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Lezioni di Teoria alla Lavanderia a Vapore – Esperienza e Memoria

Nella serata del 13 dicembre, presso la Lavanderia a Vapore di Collegno, la celebre compagnia belga ROSAS ha presentato il suo nuovo ed attesissimo lavoro, A Love Supreme, un’intensa coreografia di cinquanta minuti scritta sulle musiche dell’omonimo disco di John Coltrane. L’egregio dialogo tra scrittura musicale e coreica, messo a punto da Anne Teresa De Keersmaeker e Salva Sanchis, ha motivato alcuni incontri storico-teorici tenutisi nelle ore precedenti allo spettacolo, negli spazi della stessa Lavanderia. Le lezioni hanno visto la partecipazione di Susanne Franco, studiosa dell’Università Ca’ Foscari Venezia, e del musicologo Luca Bragalini.

La prima, svoltasi nel pomeriggio all’interno della sala prove, si inserisce nel percorso di formazione Botteghe d’Arte, che la Lavanderia a Vapore (con il supporto di Piemonte dal Vivo) ha avviato insieme alla Rete Anticorpi XL in collaborazione con la  NOD (Nuova Officina della Danza), offrendo una buona commistione di pratica e teoria ai professionisti del settore. Susanne Franco ha illustrato quelle peculiarità proprie della teoria della danza che ne fanno una disciplina tanto difficile quanto affascinante da approcciare. Esistono infatti, ci insegna la studiosa, due tipi di archivi dai quali attingere la storia della danza: i documenti segnici (foto, video, scritti, disegni, che raccontano di una determinata produzione coreografica) e i corpi dei danzatori sui quali la coreografia stessa è stata scritta. Dall’incontro di questi due serbatoi di memoria, ontologicamente molto diversi, emergono molteplici modalità di ricostruzione del passato coreutico che Susanne Franco, attingendo dal saggio di André Lepecki Il corpo come archivio, ha delineato attraverso alcuni casi topici. Primo quello di Lamentation, celebre solo di Martha Graham presentato dalla stessa autrice negli anni trenta, la quale ne modificò considerevolmente alcuni tratti quando, quarant’anni dopo, lo ricostruì, interpretato da Peggy Lyman. Secondo caso, il dissacrante pezzo che Jerome Bel ha scritto nel 2004 per la danzatrice Véronique Doisneau, ballerina del corpo di ballo dell’Opera di Parigi, la quale racconta, in scena, di come gli agi e i disagi del suo lavoro e del suo ruolo professionale abbiano influito sulla sua vita personale.

Susanne Franco ha poi invitato i partecipanti, prevalentemente addetti ai lavori (danzatori e/o coreografi) a riflettere sul complesso concetto di copyright applicato alla danza. A chi appartiene un’opera creata e firmata da un autore ma scritta sul e con il corpo di un interprete, il quale ne rende a sua volta possibile l’esistenza e la trasmissione? La studiosa ha preso a esempio il caso clamoroso di Richard Move, danzatore in grado di imitare lo stile e il carattere di Martha Graham in maniera tanto fedele da addossarsi più denunce da parte dei possessori dei diritti della Graham. Il processo ha interessato avvocati, critici e teorici, tra i quali lo stesso Lepecki. Addirittura Yvonne Rainer, storica coreografa della post-modern dance, si è cimentata nel tentativo di una “trasmissione impossibile”, cercando di insegnare (con scarsi risultati) i passi del suo Trio A alla finta Martha Graham interpretata da Move. L’ultimo caso di studio analizzato dalla ricercatrice è stato quello della Seasons March, semplice sequenza coreografica scritta da Pina Bausch per i danzatori della sua compagnia, i quali oggi insegnano la stessa sequenza ad amatori di tutto il mondo attraverso video tutorial accessibili a chinque. Sono così gli stessi fan della coreografa tedesca a farne rivivere la memoria attraverso il loro corpo, “appropriandosi” fisicamente dell’opera d’arte. I numerosi cortocircuiti culturali e coreografici esposti da Susanne Franco, in ultima istanza, dimostrano come la memoria necessiti di essere esperita per non perdere il suo profondo significato. Soprattutto nel campo della danza.

