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I Lombardi alla prima crociata del Teatro Regio

I Lombardi alla Prima Crociata, opera giovanile di Verdi, è in scena al Teatro Regio di Torino dal 17 al 28 aprile. Considerata emblema del melodramma primo-ottocentesco, intrisa di valori risorgimentali, l’opera debuttò al Teatro Alla Scala di Milano l’11 febbraio del 1843, un anno dopo lo strepitoso successo del Nabucco.

La regia di Stefano Mazzonis di Pralafera è nata nel marzo del 2017 per Jérusalem, in coproduzione con l’Opéra Royal de Wallonie-Liège, ma presenta qui la doverosa aggiunta del fondale iniziale raffigurante la piazza milanese di Sant’Ambrogio. Fedele all’impianto tradizionale, l’allestimento si costituisce di numerosi quadri, poco coreografati, decorati con scenografie classiche e costumi non troppo appariscenti, né anacronistici. Unica sperimentazione il breve video nell’interludio del quarto atto, a rappresentazione della battaglia fra crociati e musulmani. La musica di scena, sulle vecchie immagini in bianco e nero, spezza la recita con un pizzico di modernità.

Alla prima tra il numeroso pubblico figuravano diversi volti dell’élite torinese oltre ad esperti del settore. In seguito all’annuncio che il tenore Gabriele Mangione avrebbe sostituito Giuseppe Gipali nel ruolo di Arvino, un inaspettato gracchiare di microfoni ha divertito la sala e preoccupato il fonico che prima di risolvere il problema ha dovuto dire a gran voce al direttore d’orchestra: “Michele aspetta”. Risolto il guasto, l’opera ha potuto svolgersi piacevolmente sotto la direzione di Michele Mariotti, al suo debutto ne I Lombardi. Nel ruolo di protagonisti il basso-baritono Alex Esposito (Pagano), il soprano Angela Meade (Giselda), il tenore Francesco Meli (Oronte)e il basso Antonio Di Matteo (Pirro). Notevole l’interpretazione del celebre assolo di violino a sipario chiuso nel preludio del terzo atto. Meritati inoltre gli applausi per il Coro del Teatro Regio i cui unisoni delicati, puntuali e dinamicamente ben regolati sono il vero e proprio corpo portante dell’opera.

Nonostante il libretto di Temistocle Solera presenti una certa confusione drammaturgica, con quel groviglio di eventi che si succedono frettolosamente, la partitura verdiana già rivela la grandezza del compositore. La firma di Verdi basta a giustificare la ripresa di un’opera di per sé minore o la scelta va cercata in altri motivi, non solo artistici? La linea ideologica del soggetto è chiara a tutti: la lotta dei cristiani contro i musulmani nella prima crociata, terminata nel 1099 con la presa di Gerusalemme. Al tema della gelosia scatenata dall’amore e della redenzione del personaggio malvagio si accompagna la celebrazione dell’invasione nostrana in terra d’oriente, che termina fra le esultazioni patriottiche di un popolo fiero di aver conquistato la terra promessa. Riconosciamo che sarebbe tuttavia limitante rinunciare a una creazione del genere per via dei tempi che corrono. La scelta del regista è stata di concludere con le due parti che si abbracciano e cantano insieme. Al di là delle scelte di messa in scena, è una grande possibilità dell’opera lirica quella di farci vedere la realtà con una maggiore coscienza storica, anche quando si presenta nei suoi aspetti più controversi.

Recensione di Tobia Rossetti e Marida Bruson

ARTE La verità di una tela bianca

Al Teatro Gobetti di Torino, giovedì 15 e venerdì 16 marzo, è andato in scena Arte della drammaturga francese Yasmina Reza, diretto dalla regista esordiente Alba Maria Porto e tappa conclusiva del progetto “Arte: Dialoghi in Contemporanea”.

Serge, Marc e Yvan – interpretati rispettivamente da Christian La Rosa, Elio D’Alessandro e Mauro Bernardi – sono tre giovani che si conoscono dai tempi della scuola, che hanno condiviso scelte e gusti, ma che si sono allontanati in età adulta, separati da differenti obiettivi e sensibilità. La storia comincia quando Serge acquista per 200.000 euro un quadro totalmente bianco, gesto che provoca ilarità, ma anche sgomento nei due amici, specialmente in Marc. La loro amicizia è messa a dura prova da quelle che, all’apparenza, sembrano semplici divergenze d’opinione, ma che, con il progredire dello spettacolo, trovano ragioni più profonde. I tre personaggi inevitabilmente s’interrogano sul senso del loro rapporto, su un’amicizia che sembra basarsi solo sul ricordo del legame che li univa nel tempo lontano della scuola, e che ora si ritrovano perché Yvan ha chiesto agli amici di un tempo di essere i testimoni alle sue nozze, programmate per il giorno dopo.

