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SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE – VALERIO BINASCO
Con un grande rito preparato con dedizione, all’insegna dell’imponenza del teatro, Valerio Binasco torna a bussare, dopo due anni, quasi inevitabilmente, alla porta di Shakespeare. Come sempre, le produzioni di Binasco si presentano al pubblico con grande maestosità, come una gigantesca macchina che gira da sola, spinta da un demone che si diverte a giocare con attori e storie.
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Torna in scena al teatro Gobetti di Torino, dal 21 dicembre 2021 al 9 gennaio 2022, Paolo Nani. Quest’anno con il suo spettacolo storico La Lettera, divenuto ormai un vero e proprio classico della risata.
La trama è semplice: un uomo si siede a un tavolo, beve un sorso di vino e scrive una lettera. Dopodiché la scena si ripete, ma in mille modi diversi. L’opera è ispirata al noto libro Esercizi di stile di Raymond Queneau, uscito nel 1947.
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Da martedì 21 a venerdì 31 dicembre va in scena al Teatro Astra I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni per la regia di Valter Malosti, con Marco Foschi.
Il sipario si apre su un tavolo in legno, vi giace disteso un corpo umano ben vestito; dietro sta Pulcinella, che in un vorticare di gesti sapienziali ci dice è muort, Zanetto è mourt! Pulcinella si divincola, serpentina qua e là sopra il corpo del protagonista, ma i due paiono scultorei, un monumento funebre rimediato nel salotto di un dottore. La commedia si articola sulla soglia di casa – in quella zona liminale che Giorgio Agamben in Stasis problematizza in quanto frontiera politica –, e lungo le strade di Verona. Convenzionalmente, gli individui, dentro il perimetro della propria casa, vivono rapporti di sangue e, per così dire, privati; oltre la soglia di casa e per le strade, nella polis, dovrebbero accedere a una dimensione più propriamente pubblica. Queste due realtà, che se ben distinte garantiscono il nostro orientamento nella comunità, possono confondersi, e trascinare il corpo sociale nella cosiddetta guerra civile – quel momento critico in cui il conflitto politico divide e oppone fratello a fratello, padre e figlio.
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Natalino Balasso, in questo adattamento di Goldoni, si serve degli stessi
meccanismi comici della commedia del 1747, per rileggerla in chiave
contemporanea. La nuova avventura dei gemelli veneziani è ambientata
negli anni Settanta del Novecento.
C’era una curiosa gemellarità nei giovani di quegli anni, i movimenti di protesta, gli studenti, i giovani operai si erano polarizzati su due fronti opposti: comunisti e fascisti, rossi e neri.
Tale operazione ha come scopo quello di rivolgersi alla nostra epoca,
riavvicinando il pubblico alle vicende e alle tematiche goldoniane, non
limitandosi a una semplice spolverata linguistica, ma a un vero e proprio
spostamento dei personaggi e dell’ ambientazione storica. Quella offerta
da Balasso pertanto non è una mera attualizzazione di un testo del passato ma una riflessione critica sulla nostra storia recente.
I 7 attori in scena sono impegnati in più ruoli, come nel caso di Ferrini che interpreta i due gemelli, rendendo molto bene i 16 personaggi del testo di Goldoni. Ciononostante è evidente fin da subito che i personaggi sono lontani anni luce dalla concezione delle maschere tipiche della commedia dell’arte, stereotipate e stilizzate. In questo caso, rispetto all’opera di Goldoni, siamo di fronte a personalità complesse, umane e fragili che mutano nel corso della vicenda. Caratteristica che si riflette anche nei costumi, non più quelli tipici appunto delle maschere ma un abbigliamento casual e moderno perfettamente adatto a queste nuove personalità.
Non è la prima volta che Ferrini si confronta con un testo di Goldoni, già nel 2012 aveva interpretato Siora Felice ne I Rusteghi prodotto dallo Stabile di Torino, che aveva visto anche lo stesso Natalino Balasso tra gli interpreti. Sicuramente la qualità recitativa di Ferrini spicca fra quella degli altri attori sulla scena, soprattutto per il modo disinvolto e naturale con cui spesso rompe la quarta parete per rivolgersi direttamente al pubblico.
Nonostante la scenografia sia piuttosto scarna e in generale poco illuminata, la frenesia e la recitazione piuttosto movimentata degli
attori riempiono lo spazio della scena senza creare o lasciare vuoti, sia fisici che narrativi.
Nel complesso il risultato finale è quello di uno spettacolo comico,
divertente e di piacevole ascolto. Impossibile uscire dalla sala senza aver
riso almeno una volta!
