La Lavanderia a Vapore di Collegno è la prestigiosa Casa della Danza della Regione Piemonte, luogo di sperimentazione nel quale l’arte coreutica si presenta come motore portante di un’intensa attività relazionale, che coinvolge non solo il territorio limitrofo ma si apre anche a molte altre realtà nazionali e internazionali. Ispirandosi al libro Quello che ci muove. Una storia di Pina Bausch dell’autrice Beatrice Masini, QUELLO CHE CI MUOVE è anche il titolo dato alla rassegna di alcune proposte della stagione 2018/2019. L’obiettivo è quello essere fonte d’ispirazione per tutte le attività che vedono la propria centralità non solo in quello che è stato ma soprattutto in quello che sarà, un itinerario della memoria, partendo dal ricordo dei lavori della famosa coreografa e danzatrice Pina Bausch, e un’esplorazione dei temi della creazione contemporanea. Lo sguardo degli spettatori viene dunque condotto non solo verso il passato ma anche verso il “terzo paesaggio della danza”, quello formatosi come “residuo” di una scena ufficiale che tutela la tradizione e che si configura come “luogo di conservazione”, e si distanzia dal “secondo paesaggio”, luogo di incontro tra “nuovo o meno nuovo [..], in cui i linguaggi conosciuti e leggibili anche da un pubblico relativamente ampio creano nuove suggestioni”. Continua la lettura di PROVE D’AUTORE
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RAGAZZI DI VITA
“Faceva un caldo, che non era scirocco, che non era arsura, ma era soltanto caldo. Era come una mano de colore”; esordisce così Lino Guanciale, il narratore di “Ragazzi di Vita” nel primo adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Pasolini.
Un’idea nata nel 2016, a quarant’anni dalla morte dell’autore, che riproduce fedelmente il contenuto dell’opera pasoliniana, raccontando le vicende di alcuni ragazzi appartenenti al sottoproletariato romano.
La storia si svolge nell’immediato dopoguerra: le vicissitudini dei personaggi sono in realtà lo specchio del degrado sociale di un paese profondamente segnato dal conflitto.
La miseria è la protagonista indiscussa delle vite di questi giovani -i “ragazzi di vita”- che della vita sono pedine in mano al fato, ma che non si arrendono all’idea di un’esistenza passiva, cercando di arrangiarsi come possono. Le famiglie non sono più un punto di riferimento e spesso anzi sono contenitori vuoti, senza valori.
I ragazzi , allo sbando più totale, non vogliono rassegnarsi allo scorrere tedioso del tempo e pertanto ricorrono a passatempi che sono il ritratto della povertà morale e materiale che li circonda.
Le parole cominciano a manifestarsi ai nostri occhi in maniera tangibile, nonostante la presenza di una scenografia minimalista ma funzionale e coerente all’idea di decadenza che si vuole trasmettere.
Il racconto procede per capitoli isolati, sviscerando brevi aneddoti significativi tenuti insieme dall’abile maestria di Lino Guanciale, alter ego di Pasolini.
Egli si aggira tra una scena e l’altra un po’ narratore un po’ spettatore, talvolta insinuandosi in punta di piedi nella narrazione, senza mai però scombinare gli equilibri di quello spettacolo di vite incerte ma strepitanti.
I personaggi (18 attori in scena) si esprimono in un dialetto romanesco di borgata e contemporaneamente parlano in terza persona attraverso la prosa letteraria, come a voler segnare un distacco narrativo nella descrizione delle azioni da loro compiute.
Ogni attore, proprio come una piccola rotella dentata, ha reso possibile il funzionamento di un complesso ingranaggio con il risultato di un meccanismo pressocché perfetto. Ogni storia lascia il segno, passando in pochi minuti dal dramma alla pura leggerezza, il tutto con un ritmo ben sostenuto.
Oggettivo merito va conferito, oltre che ad un bravissimo narratore, a ogni interprete e alla raffinata regia di Popolizio: grazie anche all’esperienza attoriale, riesce a conferire consapevolezza alle parole sul palcoscenico, conscio di come l’attore ne diventi veicolo. Vincitore di tre premi alla regia: “Ubu”, “Critica” e “Le Maschere”.
Va riconosciuta inoltre la nota piacevole data dalle canzoni dal vivo inserite nella partitura, che pervadono lo spettatore di una struggente tenerezza.
In tal senso è doveroso citare tutta la compagnia oltre a Guanciale: Lorenzo Grilli (Riccetto), Alberto Onofrietti (Genesio), Josafat Vagni (Agnolo) Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Roberta Crivelli, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Michele Lisi, Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Cristina Pellica , Lorenzo Parrotto, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco, Francesco Santagada, Stefano Scialanga e Andrea Volpetti.
Una furiosa ed impulsiva lotta alla quotidianità, che ci fa uscire da teatro colmi di una felicità apparente, rivolgendo un ultimo tenero e malinconico sguardo a quei ragazzi che la vita l’hanno segnata sulla pelle.
Di Pier Paolo Pasolini
Drammaturgia: Emanuele Trevi
Regia Massimo: Popolizio
Scene: Marco Rossi
Costumi: Gianluca Sbicca
Luci: Lugi Biondi
Canto: Francesca della Monica
Ilaria Stigliano
Matilde e il tram per San Vittore
Il sipario è aperto quando ci sediamo in platea. Delle grandi e alte lastre di ferro sovrastano il fondo del palco in una fila orizzontale che sembra infinita, e in mezzo alla scena vediamo solo un tavolo con due panche, anch’essi di ferro. L’atmosfera è quindi fredda, pesante, inquietante, come lo è il tempo in cui saremo catapultati a breve.