Foto di Fabio Melotti

Successivamente, nel corso della serata, si sono succeduti altri due incontri, interni al nuovo programma di formazione del pubblico avviato dalla casa della danza collegnese, denominato Scuola dello Spettatore. Gli interventi, propedeutici allo spettacolo A Love Supreme ed aperti a tutti, hanno trattato il primo la carriera musicale di John Coltrane e l’intrecciarsi di questa con la ricerca spirituale, il secondo la vita e la poetica dell’apprezzatissima coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker. Luca Bragalini ha introdotto gli spettatori al mondo intimo e creativo di uno tra i più geniali compositori nella storia della musica jazz, capace di reinventarsi ad ogni incisione, il quale, proprio nell’ultima traccia di A Love Supreme (1965), ha spinto la sperimentazione compositiva all’estremo, registrando una parte di sassofono fedelmente suonata secondo la metrica del testo di una preghiera da lui precedentemente scritta. Similmente, la coreografia presentata in prima regionale la stessa sera alla Lavanderia a Vapore, traduce la fitta partitura musicale di ogni singolo strumento presente nel disco in un tessuto di precisissimi movimenti affidati ad ognuno dei quattro danzatori in scena. Ancora Susanne Franco, infatti, ha poi illustrato la coretica dell’autrice belga, unica nel suo genere, e non a caso estremamente influenzata dallo studio della musica (la giovane De Keersmaeker ha infatti frequentato il conservatorio per qualche anno prima di virare verso la danza ed iscriversi alla Scuola Mudra di Maurice Béjart). “È una coreografa che pensa da musicologa – racconta la Franco – e che ha sviluppato uno stile compositivo di una complessità disarmante”. La lezione ripercorre esaustivamente le tappe dell’avvincente biografia dell’artista, dalle prime produzioni della compagnia al femminile ROSAS, fino all’apertura del P.A.R.T.S. a Bruxelles, forse ad oggi il più celebre e discusso centro di formazione di danza contemporanea di tutta Europa.

L’interessante ciclo di lezioni tenutosi alla Lavanderia a Vapore le vale a pieno merito il titolo di centro regionale per la danza in Piemonte, e, oltre ad incuriosire gli spettatori, informa gli addetti ai lavori di come la ricerca storica e teorica sia necessaria alla pratica coreutica e a sua volta bisognosa di stringere un più fertile rapporto con danzatori e coreografi. Inoltre l’eterogeneità delle materie trattate ci dimostra come il rapporto tra musicologi e teorici della danza, seppur imprescindibile, sia ancora attraversato da molta timidezza. Timidezza che, se nei primi è dettata da una storica posizione di superiorità culturale, nei secondi è quanto mai, ad oggi, ingiustificata. Musica e danza devono essere studiate insieme, non tanto per evidenti affinità contenutistiche, bensì per coincidenze metodologiche e, soprattutto, di linguaggio. Perché, citando il pensiero della De Keersmaeker, che delle due discipline ha fin da subito compreso la fondamentale inseparabilità, “la danza è un modo di agire, crescere e pensare che più di altri linguaggi richiede di svilupparsi in un contesto collettivo”.

Tobia Rossetti

Foto di copertina di Fabio Melotti

 

C’era una volta Pinocchio

C’era una volta Carmelo Bene, poi Comencini e infine Latella. Antonio Latella e il suo Pinocchio, andato in scena dal 29/11 al 3/12 al Teatro Carignano, una produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.
Ad accoglierci una scena completamente aperta, col fondo palco a vista e le casse in alto che fanno parte della scenografia, tipico di Latella. Oltre a questo, alcuni elementi che scopriremo più tardi l’utilizzo e un tavolo, sotto il quale si intravedono le gambe incrociate di un personaggio che mima con le mani tutto quello che succede prima di fare il suo ingresso in scena: il futuro Pinocchio, Christian La Rosa.
La storia la conosciamo tutti: il Burattino magico che diventa Bambino. Latella però  non ci mostra la versione che tutti da bambini abbiamo ascoltato. Piuttosto, lavora su Collodi e la sua vita, sulla perdita della sua bambina, sul dover far resuscitare Pinocchio per la stessa ragione capitata a Sir Arthur Conan Doyle con i suo Sherlock Holmes.
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UNA “SCANDALOSA GRANDEZZA”: A OTTANT’ANNI DALLA NASCITA DI CARMELO BENE

Mercoledì 13 Dicembre si è svolto presso Palazzo Nuovo un convegno dedicato alla controversa e singolare figura di Carmelo Bene, che proprio quest’anno avrebbe compiuto ottant’anni. Sembra quasi impossibile inquadrare completamente questo grande artista, che negli anni del suo lavoro ha sempre scatenato sentimenti e reazioni potenti, sia in negativo che in positivo. Scandali, ma un’innata genialità: già il titolo del convegno mette in evidenza la profonda contraddittorietà incarnata da Carmelo Bene, che per tutta la sua esistenza ha cercato di mostrare quanto ormai fosse impossibile parlare di attore tragico, mostrandolo apertamente al pubblico. Durante il convegno non si è parlato però solo dell’attore, ma anche del regista, del drammaturgo, del pensatore, del filosofo, dell’intellettuale, del letterato, che ha orbitato attorno al teatro, al cinema, alla televisione e alla radio, costruendo così una carriera che ha toccato molti aspetti dell’arte; nel corso del convegno infatti abbiamo ascoltato vari punti di vista di esperti del settore che hanno cercato di mettere a fuoco l’opera complessa di Carmelo Bene.

