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D.A.K.I.N.I PROJECT

D.A.K.I.N.I. è un laboratorio multidisciplinare legato a un progetto omonimo a cura di AJARIOT Performing Arts Collective.

Il progetto multidisciplinare e transdisciplinare indaga e intende far dialogare i temi dell’Intelligenza Artificiale con gli studi di genere e le teorie femministe contemporanee.

Dai dibattiti, domande e previsioni future sulla dilagante IA e sulle sue possibili ripercussioni, alle teorie di filosofe e attiviste che già negli anni ’80 parlavano di appropriarsi di scienza e tecnologia e della necessità di una deterritorializzazione delle idee.

“Nel mondo dell’informatica della dominazione, le donne devono confrontarsi con la questione del loro coinvolgimento con la tecnologia, e affrontarne la complessità”.

Come l’IA può servire alla vita e alla teoria femminista? Come le donne se ne possono appropriare? E quando l’avranno fatto cosa accadrà?

 

RACCONTO DI UN’ESPERIENZA PERSONALE

Mi presento: sono Noemi una studentessa del Dams al suo secondo anno. Tra tutti i laboratori interdisciplinari decido di frequentare quello del professor Pontremoli perciò inizio a dare un’occhiata alle proposte 2018/2019.
Mi salta subito all’occhio un laboratorio che sarebbe iniziato il giorno seguente e soprattutto come orari era perfettamente collocabile tra i miei impegni scuola-lavoro.

Si, in principio lo scelgo per comodità anche perché dalla descrizione del laboratorio avevo compreso ben poco.
Cosa c’entra l’intelligenza artificiale con le teorie femministe?

Alle 14 in punto del 26/09 mi presento presso lo STUDIUMLAB di Palazzo Nuovo e mi trovo di fronte due donne, Isadora Pei e Camilla Soave che sanno metterci subito a nostro agio.
Entriamo nel Lab , odorante di incenso , e ci sediamo in cerchio faccia a faccia e scalzi , iniziamo così le nostre due ore insieme .
È stato in quel momento che ho capito la portata del D.A.K.I.N.I PROJECT ma soprattutto dell’impatto sociale che queste attiviste stanno realizzando.
Sono stati 3 giorni di sperimentazione, ho iniziato ad aprire gli occhi su temi che prima consideravo poco.
Ad esempio il flusso di informazioni che vengono generate nel web e che non si posso cancellare , le disparità salariali tra uomo e donna che tutt’oggi esistono e il fatto che anche noi nel nostro piccolo siamo già dei cyborg.

Ci hanno fatto prendere parte in maniera attiva e concreta al progetto tramite varie piccole pratiche corporee-visive che verranno integrate a tutto il materiale che stanno raccogliendo in vari settori sociali.
Il D.A.K.I.N.I. PROJECT ha lo scopo di lasciarti perplesso così da invitarti ad una più attenta riflessione e lo attua facendo dialogare varie discipline e temi.
Non si è trattato perciò della solita lezione frontale a cui siamo abituati, al contrario abbiamo partecipato alla realizzazione di una ricerca formativa finalizzata ad un progetto che andrà in scena e di cui ora noi nel nostro piccolo facciamo parte.
Perciò se siete curiosi di rispondere anche voi alla domanda che mi sono fatta io in principio vi invito a dare un’occhiata al loro sito , ai loro lavori e a partecipare ad un futuro laboratorio nel caso venga riorganizzato.
Ringrazio per questa esperienza AJARIOT PERFORMING ARTS.

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A teatro con Nuovi Sguardi. La Conferenza Stampa

Ad iniziare la conferenza stampa è Alberto Vanelli, confermato presidente della Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus nel luglio 2018, che subito porta l’accento sul focus del progetto in questione: l’assenza, negli spazi della casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino, di quella fascia di pubblico composta da giovani tra i sedici e i venticinque anni. E’ proprio la consapevolezza di questo gap generazionale a stimolare negli addetti ai lavori l’iniziativa del Festival Nuovi Sguardi, che coinvolge tre realtà torinesi: il TPE (Teatro Piemonte Europa), il Festival delle Colline Torinesi e la Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus, responsabile del lancio della proposta. Il progetto, supervisionato da Luisa Minero, Andrea Prono, Giuliana Pititu ed Elisa Olivero, è rivolto ad un gruppo di ragazzi di età compresa tra i sedici e i venticinque anni, invitati a prendere contatto con le tre realtà torinesi per poi attuare la vera e propria organizzazione del festival. La duplice – ma fluida – modalità di spettatori ed organizzatori consente ai giovani di muoversi agilmente tra platea e palcoscenico, di dare ad un potenziale nuovo pubblico la dimensione della “soggettività”, secondo le parole di Alberto Vanelli. Il presidente conferma il desiderio di consolidare, nei prossimi anni, questo genere di collaborazione con le nuove generazioni, rendendola un’attività permanente.

La parola passa a Matteo Bagnasco, responsabile del settore Innovazione Culturale all’interno della Compagnia San Paolo di Torino, che spiega la volontà di stimolare la partecipazione culturale colmando quel divario, che spesso rimane aperto, tra la presenza osservatrice di pubblico ed una partecipazione attiva ai lavori, da parte di chi ha a che fare con il teatro. E’ da questo punto, che la Compagnia prende le mosse per elaborare strategie di audience engagement, avviando nel 2016 il progetto “contenitore” Open 2017 – Nuovi pubblici per la cultura. Si tratta di un lavoro che passa attraverso la “mappatura di esperienze interessanti sul territorio, per incrementare una partecipazione attiva alla cultura in Piemonte e in Liguria”, e attraverso la sperimentazione di modalità di ingaggio alternative per nuovi segmenti di pubblico. Di conseguenza, “la risposta alla richiesta del Teatro Ragazzi è stata immediata; anche perché tra noi c’è una condivisione di pubblici, oltre che di obiettivi e strumenti”, afferma Matteo Bagnasco, prima di cedere la parola a Giulia Menegatti, coordinatrice progettuale del percorso di ideazione ed organizzazione del Festival.

Giulia Menegatti racconta con grande passione il lavoro svolto con i giovani che, a partire dal luglio 2017 per arrivare ad oggi, fanno crescere il progetto. L’esperimento coinvolge il TPE, il Festival delle Colline e la Fondazione Teatro Ragazzi, in una sinergia fatta di incontri con gli addetti ai lavori, appuntamenti, progettazioni presso la Casa del Teatro Ragazzi e Giovani ed il Teatro Astra di Torino, i due spazi scenici deputati allo svolgimento del Festival. “Ai ragazzi che hanno aderito al progetto sono state aperte le porte degli uffici, dei palchi, per comunicare loro che il teatro non è solo il momento che avviene sul palcoscenico: è anche tutto il lavoro organizzativo e di comunicazione”, spiega Giulia Menegatti, focalizzandosi immediatamente sui protagonisti del percorso in questione: i giovani. “Il progetto è stato pensato dai ragazzi, già a partire dalla pagina, dalle immagini, dalle brochure, dalle borse di tela”. Si tratta di oggetti cartacei, materiali, con una consistenza fisica, che ci vengono consegnati prima della conferenza stampa e che incorporano una precisa volontà di integrare la tradizione all’innovazione. Se, infatti, in questo lavoro viene seguito un approccio di marketing innovativo, che tiene in grande considerazione le nuove tecnologie, in particolare i canali social e le loro potenzialità – Instagram, Facebook, Whatsapp -, è nel contempo una precisa scelta dei giovani quella di fornire al pubblico materiali di supporto cartacei, in quanto ritenuti più eleganti, evocativi, professionali. Le parole di Giulia Menegatti si alternano a frammenti di video in cui i giovani raccontano l’esperienza, la condensano in parole chiave o in brevi frasi.

