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“Buona La Prima” Rubrica fringe festival – Samya jusuf omar

Odore di oriente che ti prende alle spalle. Una figura bianca materna, carnale, ma al tempo stesso leggera, come una vaporosa nuvola, compare sulla scena. La dimensione aerea e quella terrena si fondono, la voce calda di Valentina Volpatto attraversa la scena che brilla ancora della polvere del deserto, e poco alla volta il corpo di Samya Josuf Omar.

Olimpiadi di Pechino 2008 – Sulla linea di partenza dei 200 metri tutte le atlete, con i loro abiti attillati e colorati fatti di materiali tecnici per meglio fendere l’aria durante la corsa, si preparano alla partenza. Samya è una di loro, ma contrariamente alle altre indossa un paio di fuseaux neri e una maglia di cotone bianca con su la scritta Somalia, sulla fronte una fascia di spugna della Nike che le aveva regalato il padre prima di essere ucciso. Durante quella gara farà il suo miglior tempo ma arriverà ultima. Nessuno poteva immaginare che una giovane donna somala, mentre il suo paese era martoriato e afflitto dalla guerra civile, potesse avere il coraggio di andare contro tutto e tutti presentandosi alle olimpiadi.

Lo spettacolo ha debuttato il 9 maggio al Museo Egizio, è la prima volta che Valentina Volpatto si cimenta in un monologo di cui è anche autrice. E’ grande l’emozione, Valentina accetta la sfida perché si innamora della storia di Samya, sente l’urgenza di raccontarla per non dimenticarla, perché diventi un simbolo di coraggio, e dopo aver visto lo spettacolo come biasimarla, è difficile non innamorarsi di Samya. Lo spettacolo è emozionante e commovente, sedie e drappi che compongono la scenografia risultano a tratti persino superflui, quando hai un personaggio e una storia così ricca come quella di Samya e un’attrice che sa, con la sua passione, connettersi e connetterci al cuore di questa giovane atleta.

Samya intraprende il “viaggio”che dalla Somalia la porterà in Libia attraverso stenti e sopprusi, per salpare su quei barconi che non trasportano più corpi ma sogni, l’unica cosa che sembra restare ancora vivo su quei visi emaciati, spettri di esseri umani. Samya vuole andare in Europa per cercare un allenatore che possa prepararla per le Olimpiadi del 2012 di Londra. Samya vuole meritarseli quegli applausi del pubblico non solo come incoraggiamento ma perché ha tagliato per prima il traguardo.

Samya corre veloce con i piedi ben piantati al terreno per meglio poter prendere la rincorsa per spiccare il suo volo. E vola in alto verso il cielo, lontana da quel mare e lontana da quella terra a cui quel barcone, il suo barcone non approderà mai. Vola in alto nel cielo Samya e scompare, diventa pulviscolo, odore d’oriente che ti prende alle spalle e ti rimane dentro.

Autore: Adattamento teatrale del romanzo “Non dirmi che hai paura” di Giuseppe Catozzella a cura di Valentina Volpatto.

Regia: Luca Busnengo

Interpreti: Valentina Volpatto.

Nina Margeri

LA LISTA – LAURA CURINO

“Era ora che qualcuno si ricordasse di questa storia”

Il pubblico si è accomodato, le luci si sono abbassate, il silenzio regna nella sala e lo spettacolo inizia.

Entra in scena dall’angolo in fondo a sinistra Laura Curino che ha deciso di raccontare in circa 90 minuti, accompagnati da una breve introduzione, i cinque anni, tre mesi e otto giorni di Pasquale Rotondi.

In pochi conoscono questo nome: Pasquale Rotondi, il “monument man” italiano che decise di salvare, con l’aiuto di pochi uomini fidati, circa diecimila opere d’arte dalla distruzione bellica e dalle razzie naziste durante la seconda guerra mondiale.

Laura Curino racconta questi anni di guerra su un palcoscenico in cui la scenografia è scarna ed è composta da una semplice sedia e una scrivania con diversi oggetti sopra di essa, ma, grazie a giochi di luce e sonori, l’attrice, permette al pubblico di dimenticare quei pochi oggetti e costruisce assieme ad esso il luogo di cui lei sta raccontando, permettendo così la libertà d’immaginazione.

