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Il camerino dell’ipocrisia (o della società)

Il camerino dell’ipocrisia (o della società)

 

 

La compagnia teatrale “Il mulino di Amleto” ha messo in scena nel febbraio scorso l’opera di Molière Il Misantropo all’interno della stagione teatrale Santa Cultura in Vincoli con tono originale e ironico.

 

Lo spettacolo inizia con Alceste, il protagonista, e Filinte che litigano perché Filinte ha appena abbracciato e salutato con affetto una persona che a malapena conosce. Con questo primo scontro iniziale ci viene subito presentata la questione intorno alla quale si snoderà tutto il senso del testo: è giusto mantenere un rapporto di cordiale “amicizia” nonostante il proprio pensiero – che troppe volte non corrisponde affatto a come ci si mostra – come sostiene Filinte, o bisogna dire ciò che si pensa senza farsi troppi scrupoli, come ribadisce Alceste, rendendo così i rapporti forse più aspri e complessi ma sicuramente più sinceri?

Durante la discussione arriva Oronte, un amico che improvvisatosi scrittore, fa leggere ad Alceste una sua poesia. Vorrebbe ricevere un parere sincero e dal momento che Alceste è conosciuto per la sua onestà e la sua schiettezza sembra la persona più adatta. Dopo un primo tentativo di salvare le apparenze, sotto consiglio del cauto Filinte, Alceste non riesce a trattenersi e scoppia in un commento pesante per il povero Oronte che, offeso e colpito sul personale, lo denuncerà per l’umiliazione subita. Alceste, ovviamente, non si mostrerà mai minimamente dispiaciuto per l’accaduto, anzi, rivendicherà fiero la sua fedeltà a quei principi che regolano la sua vita, principi che non accettano compromessi.

In un momento successivo scopriamo che quei versi sono stati scritti per la bella Celimene, amante di Alceste, con la quale ha un rapporto di amore-odio: se non riesce a sopportarne i difetti, allo stesso tempo non riesce neanche a fare a meno di lei, donna bella e corteggiata che ama circondarsi di ammiratori e “amici” e dare feste e ricevimenti. La falsità dimostrata dai gentiluomini e dalle gentildonne che frequentano la casa di Celimene vengono marcati e sottolineati ancora di più dagli stessi comportamenti di Alceste. Egli non si adatta a quell’ambiente formale, non rispetta le regole che la buona educazione e la convivenza civile impongono. Al contrario, fa di tutto per farsi notare, per rompere quell’equilibrio fatto di falsi sorrisi e frasi di circostanza, per scuotere dalle fondamenta quell’aria perbenista e cordiale così insopportabile.

Lo vediamo lottare, farsi portavoce di un’istanza di verità, di una lotta che non può essere vinta ma che deve essere combattuta, a costo di perdere tutto, anche l’amata Celimemene. Celimene era infatti l’unica persona che avrebbe portato con sé nell’esilio volontario che si impone per allontanarsi da quel mondo fatto solo di apparenze, l’unica persona per la quale era disposto a cedere, ad accettare un compromesso in cambio di una vita felice. Ma nemmeno questo basterà.

 

Alceste potrebbe essere definito in vari modi, a seconda del punto di vista di chi lo osserva: disadattato, asociale, anticonformista, ribelle. La sua morale non gli permette di scendere a compromessi e la sua critica verso la società è dura e irremovibile. Ma non si può non notare che quelle parole tanto aspre e accusatorie che rivolge verso gli altri sono le stesse che potrebbe rivolgere anche a se stesso. Soffre dell’ipocrisia che lo circonda ma allo stesso tempo si contraddice. Odia gli estremismi di ogni genere ma ne vorrebbe rappresentare uno, quello del lupo solitario superiore ad ogni convenzione sociale. In sostanza, non c’è coerenza tra quello che dice e quello che poi effettivamente fa, e l’esempio lampante di questo suo comportamento sta proprio nel suo sentimento d’amore. Alceste desidera ciò che più odia, è innamorato della signorina più civettuola e frivola di tutti, padrona della casa che ospita quegli ipocriti che Alceste tanto detesta, amica di persone false tanto quanto lei. Indugia in un eterno odi et amo, abbandonandosi alle dolci rassicurazioni di lei e provando poi un’ira terribile quando viene a sapere del suo presunto tradimento.