Sono circa venticinque, nel 2017, i giovani che iniziano il percorso di scoperta, per poi assestarsi in una decina, al principio del 2018: Edoardo Cancedda, Giulio Carignano, Caterina De Lucia, Giulia Dilorenzo, Omar Diallo, Emil Foa, Irene Leone, Maria Macrì, Allegra Palù, Carlotta Zita. Tra il febbraio e il giugno del 2018, il gruppo di giovani – il board – che sceglie di portare avanti l’esperienza, ha la possibilità di visionare diversi spettacoli, costruiti all’interno delle tre realtà culturali torinesi. L’intento è quello di offrire “una scena teatrale il più eterogenea possibile”, spiega Giulia Menegatti. Attraverso un proficuo lavoro di squadra, viene incentivata la scoperta di pratiche prima non molto conosciute, quali il Nouveau Cirque, la Drammaturgia, la creazione contemporanea. Il gruppo di ragazzi, nel frattempo,  si dà da fare: organizza dibattiti, speed date, aperitivi, avvicinando la realtà degli spettatori a quella degli attori, lavorando sui due fronti della tradizione e dell’innovazione; nel contempo, inizia a progettare il Festival.

Gli spettacoli che lo compongono sono scelti interamente dal board, sulla base di una votazione. La rassegna stampa della conferenza ne reca alcune motivazioni, preziose grazie alla loro freschezza ed autenticità: Johann Sebastian Circus, spettacolo di Circo El Grito, è stato selezionato “perché non si può non restarne colpiti”. Lo Sleep Concert curato da Didie Caria è stato scelto “perché quando mai hai passato una notte in teatro?”. Il Cantico dei Cantici di Roberto Latini è stato scelto “perché sono cinquantacinque minuti di pura estasi!”. The Black’s Tales Tour di Licia Lanera è stato scelto “perché è uno spettacolo dall’atmosfera dark … e dormire, poi, non sarà più così facile!”. I primi due spettacoli saranno in scena sabato 29 settembre presso la Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, mentre i successivi si terranno domenica 30 settembre presso il Teatro Astra, a Torino. Si prospetta curiosa, in particolar modo, l’esibizione di Didie Caria, che prevede, dopo una serata drink con aperitivo e dj set, un susseguirsi di esperimenti di sonorizzazione, per accompagnare gli spettatori nel loro sonno, fino all’alba. Al sorgere del sole, verrà offerta la colazione agli spettatori.

“L’idea di base è seguire le fasi del sonno: partire da brani musicali strutturati nella forma e poi, con la loop station, rallentarli e scomporli”, spiega Didie Caria, aggiungendo però che il processo creativo resta aperto: “ In realtà ho più domande che risposte: non tutti vivono il passaggio da una fase del sonno all’altra in contemporanea, non sai mai cosa sarai in grado di tirare fuori. Ho fatto delle prove a casa mia, con i miei amici distesi sul divano, sperimentando diverse frequenze sonore. Come cantante, mi occupo in particolare di vibrazione, cioè di ciò che sta alla base [di quanto viene espresso dallo strumento]: la capacità di aprire, rilassare …”. Il percorso artistico di Didie Caria è costellato di esperimenti sonori contraddistinti da grande creatività: “Ho fatto dei concerti galleggianti all’interno di alcune grotte sarde, … mi piace portare la musica dove normalmente non arriva, renderla esperienza musicale.” E conclude, con simpatia: “Ora sto cercando di capire come stare otto ore sveglio, quindi datemi idee”. La location dell’evento è il foyer della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani che, con le sue ampie vetrate, consentirà ai partecipanti – piccoli e grandi – di percepire il sorgere del sole dopo la nottata. L’esperienza, come gli spettacoli e gli altri eventi del Festival Nuovi Sguardi, è adatta a tutte le età, a condizione che i più piccoli siano accompagnati. E’ possibile prenotare attraverso i canali tradizionali – un ruolo importante anche dal punto di vista dell’informazione è svolto dall’Ufficio Stampa, composto da Carola Messina e Maurizio Gelatti – ma anche tramite i social network, in particolare Whatsapp, riconosciuto dai giovani organizzatori come uno dei mezzi di comunicazione preferiti in questo tempo.

A questo punto, viene ceduta la parola al board, rappresentato da tre dei suoi componenti. I giovani organizzatori raccontano l’arricchimento del “vivere il teatro al contrario”, scoprendo tutti gli aspetti organizzativi a monte del lavoro dell’attore. In questa prospettiva, lo spettacolo viene percepito come creatura che nasce e si sviluppa nelle sue fasi creative, economiche, comunicative e di marketing, mediante approcci innovativi. “Si può sdoganare l’immagine di un teatro d’èlite culturale, antico, di vestito. Lo si sta facendo attraverso incontri con gli artisti, dj set, nuove tecnologie, … Perché forse si è un po’ perso il tentativo di comunicare.” “Abbiamo sdoganato luoghi comuni, come l’esistenza del sipario, non per forza indice di uno spettacolo buono, o il vestirsi bene”, spiega, in particolare, uno dei tre componenti del board. “Io oggi ho scelto di indossare bermuda”, che però forse, a dispetto del bon ton, “non sono così impresentabili come molti credono.” I ragazzi rivelano che l’esperienza ha dato loro moltissimo, anche dal punto di vista delle amicizie. L’opportunità di osservare e lavorare attraverso “nuovi sguardi”, dunque, è stata colta in pieno, con grande successo ed incremento di relazioni, prospettive, immagini.

Il Festival sarà, a sua volta, l’occasione per lanciare il prossimo percorso di Nuovi Sguardi, le cui selezioni (gratuite) saranno aperte fino al 18 novembre 2018. Per quanti lo desiderano, sarà possibile iscriversi alla prima fase di selezione compilando apposite cartoline, che saranno distribuite nel corso delle serate del Festival (29-30 settembre 2018).

Letizia Marrone

FDCT23 – LIV FERRACCHIATI / THE BABY WALK TRILOGIA SULL’IDENTITA’

Ieri sera, 1 giugno 2018, alla serata di apertura del Festival delle colline torinesi è andato in scena al Teatro Astra di Torino la trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati/ The Baby Walk in collaborazione con Lovers Film Festival.

La trilogia è strutturata in tre capitoli, non legati da un filo narrativo ma uniti tra loro dal tema dell’identità di genere: “Peter Pan guarda sotto le gonne”, “Stabat Mater”, “Un eschimese in Amazzonia”.

The Baby Walk sono: Liv Ferracchiati (regista/autore, a volte, anche in scena), Greta Cappelletti (dramaturg/autrice, a volte, anche in scena), Laura Dondi (costumista/danzatrice), Linda Caridi (attrice), Chiara Leoncini (attrice), Alice Raffaelli (attrice/danzatrice), Lucia Menegazzo (scenografa), Giacomo Marettelli Priorelli (light designer/attore), Andrea Campanella (videomaker).

Capitolo 1 “Peter Pan guarda sotto le gonne” durata 70’

Sul palco c’è il nostro Peter Pan: una bambina bionda di 11 anni e mezzo (Alice Raffaeli) che si dimena con un vestito rosa che non vuole mettere, non se lo sente addosso ma la madre insiste. Pertanto Peter è costretto ad andare con il vestito al parco a giocare a pallone, la sua passione, e viene presa in giro da Wendy (Linda Caridi) una ragazzina mora di 13 anni di cui si innamora. Ed è grazie all’amicizia con Wendy e la chiacchierata con la fata Tinker Bell(Chiara Leoncini) la fata che esiste, che Peter piano piano acquisisce la consapevolezza della sua identità. E’ un bambino in un corpo di una bambina. Comincia a ribellarsi ,infatti,  e non indosserà mai più il vestito rosa.”Peter non è esattamente una femmina ma precisamente un maschio”. Peter comincia, come se si guardasse allo specchio, una danza con sua ombra (Luciano Ariel Lanza) la guarda, la tocca. E’così che dovrebbe essere il suo corpo da grande, un ventenne con le braccia muscolose, le spalle grandi e i capelli corti. Ma Peter sa che non andrà in questo modo, ed è per questo che non vuole crescere; vuole restare così come è, non vuole che il suo corpo si modifichi, non vuole che i suoi fianchi si allarghino, che le crescano delle protuberanze morbide sul petto. I genitori, che non agiscono mai direttamente ma sono presenti solo come voci, esultano all’arrivo delle mestruazioni alla loro bambina che è finalmente diventata un signorina, mentre per Peter questo è solo il segno indelebile di un corpo che è sempre meno sotto il suo controllo. La madre è molto apprensiva ,quasi soffocante, vorrebbe evitare ciò che ha intuito ma che non vuole accettare; il padre si esprime solo attraverso definizioni da vocabolario e sembra non capire cosa sta succedendo alla sua bambina. Sostanzialmente Peter è solo con tutte le sue paure. Peter, incarna tutti quegli adolescenti transgender che si trovano totalmente soli a gestire il disagio di avere un corpo che non rispecchia la percezione di sé, un corpo che avrebbe dovuto essere diverso.“Tu non sei un bambino vero Peter e io non sono la tua Wendy” riecheggia la voce interiore.

Capitolo 2 “Stabat Mater” durata 85’

Viene raccontata la vicenda di un ragazzo di 27 anni, scrittore; vive al maschile ma ha le sembianze di una ragazza. La sua storia viene analizzata in seduta con una psicoanalista (Chiara Leoncini) ripercorrendo in flashback la storia d’amore con la sua compagna(Linda Caridi) da cui attualmente si sente sempre più distante. Un elemento centrale considerato in terapia è la sua incapacità a buttarsi: ha paura e si sente sempre in stato di inferiorità, il che è strettamente connesso a un legame edipico irrisolto con la madre. La madre, rappresentata come un volto in uno schermo, che non ha ancora metabolizzato l’identità di suo figlio, lo chiama insistentemente e il figlio risponde in qualunque momento non potendo avere in questo modo la propria intimità. Di fatto non sanno cosa dirsi, è un parlare di nulla. La mamma vuole controllare che il figlio abbia mangiato perché se ha mangiato allora vuol dire che va tutto bene, che sua figlia sta bene. La tematica del cibo attraversa tutta la trilogia, cibo come vita contrapposto alla morte. Per tutta la durata dello spettacolo si ha la sensazione di essere nella sua testa dove momenti di quotidianità si fondono a momenti di pura invenzione. Ciò è reso da una drammaturgia con un ritmo serrato in cui il linguaggio quotidiano si alterna ad un linguaggio con forti connotati emotivi; il linguaggio dell’inconscio.

 

Capitolo 3 “Un eschimese in Amazzonia” durata 65’

Quest’ultimo capitolo della trilogia dalla durata di 65 minuti tratta del difficile rapporto della persona transgender (l’eschimese) e la società (il coro). Al centro c’è l’eschimese con un cappuccio, come per proteggersi, e un microfono in mano, intorno a lui si muove il coro, lo segue, lo accerchia. Il coro,composto da 4 attori (Greta Cappelletti, Laura Donfi, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli), parla quasi sempre all’unisono con una lingua ritmata, molto spesso con accompagnamento musicale che lo rende ipnotico e pervasivo, a tratti soffocante e che si riflette in una gestualità scandita, ripetitiva. Sottopone l’eschimese ad un fuoco di fila continuo di domande ma non è realmente interessato ad ascoltare le risposte. Infatti hanno già le risposte fatte di stereotipi e luoghi comuni. Il monologo dell’eschimese, che si rifà al format della stand up comedy, è improvvisato e coinvolge il pubblico utilizzando l’ironia e la comicità per affrontare l’attualità politica ed esperienze di vita quotidiana. Oliver Hutton, l’eroe dell’infanzia diventa il simbolo del ”non arrendersi ”; infatti nonostante fosse sempre ferito alla spalla era sempre in campo e vinceva. Alla fine i fari accecano il pubblico, effetto che contribuisce a mantenere lo stato di confusione e spaesamento in cui lo spettatore è coinvolto per tutta la durata dello spettacolo, poi cala il buio e l’eschimese calcia il pallone. Il pallone apre e chiude la trilogia, un pallone che rappresenta il diverso ma allo stesso tempo la libertà.

Come è emerso dalle interviste fatte al pubblico dal progetto “nuovi sguardi”, gli spettacoli sono piaciuti molto e la tematica della ricerca dell’identità  e del conseguente disagio interiore è arrivato dritto al pubblico che si è sentito coinvolto ed emotivamente mosso.” Un turbamento emotivo”: così uno spettatore l’ha definito.

Carola Fasana

 

Cuore/Tenebra: racconto di una tirocinante.

Ho avuto la fortuna di svolgere il tirocinio presso il Teatro Stabile di Torino, seguendo come assistente allestimento la prima fase della creazione dello spettacolo Cuore/Tenebra: migrazioni da de Amicis a Conrad, in cartellone al Teatro Carignano dal 22 maggio al 10 giugno, con la regia di Gabriele Vacis e l’allestimento (o meglio, la scenofonia) di Roberto Tarasco.

Con questo articolo voglio condividere con i lettori del blog la mia esperienza in un mondo teatrale che non conoscevo e che ho trovato estremamente interessante e coinvolgente.

Da subito mi è stato chiaro che non si trattava solo della produzione di uno spettacolo nel senso stretto del termine, ma che questo sarebbe stato il risultato finale di un progetto più ampio.

Cuore/Tenebra infatti è il primo esito spettacolare dell’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona, un progetto ideato da Gabriele Vacis, Roberto Tarasco e Barbara Bonriposi, sostenuto dal Teatro Stabile di Torino, la Regione Piemonte e la Compagnia di San Paolo.

Per comprendere l’esperienza dello spettacolo è indispensabile fare un excursus sul progetto da cui nasce.

L’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona propone un teatro sociale, basato sull’inclusione, dedicandosi alle tecniche che il teatro può offrire all’individuo, a prescindere dallo spettacolo e facendole confluire nella pratica della Schiera e nel teatro di narrazione.

La base per la cosiddetta salute personale è la consapevolezza.

In un mondo dove l’attività principale è il fare, non siamo più abituati a soffermarci ad ascoltare noi e le persone che abbiamo accanto, non siamo più in grado di prestare attenzione allo spazio in cui ci troviamo e alle relazioni che in questo spazio stabiliamo.

