, utilizzando
narrazioni alternative a quelle del sapere etnocentrico dominante, mirano a
decostruire l’immaginario neo-coloniale dell’Occidente contemporaneo. Per sviluppare
questa serie di “eventi cornice” allo spettacolo Excelsior (originariamente
definita Around Excelsior), lo ricordiamo per i lettori torinesi, il
giovane autore fu ospite nel 2018 della Lavanderia a Vapore dove ebbe la
possibilità di incontrare curatori e insegnanti di arte, studiosi di
antropologia, di teatro e di danza. In OPACITY #5 Lombardo ha voluto
riflettere sul tema dell’oscenità: all’inizio del lavoro lo stesso autore
entrando in scena parla a un microfono, esponendo teatralmente alcune elucubrazioni
sul tema (“Io sono osceno, osceno è tutto ciò che mette fine allo sguardo,
osceno è ciò che pone fine al teatro, ecc.”), dopodiché prende a ondeggiare
leggermente con il bacino, mentre sullo schermo collocato al centro del palco
va in onda un porno gay, sulla musica del Nabucco verdiano. L’idea del
video porno e la stessa performance di Salvo non ci sono sembrate
entusiasmanti, ma vedremo come e se procederà il lavoro, che sta ancora
cercando sostegni alla produzione per essere ultimato, così come gli altri Opacity
stanno cercando una distribuzione.
Il secondo lavoro è di Daniele Ninarello, che ha presentato
un pezzo che debutterà a novembre, Pastorale. Il coreografo afferma di
aver voluto descrivere il ritorno a una passata vita idilliaca nella quale gli
esseri umani erano tutti in grado di vivere all’unisono. Lo stesso Ninarello ha
preferito non definirsi coreografo di quest’opera, poiché essa è più un sistema
di movimento che una coreografia vera e propria. Ed effettivamente è così
dal momento che i quattro danzatori vestiti casual si muovono
delicatamente sulla scena senza mai arrestarsi, eseguendo prevalentemente
camminate nello spazio, alle quali aggiungono lentamente alcuni semplici schemi
di movimento degli arti superiori, reagendo ognuno in base al movimento degli
altri. Molto vicino concettualmente al precedente ed apprezzabile lavoro di
Ninarello, il giacomettiano Still, questo ci sembra meno chiaro e meno
originale, forse penalizzato dai venti minuti richiesti dal formato. Se è
effettivamente interessante l’aleatorietà intrinseca all’idea compositiva, la
nostalgia per una atavica dinamica di cooperazione non basta da sola a darle
contenuto.
Il terzo lavoro, Annotazioni per un Faust/Evocazioni,
di Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli (artisti associati alla Compagnia
Abbondanza/Bertoni) a primo impatto ci convince di più: sei danzatori, un
chitarrista, musiche originali, un tronco sospeso in mezzo alla scena. È buono
il lavoro di composizione, sono apprezzabili le coreografie d’insieme, il tutto
è abbastanza ben danzato, ma soprattutto è danzato ed è anche
coreografato, a differenza delle due presentazioni precedenti. Non è
chiarissimo dove il lavoro voglia andare a parare, e se si vuole trovare un difetto
va detto che al tutto manca un poco di carattere, ma forse la colpa è di nuovo
del formato obbligato. In questo caso infatti i minuti si riducono a dieci, dal
momento che gli spettacoli presentati da Monza e Rossi Valli sono due: il
primo, Annotazioni per un Faust si interrompe a metà per lasciar spazio
subito dopo al secondo, Evocazioni, un pezzo di teatrodanza realizzato
con il supporto delle testimonianze dell’Archivio Diaristico di Pieve Santo
Stefano.
Nel quarto lavoro Claudio Massari riflette con tutt’altro
registro linguistico sui luoghi comuni del contemporaneo, dalle questioni
politiche a quelle di genere, ovviamente interconnesse. Comico fin dalle
entrate iniziali, lo spettacolo funziona molto bene presentando un impianto
drammaturgico solido e coerente. Quattro stravaganti creature con ridicolo
corpetto nero e parrucche arancioni sostengono un buonissimo ritmo fatto di
danza, gesti pantomimici, versi e cori, giocando con gli stereotipi della
società italiana. Il pezzo forte dello spettacolo sono infatti le sagaci
canzoncine che i quattro intonano, prendendosi gioco della media borghesia, dei
politicanti, della crisi e del decreto sicurezza. Tra coreografia e cabaret,
ritorna alla mente quel Tavolo Verde di joossiana memoria, che qui
diviene un tavolo decisamente postmoderno e italiota, forse più
post-coloniale di altri progetti che si dichiarano tali. Il pubblico concede il
meritato applauso a dei C&C effettivamente brillanti, forse gli unici che
hanno tratto vantaggio dallo short format.