Dopo l’introduzione dell’organizzatore del convegno Armando Petrini, professore dell’Università di Torino, il primo a intervenire è stato Piergiorgio Giacchè, antropologo e autore della monografia Carmelo Bene: antropologia di una macchina attoriale. Innanzitutto Giacchè ha spiegato che lo scandalo provocato da Bene è dovuto principalmente a una sorta di “permalosità” del pubblico, che veniva direttamente provocato e soprattutto abbandonato, poiché assisteva a degli spettacoli creati appositamente per non essere compresi: siamo quindi di fronte a un uomo scandaloso sia dal punto di vista politico sociale che da quello dell’abbandono del teatro ufficiale, dove l’arte rompeva il senso comune e il rapporto con il pubblico. Giacché individua nella carriera di Carmelo Bene tre atti unici, tali per originalità e irripetibilità:

  • Separazione dal pubblico: si tratta di una scelta di solitudine, Bene si isolava usando soprattutto monologhi, distruggeva il tessuto drammatico evitando la prosa e usando il ritmo musicale, trasmettendo così l’impossibilità dell’azione teatrale. L’ironia era la chiave di questa separazione, che poteva irritare o attrarre il pubblico.
  • Sublimazione della voce: l’ironia si realizza separando il segno dal senso delle parole: in questo la voce è sublime. Tramite i risuonatori, che attraversano il corpo, sembra di stare in ascolto di se stessi e non della voce dell’attore; ogni frase detta sembra essere una domanda che diventa teatralmente reale. La sublimazione della voce fa sparire la conversazione, e questo eco ha sempre l’accento finale, come una musica in levare.
  • Sparizione della macchina attoriale: Come può l’attore sparire? Negandosi deve sparire l’identità, che non è altro che una imposizione sociale che annulla la vita. L’attore deve diventare inorganico, una macchina che possa innalzarsi sopra di esso.

Il secondo intervento è stato di Emiliano Morreale, docente di Cinema presso l’Università di Roma, che ha analizzato la figura cinematografica di Bene. Quest’ultimo affermava che il cinema non fosse mai esistito e per questo possiamo intuire che per lui la macchina da presa fosse in realtà uno strumento per accentuare ancora di più la separazione dal pubblico. Attraverso questo mezzo egli voleva complicare ancora di più la visione, il film è un dispositivo per l’accecamento attraverso l’eccesso di colori, oggetti e immagini. La negazione del cinema di Bene è poi un modo per interrogarsi sul cinema stesso, che forse è un’arte con delle potenzialità inespresse, che non ha mai raggiunto i suoi obbiettivi. Anche in questo caso Bene mostra l’impossibilità di fare cinema negandolo, realizzando quindi delle opere totalmente diverse da qualsiasi film lo avesse preceduto e sabotando una dopo l’altra tutte le potenzialità del cinema: distrugge la sceneggiatura, il montaggio diventa un momento di distruzione delle riprese e il doppiaggio la distruzione del montaggio; ogni atto della realizzazione del film è un’opera d’arte di distruzione pura.

Donatella Orecchia, anche lei docente presso l’Università di Roma, ci parla invece del Non – Attore che è stato Bene, riferendosi alla perdita dell’aura dell’attore che si confronta con il suo doppio grottesco che deride la tensione al tragico e ribalta parodicamente il senso di un teatro che non riesce a riconoscere la sua impossibilità. Bene studia le tecniche del Grande Attore per poi citarle ribaltandole completamente, ma studia anche con passione Ettore Petrolini, nel quale possiamo individuare un suo “predecessore” per l’idea della deformazione così esasperata che anela alla sparizione.

Dopo la pausa  ci accoglie Roberto Tessari, a lungo docente dell’Università di Torino, con un intervento dal taglio filosofico che analizza il romanzo e il film Nostra Signora dei Turchi, soprattutto per quanto riguarda l’accostamento della figura del santo e dell’attore. Tessari individua come elemento comune quello di eccedere tutte le norme, infrangere ogni limite per raggiungere uno stato di creatività simile all’estasi del Santo. L’attore è colui che la visione mistica non può o/e non vuole averla, mentre il Santo è chi riesce ad averla e ci crede fermamente. Questo rapporto tra attore e santo si basa sulla negazione dell’Io: oggettivarsi è l’obbiettivo comune, il Santo vive un’illusione di oggettivarsi in sé, di identificarsi in questo modo con Dio, mentre l’attore persegue l’eclissi del proprio Io tramite un’idiozia controllata.

Sergio Ariotti, studioso e critico, direttore del Festival delle Colline Torinesi, ci racconta invece in maniera aneddotica, e per questo affettuosa e divertente, il periodo della registrazione dell’Otello televisivo di Carmelo Bene nel ‘79, alla quale ha potuto assistere personalmente. Anche se questa azione rientrava in una prassi piuttosto consolidata in quegli anni, ovvero di riprendere uno spettacolo teatrale e registrarlo negli studi televisivi, lo scontro di Carmelo con il mezzo televisivo fu molto interessante. Bene non voleva adottare una tecnica di ripresa standard, le sue erano riprese estenuanti quasi come performance teatrali. Bene aveva un approccio innovativo che lo ha portato a diversi scontri con gli operatori e a difficoltà. Va però ricordato che chi ha vissuto queste riprese si trovava di fronte a un Genio che stava sconvolgendo e rivoluzionando questo tipo di lavoro con consapevolezza, poiché Carmelo Bene sapeva tutto anche degli aspetti più tecnici, faceva delle richieste chiare e specifiche e la sua fu quindi anche una grandissima lezione di tecnica televisiva su come superare ad esempio il guaio dei contrasti, dato che aspirava a una saturazione dei bianchi che sembrava impossibile ai registi. Purtroppo la messa in onda di questo Otello, nel 2000, non è riuscita a sottolineare lo sperimentalismo dato che il materiale nel frattempo era stato interamente digitalizzato; quella che si può vedere ad oggi non è altro che una rielaborazione dell’opera che ci dà solo il senso delle riprese: Bene non ci mise mai mano direttamente, il montaggio è infatti quello classico televisivo e possiamo dunque concludere che quasi sicuramente lui lo avrebbe fatto in maniera totalmente differente.

A conclusione di questa interessante giornata Franco Prono, docente di Cinema all’Università di Torino, ci parla di che cosa ha significato l’intervento di Carmelo Bene all’interno della televisione italiana, proiettando alcuni spezzoni di trasmissioni alle quali Bene partecipò come ospite. Quello che si può notare è che Bene si presta al gioco della trasmissione in cui si trova, ovviamente esprimendo il suo punto di vista, ma mantenendo nelle diverse occasioni il giusto profilo richiesto dallo spettacolo al quale era stato invitato. Nonostante quindi egli abbia più volte espresso un giudizio negativo sulle trasmissioni televisive e su chi le realizza, Bene secondo Prono si presta ad esse come un vero uomo di spettacolo, camaleontico leone da palcoscenico che sa adattarsi con intelligenza a tutte le situazioni: un’ulteriore contraddizione presente all’interno del grande, e scandaloso, Carmelo Bene.

A cura di Alice Del Mutolo

OMAGGIO A LUCIO RIDENTI

Mercoledì 29 novembre 2017 al teatro Gobetti si è tenuto un incontro del ciclo Retroscena diverso dagli altri: ospite non era una compagnia teatrale, ma l’Università di Torino che in collaborazione con il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino ha presentato il volume Il laboratorio di Lucio Ridenti. Cultura teatrale e mondo dell’arte in Italia attraverso “Il Dramma”  (1925-1973).  Erano presenti i docenti curatori del volume, cioè Federica Mazzocchi, Silvia Mei e Armando Petrini,  accanto al professor Franco Perrelli e a Pietro Crivellaro, quest’ultimo per molti anni direttore del Centro Studi e figura fondamentale per la valorizzazione del patrimonio archivistico legato a Lucio Ridenti. Il volume è il risultato di un convegno promosso dall’Università e dal Centro Studi nella primavera del 2016.

L’incontro è cominciato con un intervento di Pietro Crivellaro, che ha offerto una breve, ma dettagliata analisi della figura di Lucio Ridenti, nato a Taranto e trasferitosi poi nel 1925 a Torino, dove passò  gran parte della sua vita.

Pioniere della radio e della televisione, fotografo, protagonista della vita mondana, attore ma anche scrittore e giornalista. La sua carriera nasce con una serie di libri di successo negli anni venti che analizzano e descrivono il mondo teatrale, ma raggiunge l’apice con la fondazione nel 1925 del periodico “Il Dramma” con Pitigrilli. Scrive anche per la “Gazzetta del Popolo” e poi per il “Radiocoriere”; da ricordare è anche la fondazione negli anni quaranta della rivista di eleganza femminile “Bellezza”.

E’ seguito poi l’intervento di Franco Perrelli che ha cominciato a descrivere, anche attraverso ricordi ed esperienze personali, le forti differenze esistenti fra i due principali punti di vista dell’epoca di cui erano portavoce due importanti riviste “Il Dramma” e “Sipario”.

Vengono citate figure vicine agli ideali di Ridenti come Bragaglia, sostenitore dell’attore italiano che improvvisa e ha un’esperienza che non può essere diretta dalla regia, ma anche più distanti come  D’Amico, che voleva invece un regista che rispettasse i testi e che fosse in grado di tenere a freno l’attore.

Armando Petrini ha analizzato la figura di Ridenti in particolare nel suo ruolo di critico, molto affascinato e interessato all’attore e alla recitazione, per un motivo anche biografico, pur non essendo mai stato un vero teorico. Viene poi sottolineato come nei suoi lavori non sia presente solamente una certa nostalgia e volontà di recuperare qualcosa che sta morendo, ma un’attenzione nei confronti della storia del grande attore e della figura dell’autore-attore e attore-direttore.