Molto interessante e tematicamente attuale la scena in cui, sospettando il tradimento, accecato dal rancore, si abbandona tra le braccia di Eliante per consolarsi. Ma quella che sembra una richiesta di affetto e di comprensione degenera quasi in uno stupro. Vediamo l’attrice dimenarsi mentre viene trattenuta e cercare di convincerlo che non è il modo migliore di reagire ad un torto subito.Quando Eliante riesce a divincolarsi, lui non la degna più di uno sguardo, non le porge delle scuse per ciò che aveva fatto poco prima, per aver giocato con i suoi sentimenti e averla bloccata e strattonata con la forza pur avendo ricevuto un chiaro rifiuto.

Gli attori si dimostrano particolarmente abili nel giocare bene il rapporto tra lo spazio d’azione drammatica e il teatro stesso – Ex cimitero di San Pietro in Vincoli, un posto piccolo e accogliente, elegante e suggestivo – sfruttando l’intimità che il luogo offre e la vicinanza del pubblico per sorprenderlo e coinvolgerlo.

La scenografia, composta per lo più da pochi arredi semplici, mostra un elemento interessante: sul fondale è sistemata una fila di specchi e di sedie, come quelli di un grande camerino di teatro, separata dal resto della scena da un telo trasparente che quando illuminato lascia intravedere. Si crea così un’interessante spazio d’azione secondario dove far accadere controscene divertenti, come quella di Alceste che in preda alla disperazione si cosparge di benzina per darsi fuoco,  o intime, come quando Celimene riflette dopo il duro confronto con Alceste.

Molto abile e ben congeniato è anche l’uso degli oggetti, in particolar modo degli alimenti. Qui il cibo, consumato veramente dagli attori con precisi intenti e significati, diventa un importante elemento drammatico: esilarante il momento in cui Alceste, per creare scompiglio tra gli ospiti di Celimene e marcare ancora di più la differenza tra lui e il gruppo, si rovescia addosso la bottiglia di spumante, si ingozza con le meringhe e si cosparge di torta, sporcandosi faccia, vestiti e capelli che rimarrano così durante tutto lo spettacolo. Ma non solo: il cibo viene anche condiviso con il pubblico, che si diverte molto a ricevere bicchieri di spumante e pop corn dentro coni di cartone direttamente dagli attori, che invitano i più temerari a ballare insieme a loro durante la festa a casa di Celimemene.

L’approccio che la compagnia utilizza permette di analizzare al meglio i temi che l’opera affronta, in particolar modo le riflessioni sui rapporti umani.

La compagnia è composta da Federico Manfredi(Alceste), Roberta Calia (Celimemene),Yuri D’agostino (Oronte),Marco Lorenzi (il giudice),Barbara Mazzi (Eliante, amica di Celimene) e Raffaele Musella (Filinte).

Un aiuto prezioso arriva anche dalla musica, che passa da Sostakovic a Help dei Beatles, conferendo al testo una chiave moderna e godibile. Gli abiti moderni, un po’ restrò nel gusto, e le musiche contemporanee creano infatti un contrasto interessante con la parlata che rimane quella di un testo del XVII secolo.

Sarebbe interessante capire come Moliere avrebbe adattato Il Misantropo ai nostri tempi, cioè nell’epoca dei social, dove la maggior parte dei rapporti sono fittizi e fasulli. Sarebbe curioso vedere la reazione di Alceste: credo che tutti noi la pensiamo un po’ come lui, ma che la maggior parte lo nasconda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uno Schiaccianoci politically correct

Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli tornano sul palco della Lavanderia a Vapore con una rivisitazione contemporanea del grande classico di Tchaikovsky e Petipa, Lo Schiaccianoci. La versione, riletta e rivitalizzata, rasenta il “mastodontico”: sulla scena non si conta il numero di comparse, presumibilmente una cinquantina, tra danzatori professionisti (compagnia Natiscalzi DT), il coro di bambini della scuola Marconi di Collegno, in collaborazione con la Cooperativa 360, le studentesse delle scuole di danza Stabilimento delle arti di Alessandria e Lab 22 di Collegno. Di “mastodontico”, oltre i numeri, ci sono anche le aspettative di coinvolgimento e di partecipazione che il balletto mette in campo. La complessa idea progettuale mira infatti a far dialogare molteplici e diversificate realtà locali: a quelle già citate si aggiungono l’Accademia Albertina di Torino, presso la quale gli studenti hