Archivi categoria: Recensioni

La Fatalità della rima. Giorgio Caproni suona al Teatro Astra dalla voce di Gifuni

Facce attonite, sguardi smarriti quando nel 2013 il nome di Claudio Magris faceva capolino nella prova di maturità. Stesse facce sbigottite, altrettanta meraviglia (nell’accezione greca: quella che terrorizza e ferisce) nel 2017 quando in luogo di Magris è Giorgio Caproni a fare la sua epifania nella tanto temuta prova. Il verdetto è inequivocabile: nella maggioranza dei casi la scuola non riesce a instillare una passione abbastanza intensa da valicare i confini didattici e dar vita a una ricerca letteraria personale che, cucendosi alle biografie personali, regali l’illusione di non essere soli.

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“Flirt” di Silvia Torri: un’indagine sul sesso e sull’amore nel nostro tempo

Lunedì 7 ottobre è salito sul palco della Casa del Teatro di Torino nell’ambito della rassegna Incanti una protagonista inconsueta, per non dire forse totalmente sconosciuta a una gran parte del pubblico: un preservativo femminile. Lo spettacolo d’oggetto “Flirt”, finalista del Progetto Cantiere 2018, è frutto delle abili mani, della voce e soprattutto della testa di Silvia Torri, giovane attrice di Milano, che ha fatto nascere questa esibizione dopo quattro anni di lavoro sull’educazione sessuale, dopo molte testimonianze e interviste. 

Inizialmente pensato come uno spettacolo di 15 minuti sulla prevenzione HIV, ora è diventato lungo 50 minuti e coinvolge una grande varietà di temi tutti legati fra di loro. La storia inizia con la decisione del preservativo femminile di iscriversi su Tinder e racconta varie complicazioni che si possono riscontrare, partendo dalla reazione delle amiche (anche esse contraccettivi) e arrivando ovviamente agli incontri stessi, raccontando l’evoluzione dell’atteggiamento personale della protagonista. Tutto culmina con l’incontro con il guanto, personaggio che si distingue nettamente dagli altri e con cui si pone la finale domanda sulla volontà di rendersi fragili, di accettare di rischiare un vero amore, di “farsi a pezzettini e trovarsi nell’altro il giorno dopo”.

Con grande abilità Silvia Torri mantiene il discorso sempre su un doppio livello che unisce gli oggetti-personaggi all’interno dello spettacolo e gli oggetti nella realtà della vita al di fuori dalla cornice teatrale. Così le amiche, presentate in maniera da spot pubblicitario per la contraccezione, hanno personalità e atteggiamenti diversi a seconda della loro natura da contraccettivo. Ugualmente per le diverse persone-oggetti che il preservativo femminile incontra durante la sua esperienza Tinder – per l’inclusione sociale l’attrice ha pensato bene di mostrare anche un incontro omosessuale. Il gioco del doppio livello si manifesta in maniera più evidente in relazione alla più grande paura della protagonista, quella della morte. Un giorno potrebbe arrivare il momento in cui essa muore rompendosi. Sarebbe la fine – la fine della vita del preservativo e la fine della spensieratezza fra due amanti.

Nonostante la serietà dei temi raccontati che vanno a toccare anche la sfera più intima della vita sessuale ed emotiva, come ad esempio la “colpa” di un rapporto mal riuscito, Silvia Torri arriva ad alleggerire il discorso con un umorismo sano e mai superficiale. Con pochi oggetti su un piccolo tavolo nero ma con tanta energia e dedizione, l’attrice racconta dal profondo cuore del nostro tempo. Sullo sfondo della scena, della plastica da imballaggi, simbolo della produzione in serie ma allo stesso tempo elemento di la protezione dall’esterno, la protezione da un vero contatto con il mondo circostante.

Il pubblico rimane incollato sulle sedie anche dopo la fine dello spettacolo. E’ solo dopo qualche istante che i primi spettatori riescono ad alzarsi, seguiti pian piano dagli altri. Si portano a casa i pensieri sulla propria vita amorosa, pensieri su come il digitale abbia cambiato il nostro modo di relazionarci e su come possiamo riuscire a vedere gli individui dietro le maschere di plastica – per non ritenerci tutti uguali e interscambiabili. 