Federica Mazzocchi ha proseguito  descrivendo i carteggi con Paolo Grassi, Ivo Chiesa e Vito Pandolfi, sottolineando la ricchezza dei punti di vista e la schiettezza dei rapporti che ha sempre legato questi protagonisti della vita teatrale italiana.  “Il Dramma” emerge quale rivista caratterizzata da una spiccata vivacità e libertà, all’interno della quale erano presenti numerose opinioni anche contrastanti fra loro e non un pensiero unico, soprattutto per quanto riguarda il tema della regia.

L’incontro si è chiuso con l’intervento di Silvia Mei che si è concentrato sul forte legame presente fra la figura di Lucio Ridenti, la moda e le altre arti, soffermandosi sulla raffinatezza con cui Ridenti concepisce “Il Dramma” soprattutto tipograficamente e sull’importanza dell’elemento visivo. Fortemente riconoscibile è l’approccio sintetico e trasversale rispetto a tutte le discipline, ma anche un forte umanesimo, un gusto per le immagini e per la cura nell’impaginazione. Da non dimenticare è la passione di Ridenti per la fotografia, alla quale si avvicinerà ancor prima del teatro e che lo accompagnerà per tutta la vita.

                                                                                           di Daniela Frezzati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervista con l’attrice Beatrice Vecchione :” Il rapporto col corpo nasce dal rapporto con la lingua”

È Spontanea e dolcissima, l’abbiamo incontrata al teatro Gobetti dopo aver finito lo spettacolo Arialda di cui è stata protagonista.

È Beatrice Vecchione, nata il 26 marzo del 1993 in una clinica con vista sul mare a Napoli. Ultima di sette figli è cresciuta in un paesino di tremila abitanti in provincia di Avellino. Diplomata alla scuola del Teatro stabile di Torino diretta da Valter Malosti.

Dopo il diploma ha preso parte a molte produzioni dello Stabile stesso  tra cui La morte di Danton con la regia di Martone e Come vi piace con la regia di Leo Muscato. Nell’estate del 2017 viene selezionata dal Centro teatrale di S. Cristina Fondato da Luca Ronconi e Roberta Carlotto. Attualmente è impegnata con Le baruffe chiozzotte con la regia di Jurij Ferrini.

L’intervista di Abdelmjid El Farji (MAGID)

Lei è una ex allieva di Valter Malosti, direttore della scuola per attori del Teatro Stabile e regista di Arialda, di cui è stata protagonista. Risulta difficile oppure facile lavorare con il proprio maestro? 

È bello perché Valter mi ha visto crescere nei tre anni di scuola. E in questo tempo ho avuto modo di conoscere bene il suo linguaggio e questo è solo un vantaggio per lavorare bene insieme.

La presenza del corpo molto forte nel testo L’Arialda: secondo lei, la sua bellezza l’ha aiutata?

Il rapporto col corpo nasce dal rapporto con la lingua, in questo caso con la lingua di Testori che è pulsante, materica, violenta, popolare e lirica e visionaria al contempo.

Ti ringrazio del complimento, comunque non credo che Valter abbia scelto me per l’aspetto fisico, comunque dovresti chiederlo a lui (Ridendo)

E come ha sviluppato  il suo rapporto con il corpo dell’Arialda, che, come abbiamo visto da spettatori, era fortemente presente (sensuale, maturo)  sul palcoscenico? 

Comunque più concretamente ho cercato di lavorare, aiutata anche da Alessio Maria Romano, in una direzione più controllata mentendo quindi  una certa tensione nella verticalità, nella prima parte dello spettacolo e man mano che l’Arialda sprofondava nel suo delirio ossessivo, ho cercato di rompere il respiro e quindi il corpo… di andare verso una volgarità, uno stato più bestiale che liberasse gli istinti, le parole, le ragioni, i dolori repressi.

Lei rappresenta un personaggio che vive negli anni ’60 con la sua dimensione sociale e psicologica diversa dai personaggi della società attuale.  Qual è  stata la sua modalità di  indagine e ricerca del personaggio di Arialda?

Ho cercato di conoscere Testori prima di tutto, di entrare nel suo immaginario nel suo modo di vedere la vita, di leggere la realtà che viveva.

Era un uomo che si interrogava profondamente  sul mistero della  vita e quindi della morte

Nell’Arialda, che Testori scrive anni prima della  sua conversione, si sente forte la domanda sul perché dell’esistere soprattutto di fronte alla  sofferenza. Eros dopo la morte del Lino, l’unica persona che ama veramente, dice guardando il cielo :” ma se il Padreterno fa così cosa può pretendere che facciamo noi?”

Il rapporto tra alcuni personaggi  si mescola tra il senso della  morte e della vita, come ha affrontato questa complessità ?

L’Arialda stessa non comprende (d’altronde non si può!) e quindi non accetta  la morte tanto che è perseguitata dai fantasmi e dunque non dice il suo sì alla vita, morendo lei stessa ogni giorno  nel passato.

Ma in lei vive comunque, anche se non riesce a vederlo, un gran desiderio d’amore e quindi di salvezza, di riscatto dalla miseria materiale ed esistenziale in cui lei e tutti gli altri personaggi vivono.

Dice infatti alla Gaetana “lei un uomo l’ha pure avuto, uno con cui parlare uno da chi farsi abbracciare, uno con cui fare quelle tre o quattro scemate che mettono a posto tutto”.

L’impossibilità di realizzare tale desiderio e quindi di vivere pienamente la propria condizione umana, la spingerà ad un delirio di distruzione.

Avete lavorato in un spazio quasi vuoto, tranne una tavola e due porte mobili, e si vede un  lavoro figurativo nel Suo personaggio legato a un “Teatro Povero”: quanto è stato utile per lei  il metodo Grotowski in questo?

Non ho usato una tecnica particolare, mi sono lasciata guidare da Malosti ed ho cercato di aderire quanto più potevo a ciò che dicevo.

L’astrazione della regia ha dato al testo uno respiro più ampio mettendo in risalto la sua natura tragica, ed ha anche permesso a gran parte di noi attori, anagraficamente distanti rispetto al età dei personaggi, di risultare comunque credibili. E non ho avuto Grotowski come riferimento.

Eros e Danza- Elisa Vaccarino

Permettetemi di iniziare da un luogo comune: le certezze nella vita sono poche. Tra queste, soprattutto se ci si occupa di danza, c’è Elisa Guzzo Vaccarino, che lunedì scorso, 27 novembre, ha presentato il suo nuovo libro Eros e Danza, in dialogo con il Professor Alessandro Pontremoli, docente di storia della danza presso il DAMS di Torino. Elisa Vaccarino è giornalista, storica della danza, icona della critica e può vantare uno straordinario repertorio di studi e pubblicazioni fondamentali per la danza contemporanea. Continua la lettura di Eros e Danza- Elisa Vaccarino

Sogno Americano – Ex di Shakespeare

Ex di Shakespeare, una compagnia formatasi dal laboratorio condotto da Jurij Ferrini nello scorso anno, 2016/2017, che ha visto attori che avevano voglia di approfondire i loro studi e continuare un lavoro di scoperta, ricerca, sperimentazione, condotti da uno dei registi più importanti sulla piazza torinese e non solo. Ecco chi sono i protagonisti di Sogno Americano per la regia di Jurij Ferrini, andato in scena dal 10 al 13 novembre presso la Cavallerizza reale.
Questo spettacolo arriva a Torino dopo la sua presentazione in giugno al Teatro Civico Garybaldi di Settimo Torinese e sta registrando ottimi risultati facendo sempre il pienone di pubblico.

Sulla scena troviamo 24 attori che si alternano come in una danza, facendo spostare l’orologio del tempo avanti e indietro, per farci vivere le grandi crisi finanziarie dell’America e mondiali: quella del 1929, del 1987 e l’ultima, ancora sotto i nostri occhi, del 2008.
L’opera è il risultato di una drammaturgia collettiva unita a suggestioni di Arthur Miller.

Lo spettatore viene catturato dalla scena completamente vuota, anche se non appena si esce dal campo luminoso, grazie all’assenza di quinte o sipario, possiamo scorgere nella penombra tutte le figure immobili, sedute, che aspettano il destino che hano in serbo per loro una o due crisi nell’arco della loro vita.
Ci accoglie un’anziana signora, Edie, che racconta alla nipote, Hanna di come lei e il marito Lee, hanno superato la crisi, ma viene dopo poco interrotta da un altro personaggio, Arthur Roberson, magnate di Wall Street, che la crisi del ’29, lui se l’aspettava e aveva cercato di mettere in guardia più persone possibili.
Hanna, ci spiega dopo questo antefatto che viaggeremo avanti e indietro nel tempo. Continua la lettura di Sogno Americano – Ex di Shakespeare

Lavanderia a Vapore – Collegno | Piemonte dal Vivo

Il Blog TeatroD@ms Torino, è lieto di invitare tutti i nostri cari lettori all’incontro organizzato presso l’università con la Lavanderia a Vapore, che incontrerà gli studenti e non solo, per presentarsi e raccontare i propri progetti e la sua ricca programmazione di danza e teatro dell’anno 2017/2018.

L’incontro si terrà mercoledì 22 novembre ore 12, aula 25 di Palazzo Nuovo.

Vi aspettiamo Numerosi!!

La Lavanderia è un centro coreografico di notevole importanza nel contesto italiano ed europeo, nonché sede di rassegne, progetti e programmazioni di danza e di teatro di alta qualità.

Team TeatroD@ams

NID Platform 2017 – Le mode e le manie italiane della danza contemporanea

La piattaforma nel gergo del mercato dello spettacolo dal vivo è uno spazio espositivo nel quale gli artisti possono presentare i loro lavori direttamente ad un gran numero di operatori, riuniti a raccolta, che diversamente sarebbe difficile raggiungere. Direttori di teatri, di circuiti e di festival sono chiamati a vedere quella che viene considerata dalla commissione preposta alle scelte la migliore offerta di spettacolo di cui dispone un determinato territorio. Qui si possono incontrare direttamente artisti e compagnie senza mediazioni e (in teoria) senza pregiudizi, per acquistare, promuovere, supportare le produzioni che si reputano più adatte al settore di riferimento. Un “testa a testa” fra domanda e offerta che prende anche il nome, più appropriatamente, di vetrina.