La parola chiave è Attenzione, e la pratica con la quale viene allenata prende il nome di Schiera, o Stormo.

Ispirandosi al volo degli uccelli, la pratica della schiera (apparentemente ma ingannevolmente facile), chiama in causa corpo, movimento e voce. Si tratta di ascoltare ciò che accade e farne costantemente parte, con la consapevolezza che chiunque può modificarlo in qualsiasi momento; di trovare un respiro comune, in cui si è parte di un coro, ma si è anche persona singola, si è parte di un gruppo ma si è anche protagonisti, consapevoli del fatto che le dinamiche e le relazioni cambiano costantemente.

Accanto all’allenamento dell’attenzione, la narrazione.

Ognuno di noi ha la sua storia, o meglio, le sue storie da raccontare e il palcoscenico si offre come il luogo dove farsi ascoltare. Un teatro per dare voce ai racconti.

A questo proposito l’Istituto porta avanti diverse attività tra le quali i colloqui con i migranti e i laboratori nelle scuole.

Mi ricollego ora con il progetto specifico Cuore/Tenebra, con il quale ho collaborato.

Lo spettacolo vede la partecipazione, oltre ad attori a tutti gli effetti, di un paziente del centro di salute mentale di Settimo Torinese, un ragazzo immigrato e sei scuole superiori di Torino e provincia.

Il punto di partenza sono i due famosi romanzi: il libro Cuore di Edmondo de Amicis e Cuore di Tenebra di Conrad.

Cuore, uscito nel 1886 è da subito uno dei libri in assoluto più venduti, nel tempo elogiato o criticato, ma che non lascia di certo indifferenti. Forte la sua matrice pedagogica nel voler formare gli Italiani come popolo unito. Enrico, un ragazzino torinese delle scuole elementari, grazie al suo diario ci racconta l’Italia e le sue storie di ricchezza, povertà, amicizia ed immigrazione (dal sud al nord Italia).

Cuore di Tenebra, del 1899, è un libro di ben diverso spessore e complessità. Narra di un viaggio nell’Africa nera, raccontando le barbarie e le razzie compiute dalle potenze occidentali sul continente africano.

Lo stesso periodo storico raccontato dai due punti di vista: storie di colonialismo e immigrazione.

Sono queste storie che Gabriele Vacis vuole portare sul palcoscenico del Carignano, mescolate con i racconti dei ragazzi delle scuole superiori e le loro esperienze di vita. Il progetto infatti si sviluppa su due fronti: la creazione con gli attori e i laboratori nelle scuole.

Durante il mio periodo di tirocinio ho avuto modo di seguire entrambi i fronti, ma in particolar modo vorrei descrivere il lavoro svolto nelle scuole, poiché è questa esperienza a rendere cosi diversa la proposta di Gabriele Vacis e Roberto Tarasco.

Il principio fondamentale è che ai ragazzi non viene detto cosa devono fare e quando devono farlo, ma vengono allenati alla consapevolezza e al racconto. Da un lato praticando la schiera e ascoltando i testi (presi da Cuore e Cuore di Tenebra) che gli attori raccontano loro, dall’altro gli viene chiesto di ricordare ed elaborare delle esperienze personali a partire da spunti di riflessione nati da temi presenti nei libri, con lo scopo di creare un filo di collegamento tra i racconti di Enrico nel suo diario e la loro quotidianità scolastica: “Ricordi una volta che hai avuto davvero paura?”, “Quando ti sei sentito parte di un “noi”?”, “C’è stato un momento in cui ti sei sentito al sicuro?”.

Ogni classe si approccia in modo diverso, e in ogni classe ci sono ragazzini e ragazzine di ogni tipo: il bulletto che si rifiuta di fare le cose, il timido, quello a cui piace stare al centro dell’attenzione, il ragazzino veramente interessato a quello che si sta facendo.

All’inizio del percorso laboratoriale le differenze erano molto evidenti. Una cosa che mi ha colpito molto è stato vedere come man mano che il lavoro avanzava, i ragazzi hanno iniziato a capire l’importanza e soprattutto la bellezza di quello che stava accadendo, lasciando piano piano cadere le resistenze, trovando cosi il piacere di fare parte di questo progetto comunitario.

Di sicuro non è questo quello che si aspettavano quando gli è stato detto che avrebbero fatto parte di un progetto teatrale.                                     Più di qualcuno nelle video interviste o nel loro Diario ha scritto “ci aspettavamo di dover interpretare qualche personaggio, e invece passiamo il tempo a camminare”.

E difatti è cosi: non c’è nessun personaggio da recitare, c’è da portare sul palcoscenico se stessi. E per portare sul palcoscenico se stessi bisogna imparare ad essere presenti, nel qui e ora, in relazione a ciò che accade e alla presenza dei compagni.

Lo stesso tipo di allenamento viene chiesto agli attori, in prova alle Fonderie Limone. Ad ogni attore sono assegnati dei racconti, ma oltre a questo, non esiste una drammaturgia precisa di ciò che deve accadere in scena. Esiste solo la verità del presente di ognuno, e sono queste verità che vanno a costruire lo spettacolo.

Concludo così, augurando una buona visione a tutti coloro che saranno prossimamente tra il pubblico del Carignano.

Lara Barzon

Programma Torinodanza 2018

Il nuovo direttore artistico di Torinodanza, Anna Cremonini, già presidente della commissione consultiva danza del MiBACT, ha presentato giovedì scorso al Teatro Carignano la nuova stagione del festival. L’edizione 2018, che si terrà come di consueto fra l’autunno e l’inverno di quest’anno, si svolgerà all’insegna di un’apologia dell’amore: Dance me to the end of love è infatti il motto che la identificherà. Con l’immaginazione e la fascinazione, il festival si propone quale “galleria d’arte – scrive la Cremonini – in cui artisti e spettatori si confrontano sui grandi temi del nostro presente” e dove “perdersi in un labirinto di emozioni e sentimenti”.

Dal 10 settembre al 1 dicembre Torinodanza festival presenterà 18 spettacoli, 34 rappresentazioni, 10 prime nazionali, 6 coproduzioni e 16 compagnie ospitate, provenienti da 8 diverse nazioni, confermando la sua vocazione internazionale, nonché una particolare attenzione alle eccellenze italiane. Si augura inoltre di avere una forte incidenza sulle diverse fasce di pubblici fornendo un’app dedicata con cui consultare il calendario e acquistare i biglietti, un’agevolazione di prezzo per chi viene a Torino con Italotreno, una navetta che collega la fermata Lingotto della metropolitana alle Fonderie Limone.