Del resto siamo in una fabbrica, e l’ambiente non può altro che essere grigio e opprimente. Ce lo rivela la prima attrice che entra in scena, iniziando a raccontare la storia dei tre grandi scioperi partiti dalle fabbriche di Milano dal 1943, durante la seconda guerra mondiale. Migliaia di operai, stanchi delle condizioni di lavoro inumane, della fame, della vita che stavano conducendo sotto la scure fascista, si ribellano con fierezza alla logica della guerra: se non si fabbricano più le armi, forse anche la guerra finirà. A seguito dello sciopero del 1943 ce ne furono altri due, nel ’44 e nel ’45: una lenta marcia verso la deportazione e la morte per centinaia di operai.
Presto scopriamo che le attrici in scena saranno tre, ma le anime a cui daranno voce sono molte di più: tratto dal libro Dalla fabbrica ai lager di Renato Sarti, lo spettacolo rende giustizia alle storie delle donne, madri, figlie, sorelle degli uomini deportati nei campi nazisti, che prendono vita attraverso l’impeccabile performance artistica di Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola: emozionanti, emozionate, ci trasportano in un epoca buia con le loro parole e azioni taglienti come lame.
Le vicissitudini di queste famiglie si susseguono senza sosta, dando vita a un puzzle che sembra quasi impossibile: la paralisi dei grandi stabilimenti del milanese porta alla paura di essere trovati dalla polizia nazifascista, allo smarrimento di non sapere che fine abbiano fatto i propri uomini.
Poi c’è la speranza di poterli rivedere, di potergli portare vestiti e viveri prima che siano trasferiti a “lavorare” in Germania: là fa freddo, ci ricordano le voci che aleggiano come fantasmi disperati intorno a noi, ed è necessario riuscire a portare ai cari in partenza almeno il cappotto. La frenesia del viaggio attraverso le stazioni lombarde di queste donne viene resa perfettamente dalla recitazione che si fa sempre più ritmata, come una marcia, quasi esasperata, fino ad arrivare alla partenza del treno, verso una meta ignota. Tante donne non erano nemmeno riuscite, nella calca impazzita, a salutare i figli, i mariti, i fratelli, a dargli il maglione o il tozzo di pane che avevano preso repentinamente da casa prima di andare di corsa alla stazione più vicina per raggiungerli.
E tante donne non parleranno nemmeno più con i loro familiari, amici: l’ultima parte dello spettacolo è infatti dedicata alle storie di chi non è più tornato, del vuoto che ha lasciato nel cuore e nelle case di molte famiglie. Ma anche a chi è riuscito a tornare, e negli occhi e nel cuore non ha più avuto lo stesso vigore con il quale era partito: uomini che non riusciranno mai a esprimere la sofferenza che hanno visto e vissuto sulla loro pelle, ma che ogni notte piangeranno in silenzio accanto alle mogli apparentemente addormentate.
Notevole la regia, che attraverso le luci ha esaltato perfettamente i sentimenti di panico, dolore, paura, smarrimento provati dalle tante donne che hanno avuto il coraggio di raccontare la loro storia. Inoltre è stato dato grande rilievo alla componente uditiva, soprattutto durante i racconti delle retate notturne nazifasciste: grazie all’uso abile delle componenti scenografiche in ferro, le attrici riuscivano a far emergere, almeno in parte, quella che doveva essere la confusione e il terrore dato anche dai forti rumori e suoni che rimbombavano nella notte silenziosa.
Una Resistenza, quindi, narrata in modo commovente dal punto di vista femminile di donne forti che si sono trovate improvvisamente a gestire situazioni impensabili, di violenza, miseria e dolore. Come ricorda infatti il regista Renato Sarti: “Fin dalle tragedie greche la voce delle donne è quella che meglio di ogni altra riesce a rievocare l’orrore della guerra, che sempre nuovo, purtroppo, si ripete”.
Di Alice Del Mutolo
di Renato Sarti
dal libro di Giuseppe Valota Dalla fabbrica ai lager
con Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola
regia Renato Sarti
scena e costumi Carlo Sala
musiche Carlo Boccadoro
luci Claudio De Pace
progetto audio Luca De Marinis
dramaturg Marco Di Stefano
Teatro della Cooperativa
sostenuto da NEXT 2017/18 – Regione Lombardia con il patrocinio di ANPI, Istituto Nazionale Ferruccio Parri
e ISEC e dei comuni di Albiate, Bresso, Cinisello Balsamo, Monza e Muggiò con il sostegno di ANED
Rigoletto di John Turturro
La stagione del Teatro Regio, inaugurata dall’appassionante vena melodica di Trovatore e Traviata, sceglie di concludere la cosiddetta Trilogia Popolare verdiana dal suo principio: Rigoletto. La partitura, prediletta dallo stesso Giuseppe Verdi, scaturisce nel 1851 dall’incontro con il testo di Hugo, Le roi s’amuse, adattato da Francesco Maria Piave. Continua la lettura di Rigoletto di John Turturro
LA DANZA FRA MICHELA LUCENTI E IL DIAVOLO
“La verità fa sempre male, anche se è una falsa verità”. È questa la lezione che ci è stata impartita e che deve essere assimilata per poter affrontare le avversità della vita, qualunque esse siano, anche quando sono in gioco magie oscure e diaboliche. In fondo abbiamo assistito “alla storia di un mago, che per definizione altro non è che un attore il quale finge e interpreta tale ruolo; ma anche alla storia del Diavolo, che altro non è che un mago […]”.