Labirinto: Controluce teatro d’ombre

Il buio. Da questo siamo accolti noi spettatori entrando in sala. Un buio disarmante, disorientante, che ci coglie all’improvviso. Ci prepariamo ad essere guidati dalle voci, dai colori e dalle ombre di Controluce Teatro d’Ombre, ospiti alla XXVI edizione di Incanti, che ci accompagnerà nell’arduo compito di muoverci all’interno di un vero e proprio labirinto, fatto di teli, colori e luci.

Il mito del Minotauro si snoda attraverso le immagini, create con abilità dagli artisti, e le poche parole che gli attori pronunciano in modo asciutto, chiaro, efficaci per delineare perfettamente la storia che prende sempre più vita davanti agli occhi degli spettatori.

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Tito Rovine d’europa

In occasione della 24a edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena al ‘Teatro Astra’ di Torino, il 16 giugno, Tito Rovine d’Europa, il nuovo spettacolo di Michelangelo Zeno con la regia di Girolamo Lucania (già collaboratori per lo spettacolo Blatte, in cartellone nella stagione 2017/2018 del TST).

Lo spettacolo è ispirato al Tito Andronico di William Shakespeare, considerata la tragedia più brutale dell’autore inglese, e dalla rilettura di Heiner Müller Tito Fall of Rome che chiedeva al lettore di compiere l’operazione: «dismember/remember», cioè distruggere per ricordare, uno dei temi principali di questo dramma; inoltre, parte della troupe, come ha raccontato il regista a Mezz’ora con…, ha intrapreso un viaggio attraverso le ‘rovine’ d’Europa, che ha ispirato i vari componenti e ha fornito materiale utilizzato in seguito per la scenografia (come le fotografie di Vittorio Mortarotti) e per la drammaturgia.

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Something About You – Quel che rimane

In occasione della 24a edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena al ‘Cubo Teatro’ di Torino, l’8 e l’11 di giugno, Something About You – Quel che rimane il nuovo spettacolo di Francesca Garolla con la regia di Alba Maria Porto (già regista di Arte, di Yasmina Reza, in cartellone nella stagione 2017/2018 del TST ).

Ispirato dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (Toscana), archivio dedicato alla memoria delle persone comuni, Something About You racconta la storia di una donna (interpretata da Matilde Vigna), madre di due figli (Roberta Lanave e Mauro Bernardi), che soffre di depressione da 17 anni ed è ricoverata in un istituto all’interno del quale ha un’amica, affetta anche lei dalla stessa malattia, con cui riesce a parlare e a condividere i propri pensieri.

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Trilogia del tavolino

Una comica e amara bellezza

Il teatro comincia quando si esce dalla sala.
Emblema della loro poetica e del tipo di teatro che da molti anni propongono, Claudio Morganti e Rita Frongia lo scrivono arrivando dritti al punto, in uno dei loro manifesti provocatori. Trasformare delle semplici parole in fatti è un’impresa ardua, che quasi mai ha riscontri. Eppure la Trilogia del tavolino di Rita Frongia ci riesce.

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DIE TOTE STADT DEBUTTA ALLA SCALA

È andata in scena per la prima volta a Colonia e ad Amburgo nel 1920. Quasi cento anni dopo trova finalmente il suo debutto (o meglio, la sua consacrazione) nel Tempio: stiamo parlando dell’opera Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold, di cui abbiamo visto la recita del 3 giugno al Teatro alla Scala.

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D.A.K.I.N.I.

L’im-possibilità di un’isola

“Divenuto totalmente dipendente, conosco il tremito dell’essere, l’esitazione a sparire.”

(Michel Houellebecq)

“Vita mia, vita mia, mia antichissima vita,

mio primo voto mal richiuso,

mio primo amore infirmato,

sei dovuta ritornare.