Nel caso della NID Platform, manifestazione giunta quest’anno alla sua quarta edizione e tenutasi a Gorizia, al confine italiano con la Slovenia, il prodotto al centro dell’attenzione del mercato è la nuova danza italiana: New Italian Dance è infatti il significato dell’acronimo che le dà il nome. L’obiettivo della vetrina è quindi, oltre a vendere le produzioni proposte, quello di creare una solida rete attraverso la circuitazione coreografica che arrivi ad attrarre anche operatori stranieri, così da far competere la danza locale sui mercati internazionali.

Diciassette spettacoli, proiezioni cinematografiche, lezioni, convegni e tavole rotonde animano Gorizia nei quattro giorni della vetrina, rilevando e consolidando l’importanza e l’autonomia che l’arte tersicorea è andata rapidamente assumendo negli ultimi anni, attraverso una capillare diffusione del suo linguaggio su più strati sociali. Un processo di crescita che è frutto di precise politiche di multidisciplinarità e di audience development oggi condivise da tutto il sistema dello spettacolo, a loro volta inserite nella più vasta direzione dell’internazionalizzazione dei mercati. Strategia, questa, espressamente finalizzata ad una migliore e più fertile comunicazione tra sistemi, tanto produttivi quanto culturali, di diversi paesi. L’europeismo, o mondialismo che dir si voglia, svolge infatti in epoca contemporanea un ruolo per niente secondario ai fini della nuova definizione storica, estetica e filosofica dell’attività artistico-culturale propria di ogni paese, settore, contesto umano. Per quel che riguarda la produzione coreutica basti sottolineare che quest’anno si è scelta come regione ospitante la vetrina di danza il Friuli-Venezia-Giulia, al confine strategico fra Italia e Slovenia. Ma se un confronto con l’Europa si è effettivamente ed inevitabilmente aperto sotto ogni aspetto, la coreografia italiana sarà in grado di far valere un suo linguaggio definito e condiviso, all’altezza di quelli rivali ed altrettanto capace di veicolare lo spirito nazionale (se di uno spirito nazionale ancora si può parlare)? La domanda è viva e necessaria. Le mode che l’appuntamento NID ha presentato al pubblico di operatori riguardano tendenze già più o meno sviluppatesi e consolidatesi all’interno del contesto della produzione della danza contemporanea. Ma quanto di italiano c’era in quello che abbiamo visto? Per farci un’idea proviamo a delineare una panoramica delle principali mode (e manie) ivi emerse ed i relativi nomi di punta che le han generate, soffermandoci sui soli spettacoli cui abbiamo assistito.

La più “classica” ed intramontabile tendenza riguarda una certa inclinazione esistenzialista, proveniente direttamente dalla tradizione drammaturgica novecentesca. Questa è sicuramente il motore di In girum imus nocte et consumimur igni, lungo e travagliato spettacolo di Roberto Castello, celebre coreografo torinese proveniente dalla storica esperienza dei Sosta Palmizi, che riflette sulla condizione umana appoggiandosi alle riflessioni ideologiche di Guy Debord, tra la denuncia e la commiserazione. Alla stessa linea guida appartiene Everything is ok, un solo del giovane autore Marco D’Agostin che porta in scena il tacito disagio dello sguardo contemporaneo, costantemente sovraccaricato di immagini fino alla soglia della volgarità.

Una seconda attitudine sembra essere quella che interessa la riflessione digitale e la condizione umana nell’epoca del web, spesso condotta con tanto di software e computer direttamente utilizzati sul palco in tempo reale. A cimentarsi in questa sperimentazione è lo spettacolo Home alone, di Alessandro Sciarroni. Il coreografo marchigiano tenta però di strutturare il lavoro sposando anche i dettami di quella che si presenta come una terza tendenza della danza contemporanea: la produzione di spettacoli coreutici pensati appositamente per un pubblico giovane. Il risultato, un collage di più stilemi, confusi e non adeguatamente portati a compimento, sembra mancare di entusiasmo creativo. Anche Il gatto con gli stivali, realizzato appositamente per i più piccini da Roberto Lori, con la direzione artistica di Simona Bucci, adotta una drammaturgia ed una coreografia ancora troppo povere per convincere tanto gli adulti quanto i bambini.