Vediamo brevemente l’offerta del programma, considerando che un’anteprima del festival è già andata in scena in questi giorni alle Fonderie Limone: Betroffenheit di Crystal Pite e Jonathon Young. Ad inaugurare la stagione saranno due spettacoli del maestro belga della danza contemporanea, Sidi Larbi Cherkaoui, (divenuto “artista associato” di Torinodanza per il prossimo triennio), Noetic e Icon, il 10 settembre al Teatro Regio. Segue, dal 13 al 16 settembre, il primo di due spettacoli di circo, Famille Choisie della Compagnia Carré Curieux, in partenariato con il progetto Bruxelles En Piste. Al Teatro Carignano, il 14 e il 15 settembre, sarà presentato in prima assoluta Bach Project, una serata che nasce dalla collaborazione artistica tra Torinodanza, MITO settembre musica e Aterballetto e che prevede un classico di Jiří Kylián, Sarabande, accostato al nuovo lavoro di un giovane coreografo italiano, Diego Tortelli, intitolato Domus Aurea. Inoltre il 15 settembre al Cinema Massimo verranno proiettati, per la rassegna Jiří Kylián, Filmmaker, i film diretti dallo stesso coreografo Scalamare (2017), Schwarzfahrer (2014) e Between Entrance & Exit (2013). Nella stessa occasione Kylián converserà con il pubblico, coordinato da Sergio Trombetta. Il 17 settembre il Teatro Carignano ospita un progetto di Marinella Guatterini, RIC.CI, dedicato alla ricostruzione di storiche coreografie italiane degli anni ’80 e ’90, che per quest’occasione riporterà in scena Erodiade – Fame di Vento (1993 – 2017), un’opera del 1993 nata dalla speciale collaborazione tra Julie Ann Anzilotti e Alighiero Boetti. Il pluripremiato The Great Tamer del greco Dimitris Papaioannou sarà alle Fonderie Limone di Moncalieri il 20, 21 e 22 settembre e allo spettacolo farà da cornice la video installazione Inside, ideata e diretta dallo stesso coreografo, alle OGR – Officine Grandi Riparazioni, dal 20 al 30 settembre. L’israeliana Sharon Eyal, proveniente dalle fila della Batsheva Dance Company, con Gai Behar, presenterà OCD Love e Love Chapter 2, rispettivamente il 29 e il 30 settembre, alle Fonderie Limone. Il secondo spettacolo di circo, di nuovo inserito nel progetto Bruxelles En Piste, è La Vrille du Chat, con la coreografia di Cruz Isael Mata, in scena dal 5 al 7 ottobre al Teatro Astra in prima italiana. Un progetto molto particolare è invece VERTIGINE, il risultato di un anno di lavoro sui territori di montagna tra Torino e Chambéry che hanno visto gli artisti Michele Di Stefano, Marco D’Agostin e Chloé Moglia creare tre spettacoli, (rispettivamente Parete Nord, First Love e La Spire) direttamente nei territori di Bardonecchia e di Pragelato. Gli esiti verranno presentati alle Fonderie Limone di Moncalieri fra il 12 e il 14 ottobre. Nell’ambito dello stesso progetto confluiranno due incontri fra artisti e sportivi: il 13 ottobre con Michele Di Stefano, Alessanro Gogna e Alberto Re e il 14 ottobre con Marco D’Agostin e Stefania Belmondo. Inoltre La Spire andrà in scena anche il 28 luglio in Piazza De Gasperi a Bardonecchia e Michele Di Stefano presenterà il suo Ortografia il 4 agosto nella Baita Chesal della Frazione Melezet di Bardonecchia. Il 16 ottobre Pompea Santoro presenterà, attraverso i suoi ballerini, un excursus sui ruoli di Mats Ek da lei interpretati durante la sua carriera, al Teatro Astra. Alle Fonderie Limone debutterà il riallestimento di uno storico spettacolo di Mario Martone del 1982, Tango Glaciale, il 18 e il 19 ottobre, a cura di Raffaele Di Florio e Anna Redi, sempre inserito nel progetto RIC.CI. Il 20 e il 21 ottobre alla Lavanderia a Vapore andrà in scena il solo Néant di e con il canadese Dave St-Pierre. Salia Sansou, coreografo del Burkina Faso, presenterà il suo Du Désir d’Horizons il 25 e 26 ottobre ancora alle Fonderie Limone. Chiuderà la stagione Alain Platel con il suo ultimo spettacolo, Requiem pour L. La specificità fondamentale del programma si riassume in una evidente tendenza multidisciplinare che si prefigura di amalgamare teatro, danza, musica, nuovo circo, in una fecondazione creativa tra generi differenti.

Da segnalare, infine, l’intenzione di valorizzare il network che alimenta le realtà coreutiche locali e nazionali di cui la nostra danza e la nostra progettazione si alimentano enormemente. Torinodanza Festival, con Romaeuropa Festival e il Festival Aperto – I Teatri (ma potremmo citarne molti altri) si propone di far emergere dall’ombra questa importante rete e sfruttarne al meglio le potenzialità, alla luce del giorno.

Il festival, che la Cremonini eredita da Gigi Cristoforetti, il quale si è intanto trasferito a Reggio Emilia presso l’Aterballetto, è un vero e proprio “gioiello”: anche i rappresentanti delle istituzioni (tra le altre Compagnia di San Paolo, Intesa San Paolo, Città di Torino, Regione Piemonte, MITO Settembremusica) ne riconoscono il prestigio e il valore strategico. Siamo sicuri che il triennio 2018-2020 sarà altrettanto valido quanto quelli che l’hanno preceduto.

Presentazione Stagione 2018-2019 Teatro Stabile Torino

Il 7 maggio 2018 al Teatro Gobetti si è tenuta la conferenza stampa di presentazione della stagione 2018/2019 del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.  Il presidente del Teatro Stabile, Lamberto Vallarino Gancia, e il direttore Filippo Fonsatti, introducono le novità della nuova stagione. Già il 2018 è iniziato con un “tridente artistico” formato dal nuovo Direttore Artistico Valerio Binasco, dal Dramaturg residente dello Stabile che si occupa della parte di ricerca, Fausto Paravidino, e  da Gabriele Vacis per la formazione, nel ruolo di Direttore della Scuola per Attori.  Un punto di svolta per lo Stabile volto a consolidare un rapporto complementare tra le sue diverse funzioni quali la produzione, la formazione e la ricerca.

La parola poi passa al direttore artistico Valerio Binasco, un vero mattatore, che si prende la scena. Ci racconta, teatralizzando la lettura, la sua idea di teatro e l’orizzonte a cui vuole tendere la nuova stagione. Comincia a parlare di sé e spiega diversi problemi a partire dai quali si è posto delle domande. Ha cercato di girare a largo dalla cattiva recitazione e che continuerà a provarci. <<La recitazione ha a che fare spesso con le bugie e l’unico metodo per dire buone bugie è nel crederci>>. Quindi il problema numero  uno è con se stesso.

Il secondo riguarda il suo modo di fare e concepire la regia. Un teatro come prassi che per manifestarsi, non ha bisogno di ragionamenti, ma solo di alcune condizioni fisiche dove persone fatte in carne e sangue incontrano persone immaginarie e in uno spazio dove poter agire. Quindi un regista deve scegliere le persone e lo spazio in cui farle agire e mettersi in ascolto profondo di quel che accade tra attori e lo spazio.

Cita poi uno dei suoi maestri che lo ha influenzato con i propri scritti, Peter Brook. Da lui ha preso anche l’abitudine a lavorare sugli esercizi. La recitazione va continuamente nutrita, stimolata, coccolata.

Il terzo problema  riguardo l’idea del mondo. Per avere un’idea di teatro ci vuole un’idea di mondo, e quindi dell’uomo. Binasco è innamorato della vita degli uomini , e da lì nasce la sua vocazione teatrale . Il suo lavoro è un tentativo di narrare questo amore, condividerlo col pubblico, ma le persone non si meritano tutto questo amore.

Quest’anno darà il via ad un Ensamble, chiamato Lemon Ensamble che si terrà alle Fonderie Limone, dove gli attori vivranno e studieranno e metteranno in scena Shakespeare. Oltre a questa novità, un’altra è quella di dare spazio ai giovani, non relegandoli in una sezione a loro dedicata, per esempio delle nuove scoperte, ma integrandoli con gli altri registi e attori.