Irene Merendelli
Da I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni
con Jurij Ferrini, Francesco Gargiulo, Maria Rita Lo Destro, Federico Palumeri, Andrea Peron, Marta Zito, Stefano Paradisi
regia Jurij Ferrini
costumi Paola Caterina D’Arienzo
scenografia Eleonora Diana
luci e suono Gian Andrea Francescutti
assistente alla regia Elisa Mina
promozione e distribuzione Chiara Attorre
produzione esecutiva Wilma Sciutto
Progetto U.R.T. in collaborazione con 53 festival Teatrale di Borgio Verezzi
Lo spettacolo è realizzato in collaborazione con Servizi Teatrali srl di Casarsa della Delizia (PN)
e con la fondazione Dravelli di Moncalieri (TO)
CELESTE | APPUNTI PER NATURA – RAFFAELLA GIORDANO
“La natura è spesso nascosta, qualche volta sopraffatta,
molto raramente estinta”.
Francis Bacon
Le luci si accendono lentamente, dalla quiete una persona appare e si insinua delicatamente nello spazio dominato ancora dall’oscurità. Con estrema cura prepara il campo di quel luogo denso che abiterà insieme al pubblico nel tempo concesso, sulle note leggere di un pianoforte e qualche suono della natura. Un tempo che pare essere lontano, sbiadito eppure vivido, intrecciato in qualche modo ai ricordi e a una nostalgia di bambina, che contemporaneamente si specchia e si ritrova al presente, dove vengono tracciati i segni e le forme mutate di ciò che è appena germogliato. Con questo solo Raffaella Giordano dona – a chi è disposto ad accoglierlo – un frammento di un viaggio che è la vita stessa, attraverso il linguaggio del corpo che semplicemente si lascia essere. Creatura senza età che crea forme e fluisce, con leggerezza e rigorosità.
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Attore formidabile e regista scrupoloso, Carlo Cecchi porta a Torino Dolore sotto chiave e Sik Sik, l’artefice magico, due testi di Eduardo De Filippo, riuniti da lui in un unico spettacolo.
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Prosegue la tournée di Peachum. Un’opera da tre soldi, andato in scena dal 23 novembre al 5 dicembre 2021 presso il teatro Carignano di Torino. L’ultimo degli spettacoli scritti e diretti da Fausto Paravidino, in collaborazione con il Teatro stabile di Bolzano, che vede in scena Rocco Papaleo insieme ad attori provenienti da diverse scuole di recitazione d’Italia. L’obiettivo è rileggere in chiave moderna uno dei capolavori del secolo passato: L’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, con musiche di Kurt Weill.
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“Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione”(Cantico dei Cantici 8, 6)
Le Pulsioni, secondo Freud, hanno come fine ultimo l’appagamento che porta allo sviluppo e alla crescita delle potenzialità adattive di quella parte dell’ego deputata al riconoscimento e all’attuazione del Principio di Realtà (L’IO).
In altre parole l’“Eros”, in quanto pulsione, per Freud indica una tendenza all’aggregazione una potenza creatrice strettamente legata alla libido che non solo diventa la forza creativa generatrice di vita ma che spinge l’essere umano verso un’integrità che in qualche modo lo definisce.
“Chi sono io?” questo chiede Edipo alla Sfinge.
Nello spettacolo Edipo. Una fiaba di magia vediamo un giovane soldato zoppicante che arriva dinanzi al velo della verità oltre il quale egli spera di trovare la risposta alla sua domanda esistenziale. Una volta risposto correttamente alla domanda della Sfinge egli strappa via il velo, bramoso di poter finalmente “possedere” la verità ma, trovando il Nulla, sconfortato e avvilito si accascia a terra, in un angolo, inerte come morto.
Sempre secondo Freud ciò che muove l’uomo non è e non può essere solo una pulsione libidica; dopo un’attenta osservazione Freud arrivò alla conclusione che, per esempio, nei comportamenti dei sadici e dei masochisti non c’è solo il piacere, ma anche una spinta alla distruzione, alla disgregazione. Freud approda così a una spiegazione della dinamica della società, basata sul contrasto tra i due principi della psiche umana, Eros e Thanatos.
Anche in Tutto Brucia c’è un velo sullo sfondo di un paesaggio devastato. Un velo pesante, denso, che rimanda alla consistenza di acque ataviche, amniotiche, dalle quali però vengono vomitati aborti, feti non compiutamente definiti, relitti di una società alla deriva, di maternità negate, di uomini bestia, di cadaveri bruciati che possono essere celebrati solo attraverso arcaici riti funebri di fagocitazione, fatti a pezzi e divorati per tornare a essere contenuti per sempre entro uteri sterili, profanati dalla violenza. Ancora una volta vita e morte, Eros e Thanatos.