Non manca una vena ironica che accompagna il racconto dell’operazione di salvataggio e che, oltre a permettere agli ascoltatori di tirare un respiro di sollievo da quella che è stata una delle più brutali guerre della storia, aiuta a ricordare non solo l’importanza dell’arte ma anche l’importanza di salvaguardarla, poiché distruggere i conseguimenti e la storia di una o più generazioni di persone equivale a distruggere essi stessi ed è come se non fossero mai esistiti e questo è ciò che Pasquale Rotondi è riuscito ad impedire.

Le scelte rischiose, la forza di volontà e l’amore per l’arte ha permesso al protagonista ed ai suoi fidati uomini di salvare parte della nostra storia scegliendo i cittadini italiani come unici proprietari di quelle casse che contenevano capolavori di inestimabile valore.

Laura Curino durante il monologo di cui è autrice e interprete risulta appassionante, energica e vera, coinvolgendo lo spettatore in una pioggia di emozioni che lo aiuta ad immedesimarsi meglio nel racconto.

Grazie Laura, era ora che qualcuno si ricordasse di questa storia.

Regia: Laura Curino

Attrice: Laura Curino

Collaborazione alla messinscena: Gabriele Vacis

Nicola Trompetto

“BUONA LA PRIMA” RUBRICA FRINGE FESTIVAL – THEO, STORIA DEL CANE CHE GUARDAVA LE STELLE

Sono tante le cose che si potrebbero raccontare del grande genio che fu Vincent Van Gogh, tanti i misteri che si potrebbero voler svelare e tante le fantasie che si potrebbe voler sognare pensando a questo affascinante artista. Eppure non sono queste le domande a cui la compagnia Anomalia Teatro ha deciso di rispondere, ma piuttosto: “Chi era l’ombra di questa enigmatica figura? Chi era la sua spalla? Chi tace dietro ai suoi schizzi di colore?” Perchè si sa, alle spalle di ogni colosso della Storia, si nasconde sempre qualcuno! Ed è esattamente questo di cui lo spettacolo “Theo – storia del cane che guardava le stelle” ci vuole narrare.

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“BUONA LA PRIMA” RUBRICA FRINGE FESTIVAL – Omu Cani

Ogni volta che comincia uno spettacolo faccio sempre un po’ fatica a varcare la soglia tra il mondo “reale” e quello della “finzione” senza provare un po’ di imbarazzo. C’è sempre un momento in cui penso ma chi è questo/chi sono questi? Che stanno facendo? E provo sempre imbarazzo per loro. E’ un attimo, no, forse meno, ma c’è. Sarà perché siamo così abituati alla rapidità della visione, a tutte quelle immagini bidimensionali dello schermo di un tablet o del display di uno smartphone che si crea un corto circuito tra la vista, più pronta ai continui mutamenti, e il corpo, che ha bisogno di tempi decisamente più lunghi per imparare ad abitare il nuovo spazio. Quindi alla fine l’imbarazzo non è per l’attore ma per me, per un corpo che non è ancora pronto all’intimità del buio.

Poi dimentico me e mi lascio prendere da ciò che accade. Mai come in questo spettacolo mi sono abbandonata ai ricordi dell’attore che per uno strano fortuito caso coincidevano con quelli della mia infanzia. L’Omu Cani è la storia vera e controversa di un clochard comparso un giorno a Mazara del Vallo, in Sicilia, che portava con sé il mistero della sua vera identità. Persona colta e intelligente, di cui nessuno seppe mai nulla di certo, fu per molti anni creduto il noto fisico Ettore Majorana, scomparso poco tempo prima della sua misteriosa apparizione. Sebbene questa ipotesi fu smentita, a Mazara ancora oggi qualcuno vuole continuare a credere in queste “voci di popolo” che come un sogno alimentano il mistero e solleticano l’immaginazione. Abbiamo bisogno di sogni.

Davide Dolores, da solo in scena, ha saputo dare corpo e voce a un’intera comunità. Il lavoro di ricerca che l’attore ha svolto sulla vicenda non è finalizzato alla sola narrazione, ma vuole essere il punto di riflessione per parlare di come una comunità abbia saputo inserire e amalgamare al suo interno un elemento così tanto altro da sé. Vuole farci riflettere sulla possibilità di guardarci in maniera diversa attraverso la ricchezza della diversità dello sguardo dell’altro e chissà quale ricchezza si celava dietro quel punto di vista così particolare che aveva l’Omu Cani dal basso del suo marciapiede. Forse quella era l’altezza giusta dello sguardo di un bambino che mantiene la lucidità di un adulto che ha rifiutato le convenzioni degli adulti. Quegli stessi adulti che avevano bisogno di quello sguardo per definirsi in modi che prima non erano mai stati nemmeno pensati.

Davide alla fine con un moto di sincerità ringrazia l’Omu Cani per questa storia, che gli ha permesso di acquisire un nuovo punto di vista su di sé e sugli altri. Io per la sua stessa motivazione ringrazio lui per aver mantenuto viva la memoria, indispensabile tanto quanto lo sguardo dell’altro, per la definizione di un’identità che passa inevitabilmente attraverso la relazione con l’altro, con il diverso.

Oggi più che mai mi sembra uno spettacolo necessario.

Autore e Regia: Davide Dolores

Luci: Clara Stocchero

Musiche: Riccarso Russo, Samir Joubran, Masnada

Costumi: Davide Dolores

Interpreti: Davide Dolores

Nina Margeri

“BUONA LA PRIMA” RUBRICA FRINGE FESTIVAL – La semimbecille e altre storie

“Sono fuori di me e sono in pena perché non mi vedo tornare” (Luigi Tenco)

Tre interpreti, sei personaggi, un tema: storie di ordinaria follia. Ha qualcosa di delicato e poetico, ironico e malinconico, lo spettacolo dei Nouvelle Plague. Storie vere tratte dal saggio di una sociologa napoletana: Stefania Ferraro, che vengono riscritte per la scena. Sulle note di violi e sinfonie classiche personaggi dai toni bianchi e neri disvelano un arcobaleno di emozioni. Nella scena che si presenta sin da subito scarna, sono i gesti precisi e puntuali, di corpi che hanno la qualità della danza, a disegnare nell’aria scenari immaginari e immaginati. Luoghi che i personaggi disegnano abitandoli. Un po’ quello che succede nella mente di un “semimbecille” che abita un mondo disegnato nell’aria che noi “imbecilli” non riusciamo a vedere.

Il disagio mentale, raccontato nello spettacolo, che sfocia in atti di violenza, causato quasi sempre dalla “mancanza” d’amore, di condivisione, dalla mancanza dell’altro, sottolinea come l’uscire fuori di sé sia la condizione necessaria all’atto d’amore. Ma questo uscir da sé se trova nell’altro un approdo sicuro e accogliente riesce a tornare in sè in una navigazione che da sé porta all’altro e viceversa e che ogni volta è uno scambio e un arricchimento che si chiama crescita. Se quindi nell’atto d’amore è auspicabile sapere e potere uscire da sé per emanciparsi da un egoismo apocalittico, in una condizione di assenza dell’altro, l’uscire da se non ha rotte tracciate e vagando alla cieca c’è il rischio di perdere per sempre la via del ritorno:

Sono fuori di me e sono in pena perché non mi vedo tornare

Con Cesare Lombroso a scrutare e indagare i volti degli spettatori che cominciano ad accomodarsi su sedie molto a ridosso della scena che essendo allo stesso livello degli attori accorcia di molto la distanza. Forse proprio in un tentativo inconscio di restituire se non proprio alle vite originarie almeno alle memorie di esse un altro in cui tornare in sé.

Autore: Giulia Bocciero, Stefania Ferraro.

Regia: Giulia Bocciero, Valentina Bosio, Davide Simonetti.

Interpreti: Giulia Bocciero, Valentina Bosio, Davide Simonetti.

Luci: Rosa Vinci.

Musiche: Vincenzo Bocciero, Ettore, Maggese.

Nina Margeri

“SE QUESTO è UN UOMO”

“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e i visi amici, considerate se questo è un uomo.”


In occasione del centenario della nascita di Primo Levi, il direttore del TPE Valter Malosti firma l’interpretazione e la regia di “Se questo è un uomo“, in collaborazione col “Centro Internazionale di Studi Primo Levi”.


Ad accoglierci proiettata in scena vi è la neve che cade lenta, e riusciamo quasi a percepirne il freddo pungente.
Il tempo rallenta e noi veniamo catturati dalla sua maestosa danza, che sembra rendere incorruttibile ogni cosa.
Malosti è solo sulla scena, preso a schiaffi dai contrasti di luce che con violenza ora ne mostrano il volto, ora lo lasciano in penombra. Porta con sé una valigia per l’intera durata dello spettacolo: quella valigia è il suo attaccamento alla vita, contiene i suoi ricordi ed il suo essere uomo. Quello che è stato e quello che deve, nonostante tutto, rimanere. Il testo è totalmente fedele all’omonimo libro, le parole sono lapidarie e sembrano correre come sui binari di un treno.

“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo.


Il protagonista si fa portavoce di queste parole ed il suo è un procedere incessante, con l’urgenza interiore di chi non può e non vuole dimenticare nemmeno un frammento dei propri ricordi. E’ la paura di chi non vuole perdersi neanche una parola, è la necessità di raccontare, perché è l’unica arma che ha per restare vivo, ancora.
La scenografia iniziale è l’idea di una casa: ne ritroviamo le sole pareti mentre gli interni sono spogli, proprio come sono vuote le poche persone di ritorno dai campi di concentramento.

Fa una breve entrata in scena una donna: sembra spezzata, piegata da qualcosa che ancora non è in grado di comprendere e di spiegare e che forse mai potrà. Sfiora i muri della casa con la delicatezza con cui si accarezza un bambino e poi viene trascinata contro la sua volontà insieme agli atri.

“Vagoni merci, chiusi dall’esterno. E dentro uomini, donne, bambini, compressi senza pietà come merce di dozzina in viaggio all’ ingiù, verso il fondo.”

Lo spettacolo punta moltissimo sulla componente sonora: Gup Alcaro ne cura la riscrittura scenica ponendolo in primis come un’opera acustica. Questo risulta evidente nei 3 madrigali creati da Carlo Boccadoro a partire dalle poesie che Levi scrive di ritorno dal campo. Malosti dichiara di essersi ispirato per questo rifacimento ed in particolare per l’inserimento di questi cori, al teatro antico. Anche la scelta di un unico interprete in scena, di una sola voce senza alcuna mediazione, è spiegata dal fatto che è –una voce che, nella sua nudità, sa restituire la babele del campo degli ordini, delle minacce e del rumore della fabbrica di morte-.

Vi è l’intervento, oltre che di una donna, anche di un uomo: costui però indossa la purtroppo ormai celebre divisa a righe bianche e nere ed ha il volto totalmente coperto, ma i tratti del viso sono ancora riconoscibili.
Cammina sì, ma senza emettere fiato, mette i passi uno davanti all’altro senza alcuna meta. E’ un uomo, o forse un tempo lo è stato, e ora si aggira per la scena come un automa, un manichino, come l’ombra di se stesso.

“Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”

Queste sono le parole di Levi che però incita, nonostante tutto a mantenere almeno “lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà.”

Malosti non punta ad un coinvolgimento dello spettatore, ma anzi mantiene un certo distacco, forse proprio perchè non può esserci un’identificazione con le atrocità che uomini sono stati capaci di infliggere ad altri uomini. Nonostante ciò per quasi due ore veniamo catturati dall’atroce e scomoda verità delle parole di Primo Levi.
Grande è il lavoro di Malosti non solo dal punto di vista registico ma anche e soprattuto attoriale: dritto davanti a noi, e per lo più fermo, è in grado di sprigionare un’energia evocativa che non è data solo dalla potenza della parola.

Non c’è una senzazione di sollievo alla fine, anche se il protagonista riesce a sopravvivere, poichè la nostra mente è stata rapita e ‘contaminata’ dal ricordo di un’atroce crudeltà.
Ma Primo Levi ci ricorda che “Quando non si riesce a dimenticare, si prova a perdonare.”