Un ultimo punto da lui affrontato è il lavoro sui classici. Teatro è un gioco, una festa. Festa dei sentimenti umani, festa delle storie che l’umanità ha raccontato su se stessa e sui suoi sentimenti. L’antico teatro è ancora il teatro della festa e della favola. Un teatro classico che ha continuato ad essere contemporaneo nei secoli. Siamo tutti contemporanei, almeno da Socrate in poi.

Questa è l’idea di teatro di Valerio Binasco. Ma veniamo agli spettacoli in programma per la prossima stagione. Qualche numero: 67 spettacoli di cui 17 produzioni, 32 spettacoli ospiti e 18 di Torinodanza. Proposte che spazieranno dai grandi classici, portati in scena anche in modo innovativo, alla drammaturgia contemporanea. Un programma molto ricco, attento alla valorizzazione dei talenti emergenti e sempre più internazionale, come conferma l’inserimento del Teatro Stabile di Torino (unico teatro italiano) nel prestigioso network Mitos 21, composto dai più importanti teatri europei.

Nucleo centrale, come di consueto, sarà il progetto produttivo: a portare in scena i classici in modo originale, mantenendo un rispetto del testo risaltandone l’attualità, sarà Valerio Binasco con Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (spettacolo di apertura della stagione al Teatro Carignano) e Amleto di William Shakespeare. A mettere in scena altri classici saranno Antonio Latella che dirigerà L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi di Sergio Tofano e Nino Rota; Filippo Dini che curerà la regia di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello,  con Giuseppe Battiston e Maria Paiato, arte e vita si disintegrano sulle tavole del palcoscenico, potente metafore sull’incertezza delle relazioni; Jurij Ferrini regista e interprete di Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand.

L’impegno Internazionale si conferma con la produzione de La Maladie de la mort, una profonda esplorazione dell’intimità, della pornografia e del sesso, diretto dalla regista inglese Katie Mitchell, coprodotto con il Theatre des Bouffes du Nord,  e con Nora/Natale in casa Helmer diretto da Kriszta Szekely, giovane regista ungherese; Alain Platel porterà in scena Requiem Pour L., riflessione sofferta sul tema della morte intesa come parte sostanziale e sublime della vita, come esperienza umana e spirituale.

La valorizzazione della drammaturgia contemporanea avviene con la messa in scena per esempio de La ballata di Johnny e Gill di Fausto Paravidino , un viaggio della speranza; Sei di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, che si soffermano per la prima volta su un testo pirandelliano; la difficoltà di vivere con un malato, le dinamiche famigliari che si incrinano di fronte ad un disturbo mentale, il rapporto tra genitori ed adolescenti, e un omicidio sono presenti in Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Simon Stephens dal romanzo di Mark Haddon diretto da Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; Il canto della caduta di Marta Cuscunà, giovane talento emergente, artefice di un teatro impetuoso e coinvolgente, racconta della fine di un regno delle donne e l’inizio di una nuova epoca del dominio e della spada, con la presenza di robot analogici creando una sinergia tra arte e tecnologia; Francesco d’amore e Luciana Maniaci mettono in scena Petronia, interrogandosi sull’immaginazione come unica forza capace di rivoluzionare le nostre vite.

Tra le produzioni ci saranno anche Se questo è un uomo di Valter Malosti; tornerà Novecento di Alessandro Baricco diretto da Gabriele Vacis e Mistero Buffo di Dario Fo, per la regia di Eugenio Allegri.

Altri spettacoli saranno Il giocatore da Fedor Dostoevskij diretto da Gabriele Russo ; I miserabili da Victor Hugo e diretto da Franco Però; Massimo Popolizio porterà in scena Ragazzi di vita di Pasolini; sarà presente anche Cechov con Il Gabbiano per la regia di Marco Sciaccaluga; Il vangelo secondo Lorenzo portato in scena da Leo Muscato; Giuseppe Cederna dirige Mozart-Il sogno di un clown; sarà presente inoltre Gabriele Lavia con I ragazzi che si amano da Jacques Prevert; Emma Dante con La scortecata.

Molti altri nomi comporranno la prossima stagione dello Stabile di Torino. Tutti insieme formeranno, per riprendere alcune delle parole di Valerio Binasco, una festa, perché il teatro è una festa, a cui tutti siamo invitati.

Torino, 7 maggio 2018

 

INFO STAMPA: Area  Stampa e Comunicazione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

CarlA Galliano (Responsabile), Simone Carrera

Via Rossino 12 – Torino (Italia). Telefono + 39 011 5169414 –  5169435

E-mail: galliano@teatrostabiletorino.itcarrera@teatrostabiletorino.it – www.teatrostabiletorino.it

 

Diario di una Tirocinate – Don Giovanni

Cari lettori, vi scrivo per raccontarvi un’esperienza unica!
Ho la fortuna di fare un tirocinio presso il Teatro Stabile di Torino, e non negli uffici, ma svolgendo un lavoro dall’interno di in uno degli spettacoli che si prospetta tra i più interessanti della stagione: Don Giovanni per la regia di Valerio Binasco. Subito dopo il primo incontro  con Valerio Binasco  in quattro e quattr’otto mi sono ritrovata al tavolo con tutti gli attori il primo giorno di prove.
Ufficialmente alle 14.39 di Lunedì 26 febbraio, si è partiti in q

13/03 Giornata di Memoria per tutti!

uesta avventura. I primi due giorni, siamo stati ospitati al Gobetti in sala Pasolini, perché alle Fonderie Limone faceva troppo freddo e nessuno si deve ammalare! Per me e la mia compagna di avventura ed amica, Giada, i primi giorni ci sono serviti per capire con chi avevamo a che fare, che tipo di lavoro sarebbe stato il nostro. Seppur un pochino spaesate, fin da subito Valerio ci ha integrato in tutto e per tutto nell’organico presentandoci a tutta la compagnia.
A metà settimana poi ci siamo spostati alle Fonderie, ed aspettando che la scenografia fosse pronta, gli attori hanno iniziato ad alzarsi dal tavolino e a provare con movimenti, in sala K.
E’ molto interessante vedere, giorno dopo giorno, come i personaggi prendono vita e ognuno degli attori ci mette se stesso. Binasco è molto attento a non togliere la naturalezza propria di ogni attore, e senza che vi sveli troppo, lo vedrete maggiormente nel secondo atto, che nel caso di alcuni personaggi è stato riscritto in dialetto.
I problemi ci sono stati in queste prime due settimane di lavoro, uno su tutti l’impatto con la scenografia: si tratta di una compagnia che in passato ha lavorato molto a tavolino e in movimento (provando e costruendo le scene in spazi più piccoli e creando insieme una scena collettiva che fosse la stessa nell’immaginario di tutti).
Questo maggiormente si è verificato per il secondo atto, ambientato in un piccolo Bar. Ogni attore vi vedeva un bar differente. Il problema ha trovato la sua soluzione quando gli attori si sono seduti e hanno raccontato cosa fosse per ciascuno quel luogo, spostando gli attrezzi di scena, vivendolo per davvero e affrontando lo spazio, senza paure.
Adesso si sta procedendo in maniera spedita a montare i vari atti, i costumi sono in via di rifinitura, le musiche sono sempre più precise e le luci vanno a scolpire i sentimenti dei personaggi.
Nel frattempo, noi suggeriamo, corriamo a destra e sinistra per fare in modo che non manchi mai nulla e scriviamo i vari rapporti di giornata.
Come sta andando, cosa sta succedendo….? Lo saprete tra una settimana.
Blogger in incognito, Elisa Mina

Copioni di Commento – Illusion Comique

Illusion Comique in scena dal 16/01 al Teatro Gobetti.