La citazione, tratta dal capolavoro letterario di Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, introduce queste note sullo spettacolo dalla struttura complessa cui abbiamo assistito, una scrittura scenica nata dall’incontro del regista Emanuele Conte con la coreografa Michela Lucenti. Il lavoro, prodotto dal Teatro della Tosse in collaborazione con Balletto Civile per le scene genovesi dello scorso anno, è stato ospitato presso l’Astra di Torino all’interno del cartellone di Palcoscenico Danza 2019.
Grazie alla presentazione del personaggio del Diavolo che, rievocando le parole del Faust di Goethe, si presenta come “[…] parte di quella forza che eternamente vuole il male ed eternamente compie il bene”, viene proposta sin dal principio una chiave di lettura e una sintesi di ciò che si andrà ad assistere: sarà proprio questo personaggio demoniaco il motore di tutto il racconto. Probabilmente, questo preambolo introduttivo ha aiutato anche gli estimatori più acuti del testo di Bulgakov a comprendere uno spettacolo connotato da un forte surrealismo.
“Questo è uno spettacolo che contiene un altro spettacolo che parla di raggiri, di frodi e di bugie”: queste le parole che hanno annunciato l’inizio di una pièce dai toni grotteschi, giocata su diversi livelli registici per narrare vicende ambientate in differenti tempi narrativi e dislocate su tre piani distinti, ovvero, lo spazio del palcoscenico nascosto dietro un sipario vermiglio, il proscenio, circoscritto da una fila di finti lumi, e la platea.
Singolare e apprezzata è stata la scelta di accogliere il pubblico in sala con la musica di un abile pianista, che si scoprirà essere un fedele seguace demoniaco. Attraverso le animazioni video, realizzate sapientemente da Paolo Bonfiglio, abbiamo preso parte a un cortometraggio nel quale sono stati usati dipinti a olio animati per rappresentare la storia di Ponzio Pilato, vicenda cuore del libro scritto dal personaggio de Il Maestro. Questo ingresso sembra evocare il cinema tedesco espressionista, coi suoi toni bicromatici e volutamente sperimentali.
Anche l’arte della Lucenti mostra un chiaro richiamo alle avanguardie storiche; per l’occasione la coreografa ha prodotto una danza essenziale, basata su pochi gesti codificati e su presenze di corpi volumetrici, studiatamente densi, ma al contempo leggeri ed eterei. Sottratte dal contesto spettacolare in questione, alcune coreografie sarebbero parse pure rievocazioni degli Anni Ruggenti e di un periodo spensierato e indimenticabile, altre si sarebbero potute definire composizioni astratte, dove la presenza attoriale è sublimata da disegni geometrici scomposti e ricercati.
In linea con la chiave stilistica, il regista ha voluto moltiplicare gli spazi, eliminando non solo la quarta parete, portando al di fuori del boccascena danze e azioni e avvolgendo il pubblico, ma ricercando anche l’abbattimento della quinta, quella parete metafisica che ci separa da un mondo di idee e di spirito. Unite dalla musica, le scelte registiche e i disegni coreografici hanno cercato dunque di condurre il teatro verso una nuova linea di ricerca, un nuovo sentiero, forse non ancora abbastanza esplorato e discusso, volto non soltanto ad avvicinare l’uomo alla rappresentazione teatrale, inglobandolo nell’azione, ma conducendolo verso un mondo immateriale, fatto di pensieri e riflessioni.
Certo è che la danza, senza la parola, non sarebbe stata compresa appieno. Ciò non deriva da una carenza espressiva delle coreografie o dei suoi interpreti, i quali, al contrario, si sono dimostrati abili seduttori visivi e tecnicamente preparati, bensì da un pubblico non più avvezzo a un’arte sperimentale e avanguardistica, sicuramente non facilitato dall’assuefazione a tutte le immagini stereotipate con cui quotidianamente convive. Nonostante questo, la Lucenti riesce a conquistare il pubblico, sfruttando una coscienza profonda della danza, del teatro e dei suoi meccanismi di interazione con lo spettatore.
Recensione a cura di Matteo Ravelli
Testo: Emanuele Conte ed Elisa D’Andrea, liberamente ispirato al romanzo di Michail Bulgakov Regia: Emanuele Conte e Michela Lucenti Coreografie: Michela Lucenti Assistenti alla regia: Alessio Aronne e Ambra Chiarello Con: Andreapietro Anselmi, Fabio Bergaglio, Maurizio Camilli, Pietro Fabbri, Michela Lucenti, Marianna Moccia, Alessandro Pallecchi, Stefano Pettenella, Gianluca Pezzino, Paolo Rosini, Emanuela Serra, Giulia Spattini Impianto scenico: Emanuele Conte Animazioni video: Paolo Bonfiglio Costumi: Chiara Defant Luci: Andrea Torazza Musiche: Tiziano Scali Pianoforte e musiche originali: Gianluca Pezzino Produzione: Fondazione Luzzati / Teatro della Tosse e Balletto Civile
Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa
Ogni persona che ha letto La metamorfosi di Kafka si è chiesta: chi era prima Gregor Samsa? Quali sogni demoniaci lo hanno trasformato in un insetto?
