Tante sedioline, una accanto all’altra, delimitano uno spazio nel quale il pubblico viene subito inghiottito. Prendiamo posto. A disegnare l’ultimo segmento di questo cerchio sono Virgilio Sieni e il danzatore non vedente Giuseppe Comuniello: seduti con la schiena appoggiata al muro, ci osservano. Al centro scorgiamo un tappeto bianco fatto di cartone e, su di esso, due blocchi di argilla. I due danzatori si avvicinano e iniziano ad occupare lo spazio: attraverso i loro corpi modellano l’area circostante disegnando linee curve, segmenti spezzati e forme circolari. Si sfiorano, si sostengono, si guidano, si completano, insieme danzano.
Funerale all’italiana mette in scena il rituale per eccellenza, uno dei pochi ad essere sopravvissuto e poi tramandato nei millenni: la cerimonia funebre. Da pagano, diviene nel corso dei secoli un rito il più delle volte religioso, assumendo differenti connotazioni culturali e territoriali.
Lo spettacolo nasce da un’idea autobiografica dell’attrice protagonista, Benedetta Parisi, che cura la drammaturgia con l’aiuto di Alice Senigallia: il lavoro prende vita nell’arco di quasi tre anni, evolvendosi a partire dagli appunti sul funerale della nonna dell’attrice. La Parisi racconta quanto sia stato fondamentale anche il lavoro svolto sull’ improvvisazione a partire dal testo, che porta ad un inevitabile suo ampliamento.
La sinergia “Teatro & Arte” apre la 27° edizione del Festival delle Colline Torinesi l’11 ottobre al Teatro Astra di Torino. L’immensa tela che appare distesa sul palcoscenico, a un primo sguardo di carattere avanguardistico, sarà infatti la vera protagonista dello spettacolo spagnolo, insieme all’azione ipnotica e dominante dello schermo dei sottotitoli. È grazie a quest’ultimo elemento in particolare che lo spettatore rifletterà su una quantità smisurata di temi, tra cui i binomi sogno/realtà, finto/autentico, artificio/natura, presente/passato, vita/morte.
sḁudħàdħë s. f., port. [lat. solĭtas -atis «solitudine»]. Sentimento di nostalgico rimpianto, di malinconia, di gusto romantico della solitudine, accompagnato da un intenso desiderio di qualcosa di assente in quanto perduto o non ancora raggiunto.
La “Saudade” di Bolognino è una capsula trasparente che sigilla ma offre visione di ciò che non si può vedere e che si è lasciato dietro di sé ma che si conserva nel proprio cuore.
“Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”
(da Anna Karenina di Lev Tolstoj)
Nella scorsa stagione del Teatro Stabile di Torino abbiamo assistito a diversi spettacoli che hanno avuto al centro rapporti familiari, ovviamente quasi sempre conflittuali. Del resto si dice che non sia possibile raccontare una buona storia senza un buon “conflitto” e quale contenitore migliore se non quello della famiglia, per generarne di enormi e sorprendenti. Lo avevano capito molto bene i greci che da “divini” conflitti familiari hanno fatto scaturire l’intera esegesi dell’umanità.
Tra i rapporti familiari più complicati, e probabilmente per questo di maggiore interesse, rimane il più ancestrale tra tutti, quello tra genitori e figli. Ed è proprio questa la relazione al centro dei due spettacoli che vorrei provare a mettere a confronto: Da lontano – chiusa sul ripianto monologo/dialogo scritto e diretto da Lucia Calamaro e interpretato dalla brava Isabella Ragonese; e il ben noto testo di Euripide Ifigenia, uno spettacolo corale diretto e interpretato, tra gli altri, da Valerio Binasco nel ruolo di Agamennone.
Partiamo subito dal riconoscere che entrambi questi spettacoli sono animati da rapporti familiari conflittuali, che sono in realtà il pretesto attraverso il quale si svela una tematica più profonda che è il vero minimo comun denominatore delle due pièce: “la condizione femminile devastata da una società oppressiva e giudicante”, come si legge nella stessa nota dello spettacolo Da lontano. Di particolare interessante è il modo che hanno trovato i due registi di mettere in scena questo tema perché risulta perfettamente identico nella sua specularità. Del resto stiamo parlando di due punti di vista completamente e inevitabilmente diversi, quello maschile di Binasco e quello femminile di Calamaro. In un viaggio che procede dall’interno all’esterno, dal privato al pubblico per quel che riguarda il punto di vista maschile; dall’esterno all’interno, dal pubblico al privato, per quel che riguarda il punto di vista femminile. Dove ragioni pubbliche hanno la meglio sull’animo maschile e ragioni private su quello femminile.