Abbiamo deciso – essendo delle teatranti in embrione e compagne di palchetto –  di raccontarvi lo spettacolo insieme. Lo faremo in un modo nuovo per il Blog: come se fosse un copione, vi riporteremo le nostre conversazioni a caldo post spettacolo, ma anche quelle un po’ più riflessive  qualche giorno dopo lo spettacolo.

SIPARIO
Siamo in bagno e uno specchio corre lungo la scena. Elisa seduta su uno sgabello della toeletta bianca, Emily allo specchio cerca maldestramente di togliersi le lenti a contatto.

Elisa:      Allora? Si può sapere cosa ne pensi? Sono venti minuti che scuoti il capo sostenendo di aver visto di meglio. Dovresti essere più specifica.

Emily:    Parliamo ancora di Illusion Comique?

Elisa:      No, della pizza mangiata a cena! Certo che parlo dello spettacolo, dovremmo pur scrivere qualcosa  sul blog!

Emily:    E’ proprio questo il punto, non saprei cosa scrivere in proposito. Purtroppo, non mi ha entusiasmata. Insomma, si vede che è stato fatto da professionisti, ma…

Elisa:      Lo so, la recitazione in versi, vero?

Emily:    Sì, anche. Voglio dire: sembrava che alcuni attori non avessero capito bene ciò che stavano dicendo. Credo che un testo come quello meriti un’attenzione particolare, in modo tale che possa essere  compreso dal pubblico. Non metto in dubbio la difficoltà degli interpreti,   ma alle volte non si capiva   il significato delle parole pronunciate, quasi come se stessero sciorinando la lista della spesa senza  pensare al contenuto delle battute. Il risultato? Il poco pubblico presente perdeva facilmente l’attenzione.

Elisa:      Sei ingiusta, nel complesso non è stato così terribile.(trasognata) Ho trovato pregevole l’effetto  lanterna sulle pareti del teatro, all’inizio. E poi il rumore delle goccioline d’acqua dava               l’impressione che tutto il Gobetti si fosse trasformato in una grotta. Sembrava quasi di essere  parte della scena grazie alle prolunghe laterali e frontali del palco.

Emily:    In effetti, trattandosi di uno spettacolo metateatrale, devo ammettere che alcune scelte registiche    sono state particolarmente efficaci nel far accadere l’ “illusion comique”, appunto. Come la            materializzazione della quarta parete. Il tulle bianco dietro il quale recitano gli attori sembrava uno  schermo cinematografico. Lasciarlo cadere, alla fine, ha proiettato direttamente gli spettatori   dentro il teatro e fuori dall’illusione teatrale.

Elisa:      Alcune cose non le ho capite però. L’aspetto totalmente anacronistico dello stregone per esempio.

Emily:    Mmm. Condivido, sembrava Ozzy Osbourne con quegli occhiali da sole. Dici che ai tempi di  Corneille erano già stati inventati?

Elisa:      (assumendo il tono che avrebbe Wikipedia se potesse parlare) Gli occhiali da sole devono le loro origini agli Inuit che utilizzavano ossa di tricheco intagliate per proteggersi dai riflessi della luce sulla           neve, ma solo nel 1700 assumono la forma che conosciamo ora.

Emily:    (rivolgendosi al suo riflesso) Ma come diavolo fa a sapere certe cose?!

(il riflesso sullo specchio tace in empatica incredulità).

Elisa:      Io mi documento! Ora per cortesia  non fare i tuoi soliti commenti sulla mia dedizione allo studio. Io  me ne vado a letto. E vedi di non finirmi la crema notte, so che sei stata tu l’ultima volta.

Emily:    (con aria innocente) Sogni d’oro. (Elisa esce)

(Emily svuota il barattolo della crema)

Si spegne la luce.

SIPARIO

Emily Tartamelli ed Elisa Mina

di Pierre Corneille
con Titino Carrara, Leonardo De Colle, Loris Fabiani, Fabrizio Falco, Mariangela Granelli, Elisabetta Misasi, Massimo Odierna, Matthieu Pastore, Maurizio Spicuzza
regia Fabrizio Falco
scene e costumi Eleonora Rossi
luci Pasquale Mari
musiche Angelo Vitaliano
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con Centro Teatrale Santa Cristina

Teatro, salute e disuguaglianze

“ll teatro è politica fatta con altri mezzi” ci ha ricordato a suo tempo Eugenio Barba. Se questa massima non si è sbiadita si riconferma oggi più attuale che mai, ribadendo quel dovere proprio di tutti gli addetti al multiforme settore dello spettacolo dal vivo di farsi carico di una non secondaria responsabilità. La chiamata si fa tanto più impellente quanto più si sfilaccia la comunità che la genera, in un presente storico nel quale la partecipazione politica non è delle più fortunate e la fatidica forbice fra cittadino e istituzioni va intensificandosi anziché accorciarsi.

Quel vasto territorio pedagogico, artistico e politico che oggi si definisce sotto il nome di Teatro sociale e di comunità sembra accettare tale sfida e accoglierne le problematiche pratiche e le contraddizioni metodologiche. Si è svolta a questo proposito, il primo di febbraio, una giornata internazionale di studio dal titolo Teatro, salute e disuguaglianza. Dodici ore di lezioni, approfondimenti e tavole rotonde organizzate dall’Università di Torino presso l’Aula Magna dello stesso ateneo e il Teatro Vittoria di via Gramsci. Docenti, operatori, esperti e ricercatori si sono succeduti in un exploit di esposizioni che avessero, come ha sottolineato l’Assessora Monica Cerutti, un comune filo rosso che riconducesse ad una impellente quanto scottante tematica: l’ascolto della persona. Una materia complessa che richiede un approccio trasversale ma al contempo delicato, in un contesto amministrativo nel quale, al contrario, l’ambito pubblico sembra ragionare per compartimenti stagni.

L’unità di ricerca del PRIN – Per-formare il sociale, riallacciandosi a quell’antica tradizione di un teatro come forma di cura, vuole riaggiornare l’argomento all’epoca dell’istituzione sanitaria, all’insegna delle nuove strategie comunitarie e delle pratiche artistico-terapeutiche, affinché il teatro sociale possa acquisire un suo autonomo statuto scientifico. Si ricorda a tal proposito che il teatro sociale così inteso è nato proprio sul suolo torinese e che la sua natura democratica e paritara lo rende uno strumento efficace sia all’interno delle performing-arts sia come risorsa per i settori socio-sanitari e socio-educativi. Chi ha a cuore la comunità come produttrice di cultura e la cultura come indicatore di salute della stessa comunità non può prescindere dal promuovere le possibilità dell’arte di coltivare i rapporti sociali laddove ve ne sia carenza. Il Social Community Theatre Centre (SCT) dell’Università di Torino, diretto da Alessandra Rossi Ghiglione e ideato insieme ad Alessandro Pontremoli, forte di una lunga esperienza sul campo, offre oggi una metodologia riconosciuta a livello internazionale, un dispositivo culturale di innovazione sociale e di contrasto alle disuguaglianze.