L’immagine chiave del testo è quella del labirinto, in cui discussioni che sembrano sul punto di spegnersi vengono riaperte e rilanciate, in un ribaltamento continuo del punto di vista. A differenza di Il dio del massacro (diventato un successo internazionale grazie alla versione cinematografica diretta da Roman Polanski intitolata Carnage), Arte osserva i personaggi sotto una luce più marcatamente ironica, intrecciando momenti di riflessione e situazioni apertamente comiche. Sia per l’efficacia del testo, sia grazie agli interpreti, che si dimostrano in grado di cambiare pelle e adattare i toni e i sentimenti alle situazioni, lo spettacolo procede senza fare mai cadere la tensione, tenendo viva l’attenzione fino al momento finale.

Il labirinto trova il suo centro (che apre e chiude la pièce) nel dipinto.

La tela bianca, o meglio il concetto di arte che essa rappresenta, è il pretesto per far emergere le relazioni, le aspettative disattese, le illusioni, i diversi ego che cercano di imporsi sugli altri, le prese di posizione rispetto alle cose che accadono. La questione del punto di vista è resa dalla regista attraverso una scelta minimalista e austera per quanto riguarda scene e costumi. Tutto ciò che è in scena ha un valore. Gli abiti permettono allo spettatore di cogliere fin da subito l’indole dei personaggi. Yvan è l’unico dei tre che non presenta un colore dominante e il cui abbigliamento, abbastanza sciatto, segnala la scarsa capacità di gestire la propria vita e di avere una opinione propria, indipendente da quella degli amici. Serge, invece, ha un aspetto più raffinato, da artista, veste – in accordo con il suo dipinto – con tonalità chiare, che alludono a una sorta d’innocenza e a un ottimismo quasi infantile. Infine, Marc indossa un completo nero e una camicia viola scuro che rispecchia il suo atteggiamento nichilista e non di rado sarcastico. L’abitazione in cui si svolge la vicenda è allusa mediante un’impalcatura di luci al neon, scelta calzante per evitare soluzioni naturalistiche e valorizzare al massimo la parola del testo e l’interpretazione degli attori.

Come i tre personaggi che vedono nella provocazione del dipinto verità diverse, gli spettatori sono messi a loro volta di fronte al quadro bianco per trarne una verità, non assoluta, ma valida per loro. Poiché, parafrasando Herman Hesse, “di una storia è vero solo quello che lo spettatore crede”.

Riccardo Ezzu

Arte 

di Yasmina Reza

nuova traduzione Luca Scarlini

con Mauro Bernardi, Elio D’Alessandro, Christian La Rosa

regia Alba Maria Porto

scene e costumi Lucia Giorgio

in collaborazione con gli allievi dell’Accademia Albertina di Belle Arti

musiche originali Elio D’Alessandro

progetto video Indyca

un progetto di Alba Maria Porto, Annalisa Greco, Claretta Caroppo

in collaborazione con Il Mulino di Amleto, Tedacà

e con ERT per la residenza a Villa Pini

partner The Others Art Fair, Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, Brevidistanze

si ringraziano l’autrice Yasmina Reza

e Dominique Christophe Laboratorio Artistico Pietra

realizzato con il contributo della Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “ORA! Linguaggi contemporanei, produzioni innovative”

Bravo bravissimo! Al Regio l’inarrestabile vitalità di Rossini.

In occasione dell’anno rossiniano torna l’allestimento de Il barbiere di Siviglia creato nel 2007 dal Teatro Regio di Torino e più volte ripreso fino a diventare un piccolo classico. Le quattro recite (16, 20, 23 e 25 marzo) hanno registrato il tutto esaurito.

Il regista Vittorio Borelli restituisce la vocazione all’allegria propria di quest’opera, che Verdi definì «la più bella opera buffa che esista». La semplicità della regia se forse appiattisce la drammaturgia musicale di Rossini e Sterbini, che avevano sostituito all’incontenibile risata di Paisiello un sorriso divertito e malizioso, ha certo il merito di evidenziare i nodi essenziali della vicenda e di divertire il pubblico. Merito, quest’ultimo, da non sottovalutare.

Nel Rossini comico lo scavo psicologico è del tutto assente e sarebbe inutile e fuorviante andare a cercarlo. Il motore è l’ingegno, non necessariamente messo a servizio dei buoni sentimenti, e il propellente è il ritmo. Si pensi ai celeberrimi crescendo e ai magnifici concertati d’insieme: l’individualità dei personaggi è trascesa nell’effervescenza di un meccanismo ingegnoso descritto cronometricamente dalla pulsazione.

La direzione di Alessandro De Marchi trasmette, senza esagerazioni, il piacere del suono e del ritmo, la gioia che si sprigiona dalla partitura rossiniana.

Al godimento della vicenda ben si prestano i semplici parati lignei dipinti mossi a vista a definire gli ambienti della scena, a cura di Claudia Boasso, e i costumi di gusto andaluso di Luisa Spinatelli.

I cantanti si fanno apprezzare per la loro vis comica, in particolare Simone Del Savio nei panni di Don Bartolo e Carlo Lepore in quelli di Don Basilio.

Il giovane baritono Davide Luciano interpreta il barbiere factotum facendosi apprezzare, con il suo timbro scuro e caldo, sia per l’effervescenza, sia per il controllo dell’esecuzione.

Il tenore Francesco Marsiglia nel ruolo di Almaviva è capace di restituire i passi che richiedono particolare agilità, così come i momenti più lirici.

In questa versione è presente l’aria Cessa di più resistere, spesso tagliata perché considerata inutile al dramma. Lungi dall’essere una mera esibizione vocale, questo rondò con coro porta a compimento l’azione e riconsegna al personaggio del conte l’importanza che doveva avere per Rossini e Sterbini. Si ricorda che l’opera debuttò al Teatro Argentina di Roma nel 1816 con il titolo Almaviva, o sia l’inutile precauzione e nel ruolo del protagonista c’era la star Manuel García.

Ad ogni modo, che si ponga l’attenzione sull’élan vital di Figaro come celebrazione della nuova borghesia o se, al contrario, si riconosca nella vittoria di Almaviva un atto da Ancien Régime, tutt’altro che progressista, l’essenziale è l’aspetto ludico. Benvenuti, allora, quegli allestimenti non oscurati da improbabili echi di ghigliottine.

Gli applausi scroscianti del pubblico affermano, ancora una volta, l’importanza del gioco e del riso, elementi fondamentali del nostro vivere.

Marco Cavallo per i 40 anni della Legge Basaglia

Il secondo appuntamento della rassegna Quello che tutti chiamavano manicomio, promossa da Lavanderia a Vapore, Fondazione Piemonte dal Vivo, Regione Piemonte e Comune di Collegno in occasione del quarantennale della Legge Basaglia, ha ospitato il 7 Marzo sul palco della Lavanderia La storia di Marco Cavallo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Selve. La regia è di Franco Acquaviva, che è anche l’attore solista presente sulla scena, e l’aiuto alla regia è di Anna Olivero.

All’interno della cornice della rassegna occorre mettere in luce lo spirito col quale nasce il Teatro delle Selve: fondato nel 1998 da Franco Acquaviva e Anna Olivero, si impegna a promuovere una idea di cultura teatrale in grado di valorizzare le relazioni tra l’ambiente e la memoria che lo abita. Appare chiara l’aderenza rispetto al tema proposto dall’iniziativa e al luogo dello spettacolo: l’attuale Lavanderia a Vapore nasce infatti dalla ristrutturazione di quelle che erano le originarie lavanderie del manicomio di Collegno (questo l’ambiente) ed entra in pieno contatto con il tema proposto, volto a ricordare e riattualizzare il problema dell’esclusione sociale (questa la memoria collettiva). Come ci ricorda lo stesso regista infatti lo spettacolo “appare necessario oggi che molte delle conquiste sociali e civili di quegli anni sono messe in discussione” e la sua idea nasce principalmente da un bisogno di dialogo e di apertura sociale.

La storia di Marco Cavallo parla di quella che fu la prima esperienza di animazione teatrale condotta all’interno di un manicomio. Nel 1973 a Trieste, su idea di Franco Basaglia, un gruppo eterogeneo di persone (fra cui pittori, registi, insegnanti, scrittori, fotografi, animatori) decise di mettere a disposizione la propria professionalità per cercare un nuovo modo di stare insieme e modificare la realtà ancora chiusa e crudele del manicomio. Attraverso la creazione di un grande cavallo di legno e cartapesta dal colore azzurro, simbolo della gioia di vivere, e dalla pancia simbolicamente piena dei desideri di tutti i pazienti, l’esperienza aprì il manicomio alla città e contribuì a cambiare il modo di essere del teatro e della cura. Portata a termine la costruzione del cavallo venne infatti organizzata una grande parata per le vie di Trieste e il quadrupede di cartapesta divenne immediatamente il simbolo per eccellenza della liberazione manicomiale.

Il testo di Franco Acquaviva nasce dalla convergenza di diverse fonti rielaborate all’interno di una cornice drammaturgica creata specificamente per lo spettacolo. Marco Cavallo, il testo a cura di Giuliano Scabia, uno dei maggiori protagonisti dell’azione teatrale del ’73, è l’opera di riferimento, alla quale si aggiungono frammenti di altri testi che disegnano una situazione di teatro nel teatro con tre personaggi e diverse figure minori. Un teatro di narrazione, quello che il regista ci propone, attraverso una e-vocazione (più che una ri-evocazione) dell’atmosfera, delle idee e delle difficoltà proprie di quell’esperienza. L’attore, attraverso la forza della sua fisicità, crea un ricco tessuto di voci che dialogano nel corso della vicenda seguendo un ritmo sempre sostenuto, mai scontato. Il tutto prende avvio da un personaggio che ricorda un’esperienza risalente agli anni universitari, nei quali fu mandato a Trieste dal suo professore di Storia del teatro, nel manicomio quasi dismesso della città. Il suo compito era intervistare il responsabile di un laboratorio teatrale che si sarebbe realizzato nei padiglioni coi pazienti, ma inaspettatamente si ritrovò ad essere parte attiva dello spettacolo, dedicato appunto a Marco Cavallo.