Chi sono queste creature misteriose e imperturbabili che da una distanza di millenni contemplano la sparizione dell’antica umanità, il suicidio collettivo che ha spalancato all’uomo le porte dell’immortalità? Le gioie dell’essere umano restano loro inconoscibili, i suoi dolori e desideri quasi impercettibili, le loro notti non vibrano più di terrore né di estasi…

Il suo ultimo clone (nel nostro caso cyborg ndr) riscoprirà il fascino della sofferenza e della libertà, e il gusto della ribellione … In fondo all’abisso del nichilismo verrà così rivelata l’ultima verità e speranza: …

 … in cui tutto è facile,

in cui tutto è dato nell’attimo;

esiste in mezzo al tempo

la possibilità di un’isola.”

Queste parole che potrebbero in maniera incredibilmente appropriate riferirsi allo spettacolo D.A.K.I.N.I. in realtà si riferiscono a un romanzo di Michel Houellebecq: “La possibilità di un’isola”.

Mi sono chiesta cosa esattamente mi avesse colpito di D.A.K.I.N.I. tanto da rievocare nella mia memoria le parole esatte di un romanzo che avevo letto oltre 10 anni prima e la risposta è proprio: la memoria, o meglio l’importanza che si dà alla memoria. Infatti, in entrambi i casi vengono descritti scenari apocalittici di un futuro lontano e fanta-scientifico nei quali l’unica cosa che può ancora renderci umani è la sopravvivenza di una memoria personale e collettiva non solo per la costruzione di un’identità ma per la sopravvivenza stessa dell’identità. La sopravvivenza di una memoria ancora prima che di un corpo, indica la necessità di un’umanità data da una coscienza ancora prima che da una genetica. Può una coscienza “re-(e)sistere” a prescindere da un corpo? In apparenza, lo spettacolo portando alle estreme conseguenze l’alienazione dal corpo, sembrerebbe rispondere di sì.

Questo dualismo soggetto-oggetto vede contrapposti i due aspetti di coscienza e corpo come entità separate a cui il pensiero filosofico spesso si vede costretto ad affermare il primato dell’uno sull’altro. Più spesso, come in questo caso, il primato della coscienza sul corpo.

Lo spettacolo D.A.K.I.N.I. racconta di una società ormai esclusivamente maschile che ha sostituito le donne con cyborg, Intelligenze Artificiali, a cui periodicamente viene cancellata la memoria per evitare che possa insorgere in loro, attraverso la rimembranza delle esperienze, la coscienza di un’identità.

Per raccontare il primato della coscienza sul corpo si fa ricorso alla danza, linguaggio che ha come statuto ontologico stesso il corpo dichiarando sin dall’inizio il desiderio di partire dal corpo per arrivare alla sua “smaterializzazione”. È nella qualità dei corpi che si manifesta il linguaggio della danza. Così un corpo per terra trascinato via come fosse un involucro vuoto, una bambola di lattice, ci introduce subito, proprio per quell’incredibile qualità che manifesta, nella dimensione della danza a prescindere dalla componente musicale o ritmica. Anche nell’immobilità le caratteristiche di quei corpi, attraverso per esempio la tensione dei muscoli che definiscono un fisico asciutto e scolpito, raccontano la permanenza della danza impressa nella carne.

La musica in questo spettacolo è spesso sostituita da suoni ed elementi che evocano scenari cibernetici, o da voci alterate, dal timbro grave, ricavato come conseguenza di un lavoro sul corpo più che da modificatori sintetici come ci aspetteremo in un contesto del genere. La musica viene spesso utilizzata per rievocare un passato che non sembra esistere più ma che, con la riacquisizione della memoria, riemerge per definire atmosfere e stati d’animo.