Altra moda tutta contemporanea è quella di un’estetica del gesto tanto accurata da motivare da sola l’intero spettacolo di danza. È il caso di We_pop, breve pezzo di Davide Valrosso, fra i più giovani autori della vetrina, il quale, in scena con Maurizio Giunti (entrambi danzano nella Compagnia Virgilio Sieni), costruisce e decostruisce delicate linee plastiche e precisissime trame coreografiche che nel loro costante mutamento definiscono una sintesi tra universo concettuale e universo pop. Tendenza questa ampiamente condivisa da Trigger, attraente assolo di Annamaria Ajmone, coreografa e danzatrice altrettanto giovane, che abita spazi non teatrali costruendovi plastiche coreografie site-specific, scritte nel rispetto e nel dialogo con l’architettura degli ambienti in cui si inserisce e dei corpi del pubblico seduto intorno a lei. La danzatrice risponde alla condivisa necessità di abitare luoghi storici e/o inconsueti secondo modalità nuove e inattese, percorrendo quella che è sicuramente una diretta linea ideologica già propria di Virgilio Sieni, e che va oggi ampiamente diffondendosi tra i nuovi coreografi italiani.

Una danza meta-coreografica è poi quella di Silvia Gribaudi, autrice di R.OSA_ 10 esercizi per nuovi virtuosismi, che, attraverso il corpo atipico, per misure e capacità tecniche, di Claudia Marsicano, riflette con acume ed ironia sullo stesso mondo della danza, dello spettacolo e dell’apparire.

Infine citiamo ancora il doppio spettacolo della compagnia Aterballetto di Reggio Emilia, punto di riferimento per l’intera produzione coreica italiana, che già pochi giorni prima aveva registrato il sold out alla sua prima assoluta per Torino Danza. Cristiana Morganti è la coreografa del primo pezzo, Non sapevano dove lasciarmi…, al quale restituisce l’influenza della sua lunga collaborazione con Pina Bausch, attraverso citazioni, commistione di stili teatrali e coreici, attenzione nei confronti delle singole personalità degli interpreti. Il secondo pezzo è Wolf, dell’autore israeliano Hofesh Shechter, proveniente dalla Batsheva Dance Company di Ohad Naharin, e che della celebre compagnia ha conservato, esportandoli, i caratteri di potenza e di aggressività corale perfettamente inscritti in coreografie impeccabili, debitrci di quel “metodo Gaga” che ha reso famoso Naharin in tutto il mondo.

A questo punto vien da chiedersi quale sia, o quali siano, se ve ne sono, fra tutti gli stilemi qui sintetizzati (in modo assolutamente non esaustivo) quelli più specificatamente italiani? La domanda è aperta a tutti e da tutti la nostra danza necessita di una risposta. Ne va di una sana intesa critica, fondamentale al ristabilirsi di un rapporto di fiducia tra spettatore e mondo dello spettacolo. Nonché della possibilità di orientarsi nel complesso orizzonte contemporaneo in cui opera la danza stessa, nel quale non esistono più generi specifici e dove l’offerta sembra diventare pressoché illimitata. A sostegno di una rifondazione della fiducia dello spettatore ricordiamo che lavorare per incrementare il pubblico dello spettacolo dal vivo non significa né andare acriticamente incontro alle sue passioni, né convincerlo ad amare le novità: in entrambi i casi il rischio è di preservare la distanza fra spettatore e mondo dello spettacolo. Sul piano di un’etica della cultura, dove ancora se ne possa delineare una, creare un bisogno che non esiste è quanto di più anticulturale l’industria della cultura possa fare. In un indesiderabile contesto del genere si rischierebbe infatti l’affermazione incontrollata di una grossa quantità di produzione artistica che, non facendo più riferimento a nessun orizzonte di senso condiviso, verrebbe promulgata con volgarità nei confronti di un pubblico il quale, pur non avvertendone il bisogno, non saprebbe più far altro che subirla. La questione è molto complessa è non è permesso sottovalutarla.

Quello della NID Platform si è dimostrato tuttavia, al di là delle possibili problematiche di sostanza etica e di confronto internazionalista, un resoconto molto positivo. La danza contemporanea cresce e si vede, si ampliano il mercato ed il relativo pubblico interessato, gli spazi dedicati (festival, centri di produzione, programmazione all’interno dei teatri) aumentano di giorno in giorno. Ma soprattutto si sviluppa il rispetto nei confronti di una materia che aggrega e produce cultura ormai ben al di là della ristretta “comunità della danza”. La qualità coreografica è un prodotto gradualmente più riconoscibile e riconosciuto dal pubblico.

Se come emerso da dibattiti e conferenze tenutesi nel periodo della vetrina, la danza contemporanea si dimostra oggi il linguaggio che meglio veicola le più complesse tematiche sociali e i cruciali quesiti umani del nuovo millennio, e lo fa tra l’altro proponendo la ricerca più avanguardistica, quanto essa ha ancora da invidiare ad altre meno incisive forme d’intrattenimento? La specificità dell’espressione coreutica avverte davvero la necessità di essere “appoggiata” da quella teatrale? Tale prospettiva, che ha sicuramente motivo di esistere sul piano produttivo-economico, richiede una particolare accortezza nei confronti delle nuove estetiche coreiche affinché queste si conservino autonome e ne venga rispettato il naturale sviluppo.

 

Tobia Rossetti