Alle curiosità, ingenuità e resistenze del ragazzo si intrecciano il racconto dell’esperienza storica e le manie bizzarre e divertenti della compagnia dei matti. Nel reparto P troviamo un teatro partecipato, sudato, vissuto in comunità, “un gioco che però impegna”, nel quale i malati riescono a vedere un’attività libera, in cui poter fare ciò che desiderano. Lo studente, inizialmente scettico e dubbioso riguardo all’utilità dell’esperienza, grazie alla sua prolungata permanenza e al dialogo creato a mano a mano con la realtà che lo avvolge, riesce a comprenderne il valore, superando la crisi nata in lui in seguito all’uscita dall’ambiente universitario. Il ragazzo fa così ritorno dal professore senza aver compiuto l’intervista, ma portando con sé una diversa consapevolezza. L’attenzione portata dal regista sui muri interni alla mente dello studente ne è solo un esempio. Muri che, inoltre, ci riportano con un tuffo spontaneo nel presente, ai tanti muri, reali o simbolici, che la contemporaneità continua ad erigere nei confronti dell’altro. Uno spettacolo che, pur portando in scena un’esperienza passata, si dimostra nei suoi contenuti quanto mai attuale, rivolgendosi ad un pubblico appositamente composto da studenti liceali e universitari.

L’autore ci lascia con un messaggio: “la follia è un modo per uscire da se stessi”. Il teatro può rappresentare questa via, laddove esso non è semplicemente vita, ma “vita più follia”. Follia che deve essere insegnata a tutti perché è elemento positivo della vita, come l’acqua e il fuoco.

Si ricorda infine che il 19 marzo si è tenuto un prezioso incontro pubblico organizzato da Fondazione Piemonte dal Vivo e Lavanderia a Vapore presso il Polo del ‘900, nel quale sono intervenute importanti figure: Giuliano Scabia, Peppe dell’Acqua, Renato Sarti e Massimo Cirri. La riunione ha voluto rievocare il clima e le esperienze di quegli anni unitamente alla storia di Franco Basaglia per coinvolgere il pubblico in una riflessione partecipata sulla psichiatria.

 

recensione di Linda Casoli

La storia di Marco Cavallo

di e con Franco Acquaviva

aiuto regia Anna Olivero

produzione Teatro delle Selve 2014

con il patrocinio e il sostegno di: Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal vivo – Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo di Torino, Comune di San Maurizio d’Opaglio, Compagnia di San Paolo

 

Orfeo: il mito alle origini del teatro d’opera

L’Orfeo di Monteverdi andò in scena la prima volta nel palazzo Ducale di Mantova il 24 febbraio 1607. Se esso sia o meno considerabile dalla storiografia il primo esempio ufficiale di teatro musicale è una questione che tutt’ora fa dibattere i musicologi. Tecnicamente il primo melodramma fu l’Euridice di Peri e Rinuccini, rappresentato a Palazzo Pitti, a Firenze, il 6 ottobre 1600, a cui probabilmente Monteverdi assistette. Sicuramente l’opera monteverdiana è la più antica ancora presente nei cartelloni delle stagioni liriche.

Ricordiamo che alla corte dei Gonzaga fu invitato un ristretto numero di cortigiani. Il fatto che a distanza di quattro secoli il pubblico contemporaneo continui ad applaudire la creazione mantovana è indicativo dell’appeal che ancora esercita sui suoi fans. Forse in virtù dell’ordine armonioso che Monteverdi e Striggio infondono ad un’articolazione drammatica in cui si mescolano echi classicheggianti, gusto pastorale e vari effetti scenici.

Arduo è per gli stessi musicologi decretarne un’appartenenza certa allo stile barocco o a quello rinascimentale. A detta di Alessio Pizzech, regista della versione in scena al Teatro Regio di Torino dal 13 al 21 marzo, l’opera sarebbe musicalmente già barocca, ma drammaturgicamente ancora rinascimentale. Il soggetto infatti, ispirato al mito greco, è trattato in chiave profondamente filo-umanista: l’uomo alle prese con la necessaria comprensione dell’irreversibilità della morte.

A riflettere sulla propria condizione, amorosa prima e tragica poi, è il protagonista Orfeo, interpretato dall’eccellente baritono Mauro Borgioni, con un timbro appropriato, sempre comprensibile e un’interpretazione sentita.

La rappresentazione si inserisce nell’ambito del Progetto Opera Barocca. L’orchestra e il Coro del Teatro Regio sono affiancati dall’Ensemble strumentale La Pifarescha.

Dispiace che l’esecuzione sia stata disturbata da alcuni rumori, come quelli delle moquettes erbose, goffamente trascinate via nel bel mezzo dell’aria della Messaggera, interpretata dall’intensa Monica Bacelli.