Lo spazio è completamente vuoto, un grande schermo bianco riempie tutta la parete di fondo, anche questo metafora di una memoria vuota sul quale sarà necessario far scorrere i filmati del passato per ricostruire la coscienza di cui abbiamo parlato. Solo in proscenio in prossimità degli spettatori vediamo un isolotto tecnologico delimitato da led all’interno del quale due figure androgine, attraverso l’utilizzo di computer, mixer, videoproiettori e microfoni, orchestrano l’intero spettacolo. Luogo della regia di questa umanità maschile, posto sotto gli occhi degli spettatori, che dirige simulacri con fattezze femminili per e a suo piacimento. Eppure il vero luogo dove accadono le cose è e rimane per tutto lo spettacolo il corpo. Il corpo che frapponendosi tra i proiettore e il telo bianco del fondo, diventa schermo su cui proiettare le immagini, su cui innestare luci e parti cibernetiche, il corpo che privato di una sua coscienza diventa oggetto per riacquisire con la memoria, attraverso un percorso di coraggio e ribellione, la propria soggettività.

In questo senso e con questo senso danzatrici donne danzano e narrano i soprusi di un maschile che incombe come ombra minacciosa e silenziosa, presente solo nelle cicatrici che lascia sui corpi, deturpati e annienti, involucri apparentemente vuoti privati della propria identità/memoria. Il nome D.A.I.K.I.N.I. è fortemente e volutamente evocativo. Dakini sono nella tradizione indiana figure femminili, ancelle di Kali, che si nutrono di carne umana, spiriti matrigni carnefici dei propri figli e dei propri uomini. Ma sono anche secondo la traduzione buddista tibetana “le Danzatrici del Cielo” traducendo in maniera più poetica la parola “khandro“, che letteralmente significa “colei che va in cielo”, o “colei che si muove nel cielo”. Colei che danza nel cielo, quindi, che è libera, libera grazie all’aver superato gli ostacoli e i limiti della mente comune. La parola Dakini che nello spettacolo si riferisce a un cyborg specifico in realtà è plurale, una pluralità di Dee, una pluralità di forme della Dakini che sono diverse fra loro come possono esserlo le singole fiamme dell’unico fuoco.

D.A.K.I.N.I. è dunque metafora posta ad indicare tutte le donne o se vogliamo il femminile in generale. Questo però è uno spettacolo di genere che vuole andare oltre il genere dimostrando come labili siano oggi i confini delle categorie che siamo abituati a conoscere. Il cyborg infatti è una creatura che vive in un mondo post-genere in cui natura e cultura sono rimodellate, le distinzioni tra naturale e artificiale, corpo e mente, maschile e femminile, autosviluppo e creazione e altre ancora che permettevano di distinguere gli organismi dalle macchine, sono divenute molto vaghe.

Secondo la studiosa statunitense Donna Haraway, capo-scuola della Teoria cyborg come branca del pensiero femminista che studia il rapporto tra scienza e identità di genere, la cultura occidentale è sempre stata caratterizzata da una struttura binaria che non è simmetrica, ma che è basata sul predominio di un elemento sull’altro. Come già anticipato in precedenza parlando della dualità tra soggetto-oggetto, nella tradizione occidentale sono esistiti persistenti dualismi che, come sostiene Haraway:

sono stati tutti funzionali alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, sulla gente di colore, sulla natura, sui lavoratori, sugli animali: dal dominio cioè di chiunque fosse costruito come altro col compito di rispecchiare il sé.

Haraway introduce quindi la figura del cyborg, che da invenzione fantascientifica diventa anche questa metafora della condizione umana. Di fronte a questa nuova realtà utopica, che potrà essere resa possibile dai crescenti progressi della tecnologia informatica, i concetti tradizionali di classe, razza, sesso, genere, corpo, identità, sono destinati a sparire.

Eppure già nel 1942 lo stesso Merleau-Ponty intravedeva una tesi anti-dualistica, cominciando a proporre il superamento dei dualismi almeno nella relazione soggetto-oggetto, individuando il corpo umano come luogo della relazione unitaria tra corpo e mente. Aprirsi al mondo partendo da un corpo significa guardarlo da una prospettiva situata in uno spazio e in un tempo.