Entrambi i lavori affondano le loro radici nel mito classico per raccontare la contemporaneità. L’uno -Edipo, per narrare l’aggregazione e la disgregazione di un’individualità; l’altra -Tutto Brucia, ispirato al mito delle Troiane, per narrare l’aggregazione e la disgregazione di una collettività.
Per capire “perché il mito?” dovremmo probabilmente prima provare a rispondere ad altri quesiti: cos’è un mito? Da dove viene? Come nasce? Cosa lo mantiene in vita nel tempo? In che direzione si muove? Fino a che punto lascia in noi un segno e fino a che punto siamo noi a lasciare un segno nel mito stesso? Una sintesi che può risultare efficace ai fini del nostro ragionamento la troviamo nelle TecheRai proprio nella sezione dedicata al mito:
“Il mito classico, in ogni epoca, ha costantemente esercitato la funzione di fissare archetipi di tutti i comportamenti umani e, proprio per questo, ha da sempre rappresentato uno degli elementi fondamentali per fornire una connotazione socioculturale ai vari periodi storici. I miti, infatti, pur basandosi su qualcosa di interamente rivelato, tendono a produrre una forza creatrice regolare e incessante sull’azione umana. […] Il mito determina e subisce tante proiezioni e trasformazioni nel tempo quante sono le vite e le menti che influenza. Pertanto, quando si impone nel contesto temporale di un dato periodo, il mito intesse rapporti di interdipendenza con la letteratura, l’arte, il teatro, la psicologia, i rapporti sociali, incarna scopi, tempi, luoghi e circostanze di fruizione, assurge e esegesi di modelli di comportamento quotidiano e dà vita a molteplici interpretazioni di sé stesso. In tal modo i grandi archetipi umani, si chiamino Edipo, Cassandra, Ecuba, (nomi modificati in funzione della trattazione – ndr) pur improntando su di sé i vari periodi storici con interpretazioni contingenti, assumono connotazioni perenni al di là di ogni epoca”.
Il fascino del mito e il ricorrere ai suoi paradigmi risultano perciò sempre attuali nel loro originario tentativo di risolvere il mistero dell’esistenza.
Interessante è inoltre notare come entrambe le pièce si siano affidate a terre desolate, alla polvere di una memoria che si tende a preservare come monito ma che sembra non essere sufficiente a evitare gli errori del passato.
Edipo entrerà nella terra afflitta da erosione e morte dove un tempo c’era “un prato fiorito” e dove la speranza di una rinascita è racchiusa nella promessa di una vendetta.
Anche nella tematica delle Troiane (Tutto Brucia), in quell’inferno statico di morte, dove tutto è già accaduto, la speranza sembra affidata alla sola certezza profetizzata della futura disfatta degli usurpatori.
In questo eterno conflitto tra Eros e Thanatos, in entrambi gli spettacoli, sembra avere la meglio la morte, la forza disgregativa. Dov’è finito Eros? Allora è necessario che Tutto Bruci, per far tornare in quelle fiamme l’ardore della passione, fiduciosi che quelle ceneri, innaffiate dalle lacrime, possano essere il giusto nutrimento per una terra “assopita” che possa ritornare ad essere un prato fiorito, perché il sacrificio non vada sprecato, perché la lezione appresa a caro prezzo non vada perduta.
Eros e Thanatos sono due facce della stessa medaglia e la Vita non può che esistere in questa frattura, su questa fragile e sottilissima linea tra Essere (assoluto ed eterno) e Non-Essere.
Nina Margeri
MEMORIE DEL SOTTOSUOLO – MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA
Da martedì 16 a domenica 21 novembre, al Teatro Gobetti, va in scena Memorie del sottosuolo, adattamento drammaturgico e regia di Marco Isidori, dall’opera omonima di Fëdor Dostoevskij. Il romanzo è passato alla storia come l’ennesima aspra riflessione sulla condizione umana, in particolare nella sua presunta inconciliabilità tra “volontà” e “ragione”, e tutte quelle convenzioni umane che per mezzo di quest’ultima si giustificano: scienza, tecnica, organizzazione sociale. Il positivismo ottocentesco, le speranze nell’edificazione di un mondo più giusto, dunque più prevedibile e quindi più “agibile”, sono contraddette dai sofismi del protagonista – logici quando sufficienti, meramente volontaristici quando necessari: 2×2 può anche fare 5, e non sarebbe poi così male! L’opera prende la forma di un discorso-fiume, un dialogo artificiale che il protagonista intrattiene con dei presunti destinatari di cui lui stesso formula domande e risposte.
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