Il bellissimo trompe l’oeil da studiolo umanista di corte che ospita scenograficamente la vicenda ha forse qualcosa a che fare con un certo inganno visivo, filo conduttore di questa resa dell’Orfeo. Esso viene rappresentato con immagini suadenti, attraverso coreografie sensuali, costumi di gusto kitsch (Caronte Aquaman, Apollo dorato con cetra al neon, becchini di Al Capone che trasportano il cadavere di Euridice), scenografie più barocche del barocco e quantità esageratamente fastose di persone in scena (non sempre coordinate tra loro) e di fantastici oggetti mobili.

Il palco inclinato è metaforicamente aggressivo, un’immagine aggettante verso lo sguardo inerme e goduto dello spettatore. Una regia consapevolmente provocatoria o semplicemente dettata dalle ineludibili tendenze attualizzanti che investono il mondo dell’opera?

Tobia Rossetti e Marida Bruson

IL BALLO

Un’attrice, 5 voci, tanti specchi.

Sonia Bergamasco porta sulla scena del Teatro Gobetti una favola nera di Irène Némirovsky, scrittrice francese di origine ebraica vittima dell’olocausto.

E’ la storia di Antoniette, una ragazzina quattordicenne, figlia di ebrei arricchiti, trascurata da una madre troppo narcisista ed egoista per preoccuparsi di lei.

Finalmente la madre ha ottenuto la ricchezza tanto desiderata e può permettersi di dare il primo ballo, che le aprirà le porte al suo debutto in società. Ma Antoinette viene esclusa: non può parteciparvi, e tanto meno rivolgere la parola a qualcuno. Chiusa in camera. Quello è il suo posto.

La ragazza allora compie il suo atto di vendetta: in un attimo d’ira getta nel fiume gli inviti, così che nessun nobile lo riceverà mai.

E’ il giorno del ballo: il tavolo è imbandito con pietanze di ogni tipo, la sala addobbata a festa, l’orchestra pronta per suonare. Ogni cosa è predisposta per accogliere la più alta società.

Ma non arriva nessuno. Solo la vecchia cugina, presenza non gradita dalla madre, ha ricevuto il biglietto a mano, e si trova ad essere partecipe di quest’immensa umiliazione.

Di fronte alla disperazione, la figlia, col viso nascosto tra le braccia della madre in lacrime, ride. La vendetta è stata compiuta.

Sonia Bergamasco porta in scena con un’interpretazione magistrale il racconto in tutta la sua spietatezza, dando voce ai 5 protagonisti: Antoinette, la madre, il padre, l’educatrice e la vecchia cugina.

Come scrive la stessa Bergamasco è una storia “di vendetta e di disamore; (..) il teatro di un bambino solo che costruisce il suo mondo, perchè il mondo conosciuto (quello degli adulti) non è bello e non gli piace”

Ed è questo che noi vediamo: una figura esile e bianca, che si muove sola, in un palcoscenico pieno di specchi, in cui si è costretti a guardare e guardarsi: in cui madre e figlia sono costrette a rispecchiarsi.

Ma la storia di Antoinette è molto più di questo: “è l’arma di vendetta di una scrittrice che sempre, in ogni sua opera, ricorda e non perdona. La scrittura come arma, scoperta molto presto da Irène, proprio contro quella famiglia, quella madre che non aveva saputo amarla.”

Lara Barzon

Racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco
liberamente ispirato a 
Il ballo di Irène Némirovsky
disegno luci Cesare Accetta
scena Barbara Petrecca
costume di scena Giovanna Buzzi
Teatro Franco Parenti / Sonia Bergamasco

Mistero Buffo: capolavoro intoccabile?

La nuova versione di Mistero Buffo con l’interpretazione di Matthias Martelli e la regia di Eugenio Allegri (coproduzione del Teatro Stabile di Torino e del Teatro della Caduta) è andata in scena dal 6 al 18 febbraio alle Fonderie Limone di Moncalieri.

Dario Fo è Dario Fo. Mistero Buffo è un capolavoro intramontabile,

ma è davvero intoccabile?

Riportarlo sulla scena è un’impresa. Matthias Martelli ci riesce. Vince gli sguardi diffidenti degli spettatori, dapprima un po’ freddi e timorosi, ma che si scaldano in fretta con grasse risate di fronte alle esilaranti giullarate. Il palcoscenico è totalmente spoglio, l’attore solo in scena e in abito neutro alla maniera del Maestro e gli episodi estrapolati sono riproposti tali e quali a livello testuale, con quel tipico miscuglio di linguaggi dialettali, volgari antichi e latinismi, perfettamente comprensibili.

Matthias Martelli in Mistero Buffo

Fa piacere vedere un pubblico vario, che unisce più generazioni, dai più anziani, ai bambini. Martelli si aggira tra la gente ancora prima che lo spettacolo inizi, aspettando l’ingresso di tutti gli spettatori, mentre sul fondale vengono proiettate una serie di fotografie che riportano agli anni Settanta (da immagini di programmi Rai a scatti delle stragi degli anni di piombo) periodo in cui Mistero Buffo, a partire dal ’69, ha fatto innumerevoli repliche in Italia e non solo.