Lo spettacolo che abbiamo visto domenica 20 gennaio 2019 al Teatro Astra cerca di rispondere a queste domande focalizzandosi sull’incomunicabilità di Gregorio con il mondo circostante. Proprio per questo il protagonista si esprime attraverso la danza, cercando di trasmettere così la sua interiorità. In questo modo si isola nella sua arte, non c’è confine tra le prove e la vita vera. Gregorio si ritrova intrappolato all’interno della sua condizione di danzatore. Questa ricerca ossessiva avviene tramite ripetizioni altrettanto morbose dei movimenti che vanno ad intaccare la sua vita sentimentale e la sua quotidianità attraverso una sorta di frammentazione. Il protagonista è impegnato nella continua memorizzazione della coreografia in vista di un imminente debutto. La meticolosità con cui replica i movimenti è vista come una sfida con se stesso e la voglia di dimostrare agli altri la propria intimità che a parole non riesce ad esprimere. Una ricerca che non solo mira ad un perfezionamento artistico, ma soprattutto ad un senso di libertà. Il suo è un lavoro senza fine verso un’incessante ricerca della perfezione. Un mondo ideale nel quale rifugiarsi dalle frustrazioni che subisce e da tutto ciò che lo circonda.
Gregorio non sa gestire il suo spazio, il suo tempo e la sua routine, perché troppo immerso nella ricerca di ciò che non ha ancora individuato. In questo senso è significativo il finale, quando Gregorio corre, sul posto, verso una palla di luce accecante. Rincorrere qualcosa di indefinito è il dilemma del protagonista.
Lorenzo Gleijeses recita in uno spettacolo della durata di circa un’ora in una pura sospensione del tempo, dove l’immaginario si mescola con la realtà e l’atmosfera è sospesa in una dimensione astratta. La concretezza della vita quotidiana è identificata dalla televisione (che verrà simbolicamente distrutta) e da un robot che vaga per il palco senza meta, proprio come Gregorio.
Progetto di lunga gestazione, Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è il prodotto di quattro anni di prove e cinque di idee. Nasce come creazione di Mirto Baliani (luci e musiche) e Lorenzo Gleijeses, con l’obiettivo di farlo rielaborare da diversi maestri per far sì che ognuno di loro apporti modifiche individuali. Il primo di questi è Michele Di Stefano, coreografo e performer, vincitore del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia nel 2014. Il suo contributo si orienta verso la danza contemporanea.
Il secondo è Eugenio Barba, raggiunto in Danimarca all’Odin Teatret. Quando il regista vide Lorenzo Gleijeses recitare, suggerì subito La Metamorfosi perché i suoi movimenti gli ricordarono lo scrittore praghese. In una notte, proprio come la trasformazione di Gregor nel racconto, gli artisti Gleijeses e Baliani ibridarono il loro lavoro con i testi di Kafka. Questo entusiasmò Barba, che strutturò lo spettacolo in più fasi, tra cui l’inizio, focalizzato sulle prove, e la parte centrale sulla routine quotidiana. Possiamo individuare il lavoro registico di Eugenio Barba anche nell’attenzione dell’attore di “mettersi in forma” che, con estrema precisione dei movimenti, attira su di sé lo sguardo dello spettatore, riuscendo a trasmettere la drammaticità del suo corpo.
I suoni coincidono con le azioni e fanno concretizzare con l’immaginazione dello spettatore oggetti scenici inesistenti.
Nonostante Gregorio sia solo sulla scena, interagisce con altre figure attraverso diverse voci off.
Per cogliere ogni movimento ed effetto scenico altrimenti impercepibile, lo spettatore deve trovarsi frontale al palcoscenico. Proprio per questo il Teatro Astra ha delimitato i posti accessibili, modificando la conformazione stessa del teatro e creando uno spazio diverso.
Qual è il confine tra la sana ricerca artistica e la pulsione patologica? Dove si costruisce qualcosa e dove si distrugge se stessi e gli altri?
Accrescere la propria arte è il tema centrale sia realmente, per la modalità di creazione di questo spettacolo, sia metaforicamente all’interno dell’opera stessa.
E’ questo che causa la crisi dei rapporti tra Gregorio e gli altri personaggi ed è forse l’unico scopo del danzatore: trovare e, in un certo senso, trovarsi.
Alessandra Bina e Alessandra Botta
Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, diretto da Eugenio Barba insieme a Julia Varley e allo stesso Gleijeses, prodotto da TPE, Nordisk Teaterlaboratorium e Gitiesse Artisti Riuniti. La consulenza drammaturgica è di Chiara Lagani.
Lo spettacolo ha avuto un’anteprima a inizio dicembre 2018, al Teatro Studio di Scandicci per la stagione del Teatro Nazionale della Toscana. Dopo le repliche all’Astra fino a domenica 20 gennaio andrà a Milano (Triennale Teatro dell’Arte, da giovedì 24 a domenica 27 gennaio) e a Bologna (Centro Teatrale La Soffitta, Dams, martedì 30 gennaio).