Ma nello spettacolo che elimina la prospettiva spazio-temporale probabilmente l’unica via possibile che rimaneva al corpo era proprio quella del cyborg, corpo su cui sono stati impiantiti elementi artificiali che ne hanno potenziato il funzionamento facendolo diventare un super-corpo al quale non rimane che ricondurre un super-io, che secondo la teoria psicoanalitica rappresenta il censore che giudica gli atti e i desideri di ogni essere umano.

Il super-io, come è noto, porta alla frantumazione dell’Io ed alla sua successiva modificazione, in quanto vengono da esso assimilati modelli derivanti da imposizioni altrui. Il cyborg/donna/super-corpo dal super-io viene di fatto costruita a posta per ricevere imposizioni dall’unico embrione di umanità rimasta quella maschile. Inoltre la danza, e più in generale lo spettacolo dal vivo, sono stati oggetto di una retorica dell’effimero portata a formulare un’ontologia dell’impermanenza e della sparizione che è come vedremo il punto di arrivo dello stesso spettacolo.

D.A.K.I.N.I. e le sue sodali creano un nuovo modo di muoversi e interconnettersi con il Tutto, la smaterializzazione dei corpi, un movimento di particelle libero nello spazio e nel tempo.

Così si conclude la nota allo spettacolo che viene distribuita prima dell’ingresso in sala.

Rifacendosi nuovamente al significato della parola dakini intesa come il nome delle divinità buddiste tibetane, in termini più generali dakini viene indicato quale principio femminile come sottile flusso di energia che attraversa tutto il mondo fenomenico e quindi in primo luogo la natura. Ecco la smaterializzazione dei corpi per interconnettersi al Tutto.

Questa solidarietà tra cyborg/donne risvegliate da una coscienza ritrovata che decidono di rinunciare ai loro corpi, sembra richiamare nuovamente Haraway quando dichiara che chiamarsi femminista e voler affermare il proprio femminismo è divenuto difficile, perché nominarsi significa anche escludere e le identità sembrano essere contraddittorie e parziali. Di fronte alla crisi dell’identità politica della sinistra e del movimento femminista, un passo in avanti può essere costituito dalla rinuncia a ricercare una unione basata sull’identità in favore di una coalizione basata sull’affinità.

Questa affinità, sun pathos, di cui parla Haraway vede la sua realizzazione nella smaterializzazione di quel corpo che avevamo riabilitato, attraverso il superamento dualistico soggetto-oggetto, a rappresentare l’identità a favore di un interconnessione con il Tutto.

Proprio perché è stato il mio primo spettacolo di danza contemporanea di cui vado a restituire un’orma come testimone di tale esperienza, la mia concentrazione massima è stata rivolta proprio allo statuto ontologico di ogni discorso sulla danza: il corpo. Così l’idea che questo spettacolo si concludesse con un anti-danza smaterializzando il corpo mi intrigava.

Durante tutto lo spettacolo ho aspettato quella “smaterializzazione dei corpi” e mi sono chiesta curiosa come intendessero rappresentarla.

Arrivati alla conclusione un drappo rosso come fosse un’amaca viene calato dall’alto fino a toccare terra e riempie da parte a parte lo schermo bianco della parete di fondo. Le due donne cyborg e le due figure androgine della regia si spogliano completamente e si sdraiano tutte e quattro dentro quel drappo rosso, si spengono le luci dei riflettori poi quelle dei led dell’isola della regia, le intelligenze artificiali tacciono, i suoni metallici e digitali scompaiono…Buio. Fine.

Mi sono chiesta: la scelta della nudità come “smaterializzazione dei corpi” (???!!!???)

Si riaccendono le luci, il pubblico applaude e applaude e applaude, qualcuno urla “brave” poi voci sommesse, applausi sempre più forti e voci tra il pubblico che si fanno sempre più nitide: “ma non escono?” “non vengono a prendere gli applausi?” E capisco… la scena vuota, il pubblico che invoca le danzatrici, l’applauso che scema, il pubblico che si alza, esce, lo spazio si svuota, rimangono i mixer, luci a led spente, drappi abbandonati, teli vuoti, faretti inermi, computer con schermi neri in standby. Mentre esco mi volto ancora una volta a guardare la sala che adesso è completamente vuota e capisco… ora è finito: “la smaterializzazione dei corpi.”