Gli intermezzi tra un episodio e l’altro, invece, sono attualizzati. Ogni episodio è preceduto dalla tipica chiacchierata col pubblico, che ne introduce l’argomento, talvolta con l’aiuto di immagini, affreschi e dipinti, che rientrano nella tradizione iconografica medievale; inevitabilmente questi momenti di dialogo sono stati contestualizzati nei giorni nostri, con accenni di satira ad argomenti di attualità.

Quattro i misteri scelti:

-Le Nozze di Cana
-La resurrezione di Lazzaro
-Bonifacio VIII
-Il primo miracolo di Gesù bambino

Lo spettacolo si apre e si chiude con un omaggio a Dario Fo e Franca Rame: una loro fotografia insieme.

La decisione di Eugenio Allegri, di comune accordo con il giovane attore, è stata quella di far continuare a vivere Mistero Buffo in maniera fedele e rispettosa dell’originale, ma facendone al contempo un’interpretazione il più personale possibile. Sono partiti dalle basi su cui si è fondato il lavoro scenico di Fo, tutte componenti affini al retaggio artistico di regista e interprete: la dialettica tra corpo-suono, in cui convivono linguaggio corporeo e gestualità vocalica, attraverso gli studi sulla Commedia dell’Arte e i principi di teatro fisico e vocale del mimo francese Jacques Lecoq. Matthias Martelli, ben consapevole di avere una fisicità e un’espressività diversa dal Maestro, porta avanti un lavoro personale sulla comicità, già maturato con le numerose repliche del suo Mercante di Monologhi, che gli ha permesso di indagare e scoprire meglio le proprie possibilità espressive.

 Allegri e Martelli si sono buttati a capofitto in questo rischioso progetto già nel 2016, chiedendo il permesso a Dario Fo. Gli hanno inviato il video di un estratto (l’episodio di Bonifacio VIII) e lui ha dato la sua approvazione il 3 ottobre, dieci giorni prima di venire a mancare.
D’altronde sarebbe stato un peccato non poter più godere dell’opera di Fo e vederla spegnersi con lui, irrigidita sulle pagine di un libro, che invece contengono una materia così viva ed esplosiva sul palcoscenico. Mistero Buffo merita di continuare a divertire e arricchire un pubblico oggi bisognoso, forse più che mai, di ridere mettendo in moto cuore e cervello.

Alessandra Minchillo


Mistero Buffo

6 -18 febbraio 2018 – Fonderie Limone

di Dario Fo
con Matthias Martelli
regia di Eugenio Allegri
aiuto regia Alessia Donadio
luci e fonica Alessandro Bigatti
tecnico video Loris Spanu
coach fisico Francesca Garrone
management Serena Guidelli

coproduzione Teatro Stabile di Torino – Teatro della Caduta

in collaborazione con Teatro Fonderia Leopolda e Comune di Follonica
con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

“Il Padre”di Strindberg va al tappeto

Gabriele Lavia ha diretto e interpretato al Teatro Carignano di Torino, Il Padre, un dramma del 1887 dello scrittore svedese Johan August Strindberg, amato e definito da Nietzsche «un capolavoro di dura psicologia». I valori universali di questo testo hanno invitato l’attore a portarlo in scena per la terza volta. Nel dialogo di Retroscena con il professore Franco Perrelli che si è tenuto al Teatro Gobetti nel febbraio scorso Lavia ha spiegato:

«Non volevo fare Il Padre, ma tutti i pezzi che sceglievo costavano troppo. È un vecchio gioco tra me e le mie produzioni. La mia prima scelta era Il Temporale, poi ho tirato fuori dal cappello Il Padre perché sapevo che non avrebbero potuto dirmi di no».

Le sue tre versioni sono molto diverse tra loro: la prima era molto moderna, tutto si svolgeva in una gabbia di quattro metri per quattro e gli attori erano completamente nudi; la seconda si caratterizzava per la scenografia e uno specchio nel quale il padre si rifletteva; in questa terza versione l’essenza della scenografia è duplice: impreziosita dal velluto rosso del divano e delle poltrone, delle tende e del pavimento; romanticizzata dall’arredamento sghembo che richiama il fantastico (ricorda, insieme alla musica, lo stile dei film di Tim Burton) e dalla neve che si vede scendere piano attraverso la finestra.

Partendo da un conflitto coniugale, Strindberg, oltre a sottolineare la crisi dei valori della famiglia borghese, mette in discussione lo stesso istituto del matrimonio, e ci orienta verso temi a lui cari: la lotta tra sessi, il crollo della potenza maschile e la spietata sopraffazione da parte della donna.