CON LORENZO GLEIJESES
REGIA E DRAMMATURGIA EUGENIO BARBA, LORENZO GLEIJESES, JULIA VARLEY
SUONO E LUCI MIRTO BALIANI
VOCI OFF EUGENIO BARBA, GEPPY GLEIJESES, MARIA ALBERTA NAVELLO, JULIA VARLEY
ASSISTENTE ALLA REGIA MANOLO MUOIO
CONSULENZA DRAMMATURGICA CHIARA LAGANI
SPAZIO SCENICO ROBERTO CREA
GLI OGGETTI COREOGRAFICI SONO FRUTTO DELL’INCONTRO CON MICHELE DI STEFANO NELL’AMBITO DEL PROGETTO58° PARALLELO NORD PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA – NORDISK TEATERLABORATORIUM – GITIESSE ARTISTI RIUNITI IN COLLABORAZIONE CON CENTRO COREOGRAFICO KÖRPER
Madama butterfly – La farfalla sospesa
Il sogno d’amore della giovane Madama Butterfly prende vita fin dalle prime note dell’ouverture, intonata dall’Orchestra del Teatro Regio di Torino e forte di una carica inaudita nell’interpretare la famosa partitura. A dirigerla è Daniel Oren, che torna nel teatro torinese per la stagione 2018-19, a più di vent’anni dal suo esordio. Continua la lettura di Madama butterfly – La farfalla sospesa
La ballata di Johnny e Gill – Fausto Paravidino
Una linea sottile orizzontale, l’universo appiattito, come in un buco nero. L’assenza di tempo e spazio. Una visione dall’alto che è anche visione senza tempo, al di sopra di tutto, primigenia e pura. La fine e l’inizio del mondo. L’anima che si fa Assoluto. Con questi presupposti, lo spettacolo crea il mondo, mondo in cui la necessità, l’imperativo morale è la migrazione. Mondo in cui si erge incontrastata e solinga la torre di Babele, monito del peccato di ubris dell’uomo. Segno della dispersione dell’uomo, diviso in lingue diverse. Gli uomini tutti fratelli, ben presto si dispersero, chiusi nella loro incomunicabilità, divennero estranei. Ma al centro di tutto c’è sempre un uomo, un uomo qualunque non un santo: Abramo, a cui Dio, dà il compito terrificante di andare a conoscere gli altri uomini. Abramo lascia tutto e parte, non importa se spinto davvero da Dio, o semplicemente dall’impellenza o necessità di viaggiare e conoscere l’altro. Da qui ha origine la nostra civiltà, una civiltà di migrazione continua. La necessità di cambiare la propria condizione esistenziale e materiale verso una terra promessa.
“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria / e dalla casa di tuo padre / verso il paese che io ti indicherò”, il Signore ad Abramo.
Fausto Paravidino, il Dramaturg del Teatro Stabile di Torino, mette in scena in qualità di regista e sceneggiatore, oltre che attore, lo spettacolo La Ballata di Johnny e Gill. Uno spettacolo diverso da quelli in cui siamo soliti imbatterci, se bazzichiamo tra le sue opere. Non più i kitchen sink drama degli esordi, da qualche anno Fausto Paravidino fa del teatro diverso, un teatro sempre contemporaneo, che guarda all’attualità per abbracciare tutto quello che offre, quindi anche il suo passato, la Storia tutta. I Fenomeni che vediamo non sono nuovi, ma repliche di azioni che abbiamo già fatto anni addietro. E allora viene spontaneo partire dalla Bibbia, testo cardine della nostra civiltà, testo che ci culla di nascosto fino al contemporaneo.
Lo spettacolo è una fiaba di qualcosa che non capiamo, con cui non riusciamo a fare i conti. La storia è costruita per quadri, riuniti parzialmente da delle dissolvenze in nero. Johnny e Gill sono italiani, sebbene non lo si dica apertamente. Vendono il pesce, ma non sono soddisfatti della loro condizione. Johnny, dopo uno strano sogno con uomini mascherati, forse emissari del Signore o semplicemente incarnazioni dei suoi turbamenti interiori, prende la moglie Gill e l’amico Lucky e decide di andare via dalla sua terra. Attraversano diversi luoghi, emblema di tutte le migrazioni passate e future, luoghi che portano con sé i mali dell’uomo che non ha ancora accettato la diversità di Babele. Quindi il deserto con le sue carestie e i suoi predoni/terroristi, sciacalli perversi che spolpano la vittima lasciandola in agonia ad assaporare la sua vacanza spirituale tra la sabbia. I soldati corrotti, che invece si divertono a macerare ulteriormente questa carne sopravvissuta al deserto. E infine il mare, calma piatta di una tempesta in agguato. Sale, arsura, onde. Ma dov’è la terra promessa? Eccola! L’America, luogo della mente. Dove tutti sognano di andare. Paese dei Balocchi, dove i sogni saranno realtà. La massiccia immigrazione italiana in America in anni forse dimenticati di proposito, se si nota con quanto odio accogliamo oggi lo straniero. La xenia, l’ospitalità dell’antica Grecia. Era un dovere sacro per i greci ospitare chi chiedeva l’ospitalità. L’America che ci accoglieva, magari non per dovere, ma accoglieva. Cosa che oggi, pare, si sia persa nei meandri della storia, sia America come in Italia.