È di Francesca Foscarini e Cosimo Lopalco il quinto lavoro, PUNK.
KILL ME PLEASE, ispirato alle figure di Sid Vicious e Nancy Spungen e al
fenomeno musicale punk. Due danzatrici, la Foscarini stessa e Melina
Sofocleous, con due coperte colorate legate sulla testa con del nastro adesivo
alla maniera degli sceicchi arabi, fanno le disc jockey con vari brani di
musica punk attraverso un rudimentale giradischi appoggiato per terra sulla
destra del palco. Con le coperte e il nastro di carta realizzano poi varie performance,
liberamente ispirate al mondo punk, vagamente anni Settanta, non
particolarmente coinvolgenti. Niente coreografia dunque per questo lavoro
embrionale, ancora in cerca di finanziamenti per essere sviluppato. Piuttosto
che performativamente british (o forse poi soltanto mitteleuropea) la
preferivamo nella corporeità più “israeliana”, ricordandola nel bel lavoro Gut
Gift di Yasmeen Godder.
Il sesto lavoro è quello di Vincent Giampino, danzatore
recentemente tornato dall’esperienza olandese dell’S.N.D.O., intitolato Grand
Prix, nel quale l’autore cerca di instaurare un ponte intergenerazionale
con Cristina Rizzo, autrice di culto della danza contemporanea italiana.
Ciononostante, quello che al pubblico di operatori è concesso di vedere sono
dei minimi movimenti in scena di Giampino e su due schermi alcune riprese a
mezzo busto di Giampino e Rizzo che danzano in pieno stile Rizzo. Il tutto su
un sottofondo musicale che alterna il barocco alla techno. Troppo poco per
decretare le sorti di uno spettacolo che, almeno a un primo sguardo, odora di
arte concettuale volutamente ermetica.
Settimo e ultimo lavoro, Home di Daniele Albanese,
anch’esso in cerca di finanziamenti, “dedicato a chi non ha casa o a chi deve
abbandonarla, ma senza essere un lavoro politico” (queste le dichiarazioni
dell’autore). Albanese spiega agli operatori che i formati possibili del lavoro
potranno essere molteplici, ma che dipenderanno ovviamente dal processo
creativo e soprattutto dai sostegni che arriveranno o meno. Per la NID l’autore
si limita a mostrare alcuni movimenti semplici, slegati l’uno dall’altro, che
si incastrano ad alcuni concetti che contemporaneamente lo stesso Albanese
enuncia danzando, con gli occhi bendati. Evidentemente molto deve essere ancora
pensato e creato di questo Home, il quale di nuovo ci presenta troppo
poco perché se ne possano trarre delle considerazioni.
A mattinata terminata la prima riflessione che emerge da uno sguardo critico è così riassumibile: in questi Open Studios c’è tanta performance e poca coreografia. Che l’idea di un formato così breve abbia intimorito i giovani coreografi, che per scrupolo avrebbero optato per la realizzazione di un “prodotto artistico” piuttosto che di uno coreutico tout court? O che forse le nuove tendenze della danza italiana stiano andando effettivamente verso uno stile più performativo che non danzato, sulla scorta dei classici francesi della non-danza? Se così fosse potremmo vedere la prossima NID ribattezzata in NIDP, New Italian Dance and Performance. Nonostante le facili critiche, il risultato della vetrina è generalmente positivo, un buon bilancio di pubblico, di networking, di progettualità e si presume anche un buon ritorno economico per la città di Reggio Emilia. È infine doveroso rivolgere i complimenti all’organizzazione generale della NID, che in quanto ad allestimenti, tempistiche, spostamenti, servizi e disponibilità si conferma assolutamente imbattibile.
Tobia Rossetti