Adolf, capitano di cavalleria e uomo di scienza, si trova in disaccordo con sua moglie Laura circa l’educazione da impartire alla loro figlia Bertha: lei vuole a tutti i costi che diventi una pittrice assecondandone le inclinazioni artistiche, lui invece sostiene che la figlia non abbia questo talento e vorrebbe andasse a studiare in città. La donna, furba e manipolatrice, per raggiungere il suo obiettivo e avere tutto il potere sulla bambina non solo insinua nell’uomo il dubbio sulla propria paternità (all’epoca non si disponeva della prova del DNA) con sottili provocazioni e allusioni nell’intento di farlo interdire, ma la stessa con l’aiuto del medico si organizza affinché si dichiari incapace di intendere e di volere. In una crescente lacerazione della sua identità, l’uomo, che si è sacrificato per anni perché la moglie vivesse libera da pensieri, finisce per aggredirla con un lume acceso. Essendo tutti convinti della sua pazzia e non avendo più alcun controllo per legge sulla figlia, il capitano si rifugerà tra le braccia sicure della sua vecchia bàlia, unica donna fidata, proprio colei che farà indossare al suo bambino la camicia di forza piano piano, inscenando per gioco la vestizione di un re. Il crollo della potenza maschile è avvenuto: egli versa lacrime anche se è un uomo.

Ne Il Padre c’è il rapporto contorto dell’uomo con la propria parte femminile, che lo costringe a fare a pugni con la sua identità e lo conduce alla sofferenza, probabilmente la stessa provata proprio da Strindberg in alcuni periodi della sua vita. ll sospetto di non essere lui il padre di Bertha e l’impossibilità di scongiurare questo dubbio lo fa ammalare.

Lavia a tal proposito ha detto:

«Molte donne vengono da me a fine spettacolo e mi dicono: “Ho pianto”. In un mondo che ha coscienza della violenza sulla donna, è curioso come la violenza sull’uomo le commuova».

Una costante negli spettacoli strindberghiani è da un lato il mondo stravolto (nel Pellicano e nella Danza macabra), dall’altro il lato ironico. Nella rappresentazione di questo testo, nel quale Lavia inserisce brani di altri drammi di Strindberg (L’isola dei morti e Sonata di fantasmi), ci troviamo di fronte a un personaggio comico, goffo e molto affezionato alla figlia, che crea per suo padre un pupazzo che gli somiglia: i padri forse sono destinati ad essere presi in giro, ora dal carattere giocoso di un figlio ora dall’ironia affine che si instaura tra fratelli. A differenza del testo originale, qui la figura della figlia, da ragazzina forte e ambiziosa diviene sul palco una fanciulla completamente dipendente dai genitori.

Strindberg resta un autore per molti versi ironico e geniale e in tanti lo avevano compreso. Quando nel giorno del suo ultimo compleanno lo si era visto sporgere solo una candela fuori dalla finestra perché non poteva affacciarsi, lì fuori c’era tutta la città.

Alessandra Pisconti

di Johan August Strindberg
con Gabriele Lavia
e con Federica Di Martino, Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Luca Pedron, Gidari Ghennadi
regia Gabriele Lavia
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
Fondazione Teatro della Toscana

 

 

CARLO CECCHI E LA FOLLIA CONSAPEVOLE DELL’ENRICO IV

Dal 13 al 25 Febbraio al Teatro Carignano di Torino è andato in scena Enrico IV di Luigi Pirandello, con l’adattamento e la regia di Carlo Cecchi.

Enrico IV, uno dei testi più conosciuti e importanti di Pirandello, nella versione di Carlo Cecchi è la storia di un uomo che da vent’anni veste i panni dell’Imperatore di Franconia come inganno per simulare una nuova vita e come evasione dalla quotidianità e dalla realtà. Gli altri lo credono però pazzo e perciò lo assecondano in questa commedia per paura e per affetto, tanto da aver assunto degli attori come vassalli per fargli compagnia nella sua dimora, arredata e vissuta secondo gli usi del periodo storico in cui visse Enrico IV. Dopo ormai molti anni però gli amici decidono che l’uomo deve guarire, e portano al suo cospetto un famoso medico che dovrebbe riuscire ad aiutarlo: ovviamente l’incontro avviene con indosso costumi del periodo e sotto precisi pseudonimi storici, e il medico riesce così a fare una diagnosi. Ma durante un incontro con i suoi vassalli nella sala del trono l’Imperatore ammette di non essere mai stato malato e in questo modo tutti vengono a scoprire l’inganno.  Nel finale, come è ben noto, Enrico IV uccide Belcredi. Ma la morte, e tutto il resto, è nella versione di Cecchi finta, perché come ricorda proprio il protagonista, devono tutti riprendersi per la prossima replica, catapultando così gli spettatori in una improvvisa e quasi inaspettata dimensione meta teatrale.

 

Il testo affronta i grandi temi della maschera, della follia e del rapporto tra finzione e realtà: l’uomo sfugge razionalmente ad una realtà che non ama e che non lo rappresenta, e questo è infatti l’emblema pirandelliano del legame tra maschera e realtà. Un altro tema importantissimo e che Cecchi ha voluto mettere bene in luce è quello del teatro e della recitazione stessa: lo si vede chiaramente nel finale dello spettacolo, ma anche nella motivazione data alla falsa follia dell’Imperatore, che egli spiega in un bellissimo monologo, fulcro dello spettacolo: la vocazione teatrale.