Johnny e Gill si scontrano con culture e lingue diverse , si sentono estranei. Gli attori nello spettacolo parlano inglese, francese e grammelot. La lingua può essere un ostacolo ma quando c’è volontà di capire, la si capisce. Dio ha punito gli uomini costringendoli a parlare diversamente, ma in questo spettacolo e sia all’esterno di esso, nel mondo delle migrazioni, c’è la necessità di ricongiungere quello che è stato diviso. Johnny e Gill, in questa nuova terra, fanno quello che sanno fare meglio: vendono il pesce. Incontrano il boss locale, ottengono il suo rispetto. Imbattersi nel boss locale, se si apre un’attività nella zona controllata da questo individuo, è un’usanza, un rito. Zeus proteggeva i viandanti, la xenia, Zeus Xenios. Ora a proteggerli c’è il Padrino. Nonostante gli imprevisti la loro attività avrà successo, ecco l’America che dà possibilità, il sogno americano. La loro vita scorre in parallelo a quella di Abramo: Gill/Sara non potrà avere figli e per questo tentano la strada dell’utero in affitto. Da Agar, la donna che si presta a ciò e che ha lo stesso nome anche della schiava di Abramo, nascerà il loro bambino, Ismaele. La gelosia tra Gill e Agar porterà all’allontanamento di questa e del bambino non riconosciuto. Spetterà ad un tassista vestito da Babbo Natale, annunciare la venuta di un bambino: “ Avrete un bambino, ma ricordatevi, donando la vita si dona la morte, il figlio sarà vostro ma non vi apparterrà: un giorno dovrete restituirlo”. Questo Dio camaleontico infonde speranza in ogni cosa. Ecco il bambino, ecco Isacco. Nella nostra epoca un sacrificio di un figlio come sarebbe possibile e visualizzabile? C’è sempre un sacrificio all’angolo della strada. La guerra, la patria che sacrifica i suoi figli, il figlio che torna allo zio Sam che lo richiede. La guerra in Iraq dopo gli attentati di Al-Qaeda, si presta ad inglobare i figli della terra. Ecco il sacrificio. Ma come Dio salva Isacco, anche il figlio di Johnny e Gill è salvo dalla guerra, così continueranno la loro vita in pace.
La guerra e le migrazioni sono fondamentali per capire il nostro tempo, per individuare il punto da sanare che è lì visibile e aspetta solo la cessazione di queste oscenità. Le persone scappano dalle guerre, dalla povertà, da condizioni esistenziali inaccettabili e ha il diritto di farlo, di migliorare la condizioni. Queste persone lasciano tutto per l’ignoto, per una fede in qualcosa che spesso idealizzano, il paradiso ci sarebbe, ma noi abbiamo deciso di chiuderlo, i porti sono chiusi. Noi abbiamo invece il dovere di accogliere, la xenia dovrebbe essere normale, la regola. Le migrazioni sono anche un fenomeno culturale, un fenomeno per ricongiungere i popoli, per riconoscersi attraverso le diversità. Questo lo spettacolo mette in scena con ironia beffarda e riso ammiccante. La fede, la necessità di poter cambiare di senso la torre di Babele, da monito di peccato a un peccato di ubris ancora maggiore, ma bello: la voglia di accogliere e comprendere il diverso. A noi non ci resta che avere fede nei pesciolini gialli: quando siamo tristi pensiamo a loro.
Emanuele Biganzoli
Testo e regia Fausto Paravidino
Ideazione Iris Fusetti e Fausto Paravidino
con Federico Brugnone, Iris Fusetti, Fatou Malsert, Daniele Natali, Tibor Ockenfels, Fausto Paravidino,
Aleph Viola
scene Yves Bernard
luci Pascal Noël
video Opificio Ciclope
costumi Arielle Chanty
maschere Stefano Ciammitti
musiche Enrico Melozzi
coreografia Giovanna Velardi
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
Le Liberté, scène nationale de Toulon, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Il Rossetti Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, La Criée – Théâtre National de Marseille, Pôle Arts de la Scène
Les Théâtres de la Ville de Luxembourg
Hans e Gret – Una fiaba per bambini grandi
Se ti allontani, ti avvicini
Se ti perdi, ti ritrovi
Solo nella dimensione della soglia.
Doris Cortez Villanueva
Lo spettatore non è più lo spettatore estetico che Nietzche rimpiangeva, da quando lo spettatore è diventato un occhialuto ed è diventato critico, lo spettatore dà giudizi non cerca il suo abbandono, non cerca questo smarrimento, che è aldilà della felicità è fuori dagli ismi, è fuori dal malessere è fuori dal pessimismo e dall’ottimismo è al di là, è da un’altra parte. Si fa i conti con altri pianeti e chissà quali, siamo dei significanti.
Carmelo Bene
Il bello di avere degli spettatori bambini è che loro ricercano ancora quello smarrimento, quell’abbandono, loro non criticano, loro si divertono o si annoiano. Loro non cercano un significato a tutti i costi, cercano un significante, sono rapiti dalla forma, sono degli esteti. La bellezza per un bambino quasi sempre è una questione di proporzioni, segue canoni classici, come la simmetria. La simmetria può essere anche dettata dalle parole, e le parole possono evocare luoghi o immaginari tanto chiari e precisi da essere significanti potenti. Ma la parola in Emma Dante non è mai il motore che muove l’azione, è più simile alla musica che fa muovere i corpi, è parola musicale che evoca un mondo “antico”, “esotico”, lontano nel tempo e nello spazio, il mondo di un dialetto reinventato. La parola è quasi sempre l’effetto e non la causa del movimento.
Lo spettacolo comincia con una scenografia semplice: sedioline di legno sistemate in maniera perfettamente simmetrica rispetto al centro della scena, che coincide con il centro dell’enorme palco vuoto. Non sono semplici oggetti di scena, ma individuano luoghi deputati. Così abbiamo il luogo dove si dorme, dove ci si lava, dove si va in bagno, dove si mangia. Avere nello stesso luogo, il “letto”, il “tavolo da pranzo” e il “water” introduce immediatamente il tema che ha spinto la regista a misurarsi con la nota fiaba dei fratelli Grimm: la povertà.