Tratto dall’opera di Primo Levi “Se questo è un uomo”
regia: Domenico Scarpa e Valter Malosti
scene: Margherita Palli
luci: Cesare Accetta
costumi: Gianluca Sbicca
progetto sonoro: Gup Alcaro
madrigali: Carlo Boccadoro
video: Luca Brinchi, Daniele Spanò
Attori: Valter Malosti con Antonio Bertusi, Camilla Sandri

Ilaria Stigliano

Pinocchio

L’amore salva il mondo… Sembra una frase che riporta a un film romantico, invece questa volta stiamo parlando di Pinocchio, una delle storie più diffuse nel mondo dei bambini. Scritto nel 1883 da Carlo Collodi, il romanzo racconta le esperienze accidentali e dannose ma altrettanto attraenti e ricche di colpi di scena, di una marionetta animata. Pinocchio è il burattino di legno prediletto da suo padre, mastro Geppetto, un povero falegname che fa di tutto pur d’insegnare le buone maniere a suo figlio. Molto più di un burattino che vuole diventare bambino, Pinocchio è un’icona universale, metafora della condizione umana.

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iLOVE

Le città, per loro natura, si modificano, evolvono e mutano il loro aspetto esattamente come fanno le società che le abitano. Da questa naturale tendenza è nata la volontà di ri-creare e far risplendere nuovi “spazi” culturali che ospitassero le creatività di oggi e del futuro. Tre zone periferiche di Torino si sono unite per riqualificare luoghi che risultavano insoliti e inconsueti per ospitare l’arte e il teatro. Fra questi troviamo bellARTE, un teatro sorto all’interno di una fabbrica tessile dismessa e gestito dal 2006 dall’associazione Tedacà. BellARTE, insieme a Cubo Teatro e San Pietro in Vincoli Zona Teatro, sono luoghi di incontro e dialogo, ma soprattutto si propongono come fonte di stimolo per affrontare e indagare i temi del quotidiano e del nostro sistema sociale: un “fertile terreno” da coltivare per far crescere nuove risorse culturali e artistiche. Nel programma dei tre teatri si presentano numerose opportunità per incontrare artisti di grande levatura nazionale, ma anche emergenti giovani promesse, in una dimensione di vicinanza che genera una cifra comunicativa immediata e diretta.
Il 31 marzo, in linea con la poetica e la ricerca sociale che si è andata a costituire, al Teatro bellARTE è stato presentato il duetto iLove di Fattoria Vittadini. Questa Compagnia estremamente eterogenea, è nata a Milano qualche anno dopo rispetto allo spazio bellARTE, nel 2009, dalla volontà di undici giovani (ex)allievi del corso di teatro danza della nota scuola milanese Paolo Grassi, cerca di sviluppare una ricerca personale e una poetica che spazzi all’interno della molteplice pluralità linguistica dell’arte scenica dei nostri tempi. Fattoria Vittadini è riuscita nel giro di pochi anni a conquistare l’attenzione della critica proprio per i suoi segni distintivi che hanno la capacità di avvicinare sempre nuovo pubblico a lavori artisticamente elevati e di forte impronta sociale.
Il tema presentato alla Città di Torino con il duetto iLove non risulta particolarmente innovativo: una coreografia autobiografica che parla di un amore e nella quale due personaggi si ritrovano a condividere lo stesso spazio, inizialmente lavorativo, successivamente esteso alla sfera intima e privata. “L’amore è come questo viaggio in treno. Ci si lascia e ci si ritrova …” e proprio così i due performer si incontrano, si indagano l’un l’altro, si presentano e iniziano un viaggio di condivisione. Cercano loro stessi e la propria identità, studiano la loro relazione e l’affetto reciproco che li sovrasta. I due performer non vanno mai ad annullarsi ma proprio l’unione delle loro personalità fa emergere caratteristiche individuali e strettamente personali: uno si presenta come un personaggio dai gesti chiari e decisi, che a partire dalla lingua dei segni (LIS) espande il proprio essere verso il compagno, l’altro, più introverso, proietta sé stesso in continui slanci solistici pur ricercando un legame corporeo verso l’altro.
A prima vista risulta inconsueto per il Teatro bellARTE ospitare all’interno della propria stagione di ricerca uno spettacolo come iLove. Ma in scena ci sono due uomini a presentare il loro legame amoroso al pubblico. Un amore fra due uomini? Un amore omosessuale è il tema di questo splendido duetto? Due persone dello stesso sesso, nella società odierna ormai definita evoluta, possono condividere lavoro, vita privata e sentimentale? Non per questo sono meno uomini e meno umani. Questa è l’indagine analizzata e presentata dai due giovani danzatori, Cesare Benedetti e Riccardo Olivier. La loro proposta scenica si presenta come una danza fortemente astratta che esalta la potenza del segno per portare agli occhi dello spettatore un’analisi sul significato dell’essere uomini “maschili”. Sono queste forse, come molte altre espressioni, etichette con cui i danzatori giocano in una scena spoglia.
Questo duetto è nato quando ancora Cesare e Riccardo erano una coppia; poi si sono separati continuando a condividere la sfera lavorativa. Il risultato di questa relazione è stato proprio questo elegante duetto che tocca la sensibilità del pubblico sul tema dell’individualità nella coppia e dell’amore maschile.
ILove si apre con la coppia sul palco in ombra. La loro vicenda si muove a ritroso: si sono già separati e al centro della scena, sotto un cono luminoso, campeggia un ortaggio: un finocchio. La prima e breve sezione è ricca di gesti che sottolineano l’attuale lontananza e separazione ma poi, come in un flashback cinematografico, tutto ricomincia dal principio e quello a cui assistiamo è il ricordo dei primi momenti assieme, gli attimi più felici condivisi in coppia. L’importanza degli sguardi con il pubblico e che i due si scambiano l’uno per l’altro costituiscono un elemento di forte persuasione e seduzione. Proprio da uno sguardo nasce il duetto, che pur giocoso nasconde le difficoltà tecniche come anche la difficoltà del vivere assieme. Vestiti con pantaloni e felpe i due performer si presentano come ragazzi qualunque che iniziano a giocare tra loro.
Segue un momento conviviale, intimo, un esilarante quanto serio attimo che raffigura un fugace pasto consumato assieme, dove il finocchio dell’incipit torna in scena per venire divorato dai danzatori. L’azione avviene vicino a un microfono sul proscenio, rendendo a tutti i presenti udibile il rumore dei morsi. Subito i due uomini si spogliano, sottolineando come l’abito è solo una parte di ciò che realmente siamo. Si diffonde una sensazione di smembramento e di incomunicabilità: assistiamo al progressivo allontanamento di Cesare dalla relazione creatasi, mentre Riccardo diviene “appiccicoso”, quasi morboso nel seguire il partner. La rottura finale è inevitabile e commovente: non aleggiano parole, non ci sono insulti e scontri, ma solo un senso profondo di tristezza, solitudine e vuoto.