Nonostante tutti gli attori fossero molto bravi e incisivi, non poteva non spiccare la recitazione di Carlo Cecchi: la sua tipica cadenza napoletana restituisce verità alla sua interpretazione e fa sì che il pubblico avverta che in quel momento in scena, proprio sotto i suoi occhi, stia accadendo qualcosa di profondamente reale. La cultura popolare infatti si insinua nella sua recitazione e la renda spontanea, giocosa, ma allo stesso tempo grottesca: si accende negli spettatori una coscienza critica che permette loro di vedere con lucidità i vari argomenti che questa recita porta alla nostra attenzione. Il carattere antinaturalistico del suo teatro infatti è perfettamente visibile anche grazie ai suoi movimenti un po’ legnosi, agli abiti molto larghi utilizzati per richiamare l’elemento burattinesco. Spesso inoltre egli recita di spalle, rendendo un po’ difficile la comprensione delle sue parole agli spettatori, sottolineando così l’impossibilità della piena e compiuta realizzazione artistica, altro tema a lui molto caro.

 

Interessante la scenografia realizzata da Sergio Tramonti: molto efficace nel richiamare la finta atmosfera medievale con diversi oggetti di scena, come le armature, ma soprattutto decisiva nel creare un ambiente sospeso, quasi fuori da tempo, quando gli attori si trovano nella sala del trono. Essa infatti ha come fondale uno specchio che riflette tutto quello che sta accadendo in scena, le rivelazioni e le finzioni, rende visibili gli attori che si voltano di spalle, catapultandoci così in un ambiente menta teatrale e sottolineando le duplici funzioni che il teatro può avere.

a cura di Alice Del Mutolo                                                                                      

di Luigi Pirandello
adattamento Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò, Dario Iubatti, Federico Brugnone, Remo Stella, Chiara Mancuso, Matteo Lai, Davide Giordano
regia Carlo Cecchi
scene Sergio Tramonti
costumi Nanà Cecchi
luci Camilla Piccioni
Marche Teatro

 

UNA VITA A MATITA

In scena il 24 Febbraio alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani “Una vita a matita” della compagnia Quinto Equilibrio.

Ogni anno nel mondo vengono festeggiati all’incirca 7 miliardi di compleanni e 21 milioni di non compleanni”

Così ci accoglie una voce fuori campo, mentre due figure entrano all’unisono in scena e si fermano ad ascoltare. Chi sono? E qual è il loro compito? Sono due scienziati alle prese con la sperimentazione delle giuste formule e tecniche per evitare catastrofi e sprechi durante i festeggiamenti di compleanno, cercando di capire quando e perchè questo rituale si è trasformato in pura forma, in un evento consumistico.

Gli esperimenti dei ricercatori, dimostrati attraverso virtuosismi acrobatici e di giocoleria, sono intervallati dalla voce registrata che passa in rassegna dati statistici e cifre di consumo talmente incredibili da farci scoppiare a ridere.

Tute bianche, scenografia quasi vuota, ad eccezione di un tavolino con lo stretto indispensabile, e delle “righe” luminose colorate costituiscono il set del laboratorio.

Le ricerche passano in esame i principali oggetti usati nelle feste di compleanno, e ne suddividono lo studio in varie fasi.

L’oggetto di studio n. 1 non poteva che essere il POP CORN. Come nasce il pop corn è noto a tutti, ma cosa succede in quell’istante in cui il nucleo si espande generando il fiocco bianco? E cosa accade quando lo sottoponiamo alla forza di gravità? Ce lo raccontano attraverso giochi sempre più comici e assurdi, che ci portano infine al secondo oggetto di studio: le trombette. Pochi sanno che il loro nome esteso è “trombette o lingua di Menelik”, e ancora meno risapute sono le sue radici. Esse affondano del XV secolo, e il nome deriva da Menelik II d’Etiopia, sovrano dalla lingua assai pungente, come il suono di queste trombette, che nessuno sopporta ma che continuano ad essere usate.

Di studio in studio arriva il momento di ricreare l’habitat ideale per i festeggiamenti: musica alta, strobo sfera, e due “ciuffi” di palloncini a creare un po’ di ambient. Ma mentre i due scienziati ballano, si rendono conto di essere soli in mezzo a tanti oggetti. Senza abbandonare la dimensione comica, la riflessione sposta la sua attenzione dagli oggetti alla sfera emotiva. Il compleanno non è solo regali, cibo e festoni, ma è in primo luogo uno di quei momenti che crea eccitazione e grandi aspettative, ma allo stesso tempo lascia dietro di se una scia di malinconia, e tutto ciò che ci rimane da fare,è esprimere i nostri desideri soffiando sulle candeline:

Vorrei sapere perchè le cose si rompono
V
orrei che gli esseri umani fossero più umani e meno esseri
V
orrei affacciarmi alla finestra di san Pietro e urlare Buon anno!
V
orrei andare in letargo con gli orsi
V
orrei che i pinguini non fossero sempre associati ai camerieri
V
orrei che mia figlia piangesse solo di felicità
V
orrei tuffarmi in una piscina piena di tagliatelle
V
orrei che una candelina rimanesse sempre accesa”

Lara Barzon