La povertà porterà il taglialegna a compiere il gesto “terribile e vile” dell’abbandono dei propri figli nel bosco, spinto dalla compagna/matrigna che in realtà è la vera strega della storia nella misura in cui è disposta a sacrificare, per la propria sopravvivenza, i “suoi” figli. Perché i figli sono di chi li cresce e non di chi li partorisce. Che li abbia cresciuti lei, lo si evince da una monotona routine che dura da sempre.
E in effetti, la casa della strega che ha gli stessi identici luoghi deputati della casa del taglialegna, realizzati con le stesse sedioline, nelle stesse posizioni, fa pensare che quella “vecchiaccia dalla vista corta”, come dice il testo stesso della strega, possa essere una sorta di doppio della matrigna anche lei “dalla vista corta”, nel senso di non essere riuscita, in maniera lungimirante, a vedere che quel gesto vile dell’abbandono di “due bocche da sfamare” non servirà comunque a salvarla. Del resto entrambe fanno la stessa scelta, quella di sacrificare i due piccoli per “sfamare” se stesse. Due donne (che in realtà sono una) accomunate dalla stessa sorte: la morte che arriva come beffa.
I malvagi vengono puniti con la loro stessa moneta, in una sorta di contrappasso “dantiano” più che “dantesco”.
Allora ecco l’identità delle due case, separate da un bosco fatto di “aiuole” colorate che terrorizza solo a parole e non nei fatti, nel senso che si dice “di aver paura”, ma in realtà nei fatti ci si affida e ci si fida del bosco tanto da permettere ai due bambini, nonostante siano appena stati abbandonati, di addormentarsi nel bosco. Abbandonati, si abbandonano a loro volta a una dimensione onirica dalla quale non sembrano svegliarsi mai del tutto. Un finto risveglio che mantiene nei connotati della magia, la meraviglia dell’onirico: i vestiti nuovi; la casa simile a quella delle origini ma diversa con la presenza di una figura femminile matrigna ma dai poteri sovrannaturali; l’abbondanza di cibo e di giochi, legati all’immaginario dei sogni che si realizzano.
Il bosco come luogo delle meraviglie, meraviglie mostruose, dove accadono “abbindolamenti” e tradimenti che in qualche modo servono a crescere e che evocano in quelle sfere colorate che scendono dal cielo, che segnano un cammino, i colori e le fattezze di quella casetta di zucchero e marzapane che non vedremo mai, se non nei nostri sogni.
L’immagine quindi del davanzale iniziale, evocato dalla perfezione di quella linea retta creata dalle braccia dei protagonisti è un immagine potente, estremamente evocativa, che rappresenta la vera soglia. La soglia del sogno, dell’immaginazione, del bosco. Allora forse quel bosco è davvero l’aiuola del giardino o del cortile di casa dove i bambini vengono “abbandonati” ai loro giochi e ai loro sogni per far dimenticare loro l’ora del pranzo e della cena e richiamati a rientrare a sera solo per dormire.
Allora quel davanzale è davvero la soglia fra il dentro e il fuori di sè. E’ la finestra che permette ai vari personaggi di vedere dentro quello che ognuno è e ha. La matrigna vede un carrubbo che non fiorirà mai, Hans e Gret la “possibilità” di trovare soluzioni, in una possibile fioritura, nel possibile passaggio di animali da mangiare, il padre vede un cielo azzurro dietro le nubi, la speranza di una redenzione.
Personaggi “gommosi” che ricordano i cartoons di una volta, con le loro smorfie buffe e i loro eccessi, nei sentimenti e nelle azioni. Si pensi alla matrigna e alle sue smorfie facciali o al modo sincopato di mangiare dei ragazzi quando arrivano nella casa della strega, al fuoco e al lancio dei giocattoli, scene “esagerate” da cartone animato.
Il davanzale è anche il luogo del ripensamento, è il luogo dal quale verrà evocato, più che la moglie morta, l’immancabile abito da sposa, che se non fosse una citazione alla poetica di Dante risulterebbe persin troppo didascalico, e se non fosse poetico risulterebbe persin troppo patetico.
Ma se la finestra è la “soglia”, di una potenza e di una bellezza tale da rimanerne incantati, perché tradirla con dei sassolini che non servono davvero alla scena? Nel momento in cui i bambini staccano i gomiti che segnavano il davanzale per raccogliere a un’altezza diversa dal davanzale i sassolini che come essi dicono dovrebbero essere su quello stesso davanzale “tradito”, l’incanto si spezza, si rivela la finzione, la soglia sparisce. E’ lì, e non quando i personaggi si rivolgono con degli assoli al pubblico, che si abbatte davvero “la quarta parete”. Peccato perdere la potenza di quell’illusione. Ma forse è voluto, perché del resto “Il carrubo fiorirà” come cantano tutti insieme, con quel motivetto tanto orecchiabile che ricorda i canti parrocchiali, una rediviva matrigna e una rediviva strega, anche la morte è una finzione.