Esiste in mezzo al tempo la possibilità di un’isola? Per D.A.K.I.N.I. e le sue sodali probabilmente no ma per noi spettatori si nell’eterotopia, per citare Foucault, dell’esperienza dello spettacolo dal vivo.

Performer: Federica Guarragi – Isadora Pei – Teresa Ruggeri – Camilla Soave

Regia + Visual Art: Isadora Pei

Drammaturgia: Emanuele Policante

Musica originale: Carlo Valsesia

Organizzazione: Selene D’Agostino – Sara Giorla

Nina Margeri

HARLEKING / BROTHER – FESTIVAL INTERPLAY

Immaginate la potenza di una creazione capace di influenzare le rappresentazioni a distanza di cinque secoli. La commedia dell’arte riesce in questa impresa sconfinando nel mondo della danza con Harlekingdel duo italo-tedesco Gineva Enrico.
Ad aprire la stagione del festivalInterplaysono due giovani artisti che portano in scena un contemporaneo passo a due.La frivolezza della più celebre maschera della commedia dell’improvviso segue un canovaccio che prima lascia spazio all’improvvisazione per diventare sempre più vincolante. I riflettori si scaldano sui movimenti spontanei causati dalle contrazioni muscolari dovute al riso. Il mescolarsi del sogghigno con spasmi dovuti a conati non permette allo spettatore di rallegrarsi, e ricorda la fame senza freni della maschera originale. La forte gestualità passa attraverso la valorizzazione del corpo e delle pose attribuite all’Arlecchino del passato, in questo caso senza maschera, ma facilmente riconoscibile. La partitura diventa sempre più serrata fino ad entrare in un loop magnetico. La staticità delle gambe si contrappone al continuo moto delle braccia trasformate in arti meccanici e costrette ad eseguire una sequenza infinita sempre simile ma mai identica. Sorprende come il movimento dei due performer, nonostante si faccia minuto fino a ridursi al moto delle sole falangi, riesca ad ipnotizzare il pubblico.

“Brother” è una panoramica sul mondo del movimento. Marco Da Silva Ferreira, coreografo portoghese nominato Aerowaves Twenty18, utilizza i corpi dei sette performer come malleabile argilla prima della cottura. Presentando uno ad uno ogni danzatore, l’autore dona a ciascuno un momento solistico atto a mostrare le doti personali. Il movimento viscerale che caratterizza ognuno si distingue da quello degli altri compagni di scena per intensità, stile e utilizzo del corpo, dando così allo spettatore una varietà visiva fuori dal comune. Questa diversificazione la troviamo anche durante i momenti di insieme che, pur avendo una partitura ben  definita, lasciano la possibilità ad ogni interprete di dare un’impronta  personale  al gesto. Ritroviamo sul palco movimenti che percorrono la storia della danza fino ai tempi più recenti, nobilitando linguaggi come il voguing che difficilmente vengono illuminati dai riflettori di un palcoscenico di questo genere. Il sapiente utilizzo della musica dilata oltre al visivo la creazione di Marco Da Silva Ferreira creando echi dei versi primordiali prodotti dai ballerini durante lo sforzo fisico.

di Davide Peretti

INTERPLAY 2019
Associazione Culturale Mosaico Danza

HARLEKING
di e con Ginevra Panzetti, Enrico Ticconi
sound design Demetrio Castellucci
light design Annegret Schalke
costumi Ginevra Panzetti, Enrico Ticconi
illustrazioni e grafica Ginevra Panzetti
diffusione Marco Villari

BROTHER
direzione artistica e coreografia Marco Da Silva Ferreira
performers (fase creativa) Anaísa Lopes, Cristina Planas Leitão, Duarte Valadares, Filipe Caldeira, Marco da Silva Ferreira, Max Makowski, Vitor Fontes
assistente direzione artistica Mara Andrade
direzione tecnica e design luci Wilma Moutinho
musiche dal vivo Rui Lima and Sérgio Martins