Matteo Ravelli

Regia, Coreografia, Colonna sonora
Cesare Benedetti, Riccardo Olivier
Light design
Roberta Faiolo, Giulia Pastore
Direzione Tecnica
Giulia Pastore
Produzione
Fattoria Vittadini

Lo spettacolo è parte della rassegna di danza Il Corpo Racconta e della rassegna Amor Novo di Fertili Terreni Teatro, il progetto di Acti Teatri Indipendenti, Cubo Teatro, Tedacà, Il Mulino di Amleto dedicato alla drammaturgia contemporanea e al teatro di innovazione. Realizzazione in collaborazione con Associazione Quore, Arcigay, Queever e progetto "Omofobia. No Grazie"

Gli Alti e Bassi di Biancaneve

26.01.2019 Fertili Terrreni Teatro – Torino

Specchio specchio della mie brame chi è la più bella di tutto il reame? (Jacob e Wihelm Grimm)

La bellezza è un’invenzione (che implica innanzitutto creatività) oppure è una scoperta (che implica innanzitutto contemplazione)? (Vito Mancuso)

Ho lasciato passare un po’ di tempo per far decantare nel mio corpo (archivio) l’esperienza di questo spettacolo prima di provare a lasciarne traccia attraverso un linguaggio altro, che per sua natura manifesta l’inevitabile corruzione di una “verità” che può essere restituita solo nella sua relatività e alterità.

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