Ma questo è un pensiero da grandi. Ai bambini lo spettacolo piace e rimane impresso probabilmente per quella simmetria. Il centro del palco, sottolineato spesso anche da un cerchio fatto con le sedioline, è il centro della scena, il luogo dove accadono le cose. Dove si raduna la famiglia per mangiare, o meglio non mangiare, dove si addormentano Hans e Gret nel bosco, dove viene imprigionato Hans per farlo ingrassare. Il centro del palco è la meta dove far atterrare i giocattoli lanciati da dietro le quinte per ricreare la stanza dei giochi nella casa della strega, il fulcro dal quale si diramano le fiamme del forno, in un balletto perfettamente simmetrico. La simmetria ritorna in quelle linee parallele delle “aiuole/bosco” che seguono il centro come punto di fuga prospettica. Simmetrico e perfettamente centrato è il davanzale della finestra formato dai gomiti dei personaggi agli estremi del quale troviamo Hans e Gret vestiti in maniera identica, simmetrica.
Uno spettacolo per tutti quegli adulti ai quali, come a Emma Dante da bambina, nessuno raccontava le fiabe, per sentirsele raccontare in carne e ossa dai personaggi. E per tutti quei bambini “grandi” che avrebbero capito anche con meno didascalie, ma che rimangono comunque ammaliati dalle simmetrie, dai colori e dalla musica di uno straordinario pifferaio magico come Emma Dante.
HANS E GRET
Scritto e diretto da Emma Dante
Con Manuela Boncaldo, Salvatore Cannova, Clara De Rose, Nunzia Lo Presti e Lorenzo Randazzo
Scene Carmine Maringola
Costumi Emma Dante
Luci Cristian Zucaro
Assistente alla regia Claudio Zappalà
Assistente di produzione Daniela Gusmano
Tecnico audio e luci Agostino Nardella
Una produzione Fondazione TRG Onlus
a cura di Nina Margeri
TUTTA CASA, LETTO E CHIESA!
Tutta casa, letto e chiesa è uno spettacolo scritto da Franca Rame e Dario Fo.
Nessuno più di Franca Rame sarebbe stata adatta a descrivere la condizione femminile ed in particolare le servitù sessuali della donna: nel 1973 la Rame fu infatti rapita, stuprata e picchiata per ore. Uno stupro “punitivo ” dovuto al suo impegno sociale e civile nonchè una vendetta dei neofascisti nei confonti del suo compagno di vita.
A partire dal 1975 la Rame ricorre all’analisi teatrale: non sul lettino di uno psichiatra ma davanti al pubblico, portando in scena il monologo Lo Stupro e raccontando senza remore l’accaduto.
Nel 1977 il debutto di Tutta casa, letto e chiesa alla Palazzina Liberty di Milano.
Oltre quarant’anni anni dopo, figure di donne pensate e messe in scena negli anni Settanta vengono interpretate da Valentina Lodovini con parole che sanno essere più attuali che mai. L’attrice recita sola sul palco, accompagnata da continui giochi di luce, rivolgendosi indirettamente al pubblico tramite un dialogo immaginario che avviene talvolta col marito e talvolta con una vicina. La presenza dell’uomo incombe per tutta la rappresentazione, pur essendoci in scena unicamente una donna.
Il pubblico è partecipe, ride e si appassiona alla vicenda, ma spesso si crea un silenzio quasi irreale. Tra le pieghe di un testo comico, sarcastico e graffiante si nascondono infatti problematiche, richieste di aiuto e domande senza risposta, che emergono in maniera quasi inevitabile tramite le parole della protagonista. Lo spettacolo, suddiviso principalmente in tre parti , ci presenta alcune situazioni tramite un’ironia amara e tagliente sapientemente espressa dalla Lodovini.
Nel primo monologo, Una donna sola, la protagonista interpreta una casalinga, dolcemente svampita, che si ritrova chiusa fra le mura domestiche avendo apparentemente tutto, meno che l’amore e la considerazione del marito. E’ madre, domestica, moglie impeccabile, ma non donna. Un’eterna bambina intrappolta in una realtà che non le appartiene.
Abbiamo tutte la stessa storia è invece la rappresentazione di un rapporto erotico in cui la donna è adoperata come mero oggetto sessuale. Non ha possibilità di scelta, se non quella di sottostare ai desideri del proprio uomo.
Nel terzo brano, Il risveglio, l’attrice interpreta una donna operaia stremata, ai limiti dell’alienazione, sfruttata in casa, in fabbrica e a letto. Attraverso la ricerca delle chiavi di casa smarrite ripercorre la sua intera giornata mostrandoci così la sua profonda malinconia.
L’epilogo è affidato ad una Alice, in un paese che ha perduto le sue meraviglie, quasi a volerci risvegliare da un sogno.La Lodovini (seppur molto lontana dalla Rame) è riuscita, forse anche grazie all’antitesi tra fisicità e personalità, a portare in scena con disinvoltura parole che celano il loro spessore dietro una vena comica e talora grottesca.
Al termine dello spettacolo ho avuto il piacere di poter chiacchierare con la protagonista: mi ha rivelato che il testo non è stato in alcun modo modificato, ad eccezione di alcuni tagli necessari e qualche sostituzione (per esempio “euro” al posto di “lira”).
Le modifiche apportate non riguardano però in alcun modo i personaggi delle donne create dalla Rame: questo ci permette di constatare, a malincuore, quanto queste circostanze siano attuali, quanto ancora oggi le donne si ritovino in situazioni analoghe e quanta sia quindi ancora la strada da percorrere.
Ilaria Stigliano
Produttore: Pierfrancesco Pisani, Parmaconcerti
Regista: Sandro Mabellini
Luci: Alessandro Barbieri
Scenografia: Chiara Amaltea Chiarelli
Autore: Dario Fo, Franca Rame
Protagonista: Valentina Lodovini
produzione: TPE, Teatro Piemonte Europa