Da lontano – chiusa sul ripianto, nonostante racconti una storia contemporanea, un dramma intimo che riguarda la relazione tra una madre e una figlia, in realtà come abbiamo detto, pone l’accento sulla condizione femminile come qualcosa, come dice lo stesso titolo, che arriva “da lontano”. Un retaggio che troviamo già nei miti greci, in pensatori come Aristotele o in drammaturghi come lo stesso Euripide, ed è proprio in questo che i due spettacoli rivelano un’identica sostanza. Ma Calamaro parte da un “oggi”, che è ben rappresentato da quel male simbolo della società contemporanea: la depressione, per arrivare a un passato atavico, quel “lontano”, padre di un condizionamento sociale, culturale che è arrivato immutato fino a noi. Un passato che ha avuto come conseguenza estrema l’accettazione, per non dire la pretesa, della sempre totale disponibilità del sacrificio della donna per gli uomini. Nella stessa nota già citata si legge di un “monologo […] sul mondo femminile devastato da una società […] che impone alla donna ruoli limitanti, nei quali ci si sente in trappola fino a non riconoscersi più…”, sottintendendo un andare in pezzi, uno “smembrarsi” o un essere smembrati come atto dovuto (inevitabile non pensare a Ifigenia).
Dal canto suo Binasco proprio nell’Ifigenia procede in maniera inversa, ovvero parte da una storia “lontana”, con il fardello di aspettative formali che una scelta del genere comporta, come scrive lui stesso nella nota di regia, ma “prendendosi la responsabilità” di raccontare, da uomo contemporaneo, con una sensibilità contemporanea, una storia che vuole essere contemporanea. Sempre nella nota di regia si legge infatti:
“Grazie al fatto che sono un uomo del mio tempo che del suo tempo vuole parlare, ho invece ben presente soprattutto la concretezza psicologica contenuta in questa antica favola tragica, e voglio assumermi tutte le responsabilità nel tutelare questa sensibilità contemporanea, essendo in qualche modo certo che la nostra condizione umana è sempre e comunque illuminata dalla rappresentazione mitica…”
Quindi da un lato abbiamo Binasco che mette in atto un processo attraverso il quale tende a smitizzare la “favola tragica”, proponendo, attraverso quella “concretezza psicologica”, non archetipi, modelli, con cui siamo abituati a confrontarci quando ci accostiamo al mito ma complessi esseri umani con tutte e in tutte le loro sfaccettature. Dall’altro in Da lontano avviene il processo inverso grazie al quale, più che ricorrere a una “concretezza psicologica” si ricorre a una “concreta analisi psicologica” che tenta di sciogliere quella complessità dell’essere umano per trarne modelli, archetipi, più facilmente riconoscibili, che possono essere più facilmente compresi, ascoltati e per questo perdonati. Viaggi diametralmente opposti che da un lato portano verso la malattia, la schiavitù, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie uniche e specifiche passioni, senza la pretesa di essere un modello, un viaggio anti-catartico da un lato (in questo consiste la demistificazione di Binasco) e dall’altro un viaggio che porta, all’opposto, ad una salvezza, una guarigione che scaturisce proprio dall’analisi di una mente lucida e razionale che guarisce nel momento in cui riesce a liberarsi da quel groviglio di passioni che gravano come ipoteca del passato sul cuore di una donna (intesa come archetipo).
Dal punto di vista della messa in scena anche qui scelte simili, all’insegna della semplicità e del togliere. In entrambi i casi, scene e costumi dalle linee pulite, pochi gli oggetti di scena, pochi i colori e tutti molto tenui e neutri con alcune eccezioni studiate ad hoc, anche se in Binasco assistiamo a un rigore maggiore nella scelta di far persino a meno del palco che se da un lato risulta coerente con quest’ottica della sottrazione, dall’altro è decisamente in linea con secoli di tradizione tragica. L’azione infatti è collocata al centro di un grande spazio rettangolare, il pubblico è distribuito su spalti laterali che costeggiano i lati più lunghi di quello che è a tutti gli effetti un teatro di posa ridotto all’essenza, “spoglio di richiami visivi fini a sé stessi” come dichiarato nella stessa nota di regia. Questo spazio vuoto viene attraversato dai molti personaggi che lo riempiono con i loro stati d’animo che contengono già dall’inizio quel pathos, quel “dolore estremo” in un viaggio che come abbiamo visto procede da uno spazio interno-privato, l’intimo dell’animo di Agamennone, a uno spazio esterno-pubblico che trova la sua massima platealità in quell’urlo silente di madre.
Anche in Da lontano abbiamo la voce silente di una madre, una madre che non vediamo mai ma che incombe più di un personaggio in carne e ossa e che vive in quell’unica figura presente in scena, quella della figlia, che sembra in grado, proprio perché modello/archetipo, di riflettersi e moltiplicarsi. Perché in questo processo di analisi, quell’unico personaggio in scena, per potere essere compreso, e nello stesso tempo per comprendersi, deve essere scomposto. Su questa figlia grava una sorte analoga a quella di Agamennone: vivere “quel dolore estremo” all’infinito, perpetuato dal senso di colpa di non essere riuscita, per motivi del tutto diversi da quelli di Agamennone, a salvare la persona amata. Ma mentre la figlia di Da lontano, in quanto bambina, non aveva né il potere né i mezzi per salvare la madre e una volta che comprende questo si perdona e guarisce, Agamennone al contrario ha sia il potere che i mezzi per salvare Ifigenia ma sceglie di non farlo condannando sé e la sua famiglia alla dannazione eterna.