Per contro bisogna tener presente che chi il teatro lo fa da una vita ha a cuore il suo ruolo professionale e difficilmente accetterà con serenità di condividere il suo bagaglio di competenze con una fetta di pubblico estranea al suo mondo operativo. O, se lo farà, ne trarrà ben poca soddisfazione. Questa impasse viene portata alla luce dall’intervento di Pier Luigi Sacco. Il Professore dell’Università IULM di Milano, infatti, sottolinea li rischio considerevole di strumentalizzazione culturale ai fini terapeutici cui lo strumento artistico in mano ai non artisti può andare incontro. In altre parole sarebbe facile ritrovarsi a somministrare dosi di pratiche teatrali in sostituzione a prescrizioni mediche. Siccome non sono disponibili facili risposte, la necessità è quella di co-progettare a stretto contatto con gli artisti del teatro che siano volenterosi di farlo, per rispettare un ampio spettro di competenze preziose e valorizzare un ambito artistico-professionale che necessariamente possiede regole e metodi tutti suoi. Diversa è invece la posizione di Giuseppe Costa, docente di Sanità Pubblica presso l’Università di Torino, il quale, occupandosi da vicino di epidemiologica, considera a prescindere gli strumenti culturali e sociali i più validi a migliorare quella costruzione sociale che è la salute. Chiude la lunga giornata l’intervento di Claudio Bernardi il quale, con sarcasmo, collocandosi fra i due tavoli dell’istituzione (i docenti) e del mercato (gli operatori), sottolinea la difficoltà implicita di chi si trova nel mezzo dei due tavoli (il cittadino) di farsi sentire e contemporaneamente di comprendere e condividere gli equilibri dei due colossi posti ai suoi lati, con partecipazione e fiducia.

La sfida lanciata da Eugenio Barba, al fine di ricreare quello spazio potenziale dove differenze fra dominato e dominatore si possano, non solo retoricamente, superare, rimane aperta e quanto mai attuale. In particolare se confrontata ai recenti sviluppi storico-politici. La giornata di studio denota l’intenso impegno dell’istituzione universitaria, capace di sporcarsi le mani con le problematiche sociali e di non rifugiarsi, soprattutto in campo artistico, nello sterile accademismo.

Il dramaturg come figura di potere

Per il ciclo “Partecipare” alla Lavanderia a Vapore di Collegno continuano gli incontri di teoria sulla danza e sullo spettacolo dal vivo aperti a tutti, e che in questo caso premiano i partecipanti con agevolazioni, grazie alla nuova carta “IO PARTECIPO”. La ragione della conferenza è da ricercare in un simposio svoltosi nell’intera giornata del 3 dicembre del 2016 intorno alla figura del dramaturg, convegno del quale sono da poco stati pubblicati gli atti. Ospiti di questa presentazione, Alessandro Pontremoli e Carlo Salone (entrambi dell’Università di Torino, rispettivamente Dipartimento di Studi Umanistici e DIST), in dialogo con Workspace Ricerca X e Piemonte dal Vivo, il cui nuovo direttore, Matteo Negrin, si è presentato al pubblico della Lavanderia in apertura all’incontro. Per inciso, Negrin ha specificato l’intenzione di capitalizzare il prezioso lavoro svolto nello scorso triennio da Paolo Cantù e migliorarne l’andamento confrontandosi con i risultati già ottenuti.

Dalle riflessioni di Bourriaud a quelle di Foucault, passando per de Certau, si nota subito di come la semplice presentazione di un convegno sulla discutibile figura del dramaturg conduca in zone del dibattito teorico ben più vaste ed urgenti del solo mercato dello spettacolo. Il sistema teatrale, il suo sviluppo, e soprattutto il suo presunto inviluppo, si confermano strettamente legati alla vita politica di un paese, muovendosi fra sociologia e tradizione impresariale. Titolo del convegno del 2016 era RE: SEARCH DANCE DRAMATURGY, laddove si cercava di identificare un preciso ruolo professionale che si distinguesse da quello del semplice drammaturgo. Se quest’ultimo è per definizione colui che firma il testo teatrale da mettere in scena attraverso l’interpretazione di un regista e della sua compagnia, il dramaturg sarebbe invece quell’individuo, ma anche quel processo creativo in senso più generale, che sta all’origine della contemporanea creazione artistica post-moderna (o post-drammatica, secondo una fortunata definizione di Hans-Thies Lehmann) ormai ampiamente svincolata dalla narratività intesa in senso classico, quella della tradizione aristotelica e della costruzione di situazioni e personaggi facilmente riconoscibili e condivisibili.

Figura tanto ricercata quanto temuta per l’importanza che evidentemente riveste nella riuscita di uno spettacolo, il dramaturg da un lato dona speranza agli operatori che si ritrovano assistiti nel difficile compito di produrre e distribuire spettacoli impossibili, dall’altro preoccupa oltremodo gli artisti che richiedono una libertà d’azione sempre più ampia, ma che facilmente sfocia in un apparente caos. Specialmente se si parla di artisti della danza contemporanea (ricordiamo che la Lavanderia a Vapore, in quanto centro europeo per la coreografia, ha molto a cuore l’argomento). La danza cosiddetta “del terzo paesaggio” (la puntuale definizione è di Fabio Acca) sappiamo infatti essere una disciplina che, in virtù forse del suo linguaggio strettamente fisico, ha con la cultura letteraria e/o drammaturgica, da sempre, un cattivo rapporto. Ma se fosse solo una questione di fisicità sarebbe tutto molto più facile. Se invece la risoluzione dei problemi relativi alla fruizione della danza non è così scontata, e questo convegno ne è una delle molte conferme, si tratta di ricercarne le cause, più audacemente, alla radice.

La definizione di Fabio Acca, per esempio, ci induce a pensare che possa essere proprio la sua innata tendenza allo sconfinamento ad impoverire le manifestazioni della performance contemporanea, non consentendole mai acquisire fondamento sociale, culturale, etico e politico. Di diventare, in altre parole, una disciplina, con una sua più o meno ben delineata identità. Identità che, per statuto, necessita di limiti per definirsi, e in mancanza della quale non può consolidarsi un interesse spettatoriale che vada al di là della mera fascinazione passeggera.

La problematica “danza contemporanea” richiede forse una rivalutazione del suo statuto, ma da parte degli stessi artisti. Non più un terzo paesaggio nel senso di un luogo abbandonato dall’uomo, come vorrebbe la natura della definizione, mutuata da un celebre saggio di Clément, ma nel senso di un luogo certamente altro dal paesaggio comune, ma pur tuttavia dotato di tutte quelle caratteristiche che fanno di un paesaggio un territorio.

Chissà poi se sarà più corretto farlo sfruttando l’apporto di nuove circostanze progettuali o, al contrario, sfoltendo considerevolmente la mole di labirintiche strutture produttive fra le quali il nuovo addetto ai lavori si trova suo malgrado a doversi orientare?

Per risposte a queste ed altre domande invitiamo a consultare il libro in questione, RE:SEARCH_DANCE DRAMATURGY, Prinp Editore, 2017.

Per una panoramica dei due spettacoli che hanno seguito la conferenza alla Lavanderia (Why are we so f***ing dramatic, produzione Fattoria Vittadini e Peurbleue, di C&C Company) rimandiamo alla recensione di Lucrezia Collimato.