In entrambe le storie viene sovvertito l’ordine naturale delle cose in cui, almeno fino a un certo punto della vita, dovrebbero essere i genitori ad aiutare e a prendersi cura dei figli fino a che non si arriva ad un momento in cui questi ruoli tendono ad invertirsi.
Inoltre, per tonare al tema più profondo, se è vero che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo è altrettanto vero che nonostante il passare dei secoli e i molti diritti conquistati, la donna, ancora oggi, rimane pesantemente e inesorabilmente sacrificabile.
“L'occhio aperto e l'orecchio vigile trasformano le più piccole scosse in grandi esperienze. Da tutte le parti affluiscono voci e il mondo risuona.”
V. Kandiskij
Il Collettivo MINE viene ospitato al Festival Interplay ’22con lo spettacolo che segna la nascita del gruppo, nato dall’incontro artistico tra cinque coreografə il cui intento è quello di sperimentare un lavoro di creazione orizzontale e una scrittura a dieci mani, attraverso un percorso di ricerca nutrito da costante condivisione e contaminazione di pratiche e linguaggi. Ed è il palco della Lavanderia a Vapore di Collegno, che ricordiamo essere l’unico centro di residenza per la danza in Piemonte, nella cornice, appunto, del festival di danza contemporanea e performing arts Interplay/22, ad accogliere nella serata di mercoledì 8 giugno MINE con Esercizi per un manifesto poetico, in prima regionale.
Nella serata di sabato 28 maggio, una settimana dopo l’opening dell’ultima edizione di Interplay 22 – Festival internazionale di danza contemporanea e performing art – sono andati in scena al Teatro Astra di Torino i lavori di Giselda Ranieri, Roberto Tedesco e Thomas Noone. Gli ultimi due firmano le coreografie per la MM Contemporary Dance Company di Michele Merola. Il Festival, che, come nelle precedenti edizioni, vuole essere un luogo di incontro tra giovani artisti nazionali e internazionali, pubblico e operatori, quest’anno tocca tematiche che vanno dalle diseguaglianze sociali alle discriminazioni di genere, senza spostare troppo lo sguardo, in ogni caso, dal tema di fondo, ovvero la bellezza che, mediante l’arte, può anche divenire importante strumento di lotta alla violenza. In questa edizione di Interplay/22, inoltre, anche lo spazio performativo acquista particolare importanza e, attraverso una programmazione che esplora luoghi periferici, o inconsueti, della città per performance outdoor, tenta di smarcarsi dagli spazi generalmente adibiti all’intrattenimento e allo spettacolo dal vivo. Desiderio che si è senz’altro intensificato nel ritorno del festival in presenza, dopo i due scorsi anni, colorandosi di un entusiasmo che sembra voler rilanciare una tematica molto citata già da fine anni Sessanta, quella del “decentramento”, ma che di fatto, il più delle volte e negli anni a venire, si è risolta in progetti astratti o estemporanei. Per quanto riguarda, invece, il panorama internazionale, per quest’edizione il focus è sulla Spagna, con cinque compagnie selezionate all’interno della rete spagnola A Cielo Abierto, sempre nell’ottica di portare in scena il più possibile artistə fuori dai circuiti mainstream, e mostrare i percorsi più inediti e più interessanti della scena extra-nazionale.
Non si può dire che i due personaggi fossero amanti. Ma considerata la loro posizione, si può ipotizzare. (Massimo Osanna, archeologo)
Per anni un calco pompeiano è rimasto nascosto ai visitatori. Si tratta di due figure distese per terra intrecciate in un tenero abbraccio, rinvenute nel 1922 a Pompei. Anche questi corpi sono stati sorpresi dall’eruzione del Vesuvio che ha, per sempre, immobilizzato il loro legame di cui rimane una sola immagine dopo oltre 2000 anni.
È stato il giovane coreografo Adriano Bolognino a dare possibilità di movimento a queste due figure intrecciate, con la coreografia Gli Amanti, lo stesso nome con cui è conosciuto il calco. La performance è stata presentata, con la prima regionale, nella serata di Interplay Festival ’22 il 25 maggio 2022 presso la Casa della Danza in Piemonte, La Lavanderia a Vapore.
Da venerdì 20 a domenica 22 maggio ha avuto luogo presso il Teatro Salomone di Cherasco (CN) la prima edizione del festival Lumaca 3.0, tre giorni di spettacolo e dibattito dedicati alla drammaturgia giovanile contemporanea, organizzato dal collettivo teatrale ControRealtà in collaborazione con la compagnia Il Teatro Delle Dieci.
“Fondamentalmente io sono un pezzo di ghiaccio”, apre così lo spettacolo il personaggio di Ralph, interpretato da Filippo Dini. Il ghiaccio in questa pièce è ovunque: si viene avvolti da un’atmosfera gelida, immobile, già dall’ingresso in platea del pubblico, quando le luci di sala sono spente e si vede solo grazie a un’illuminazione di ghiaccio che arriva dalle luci di scena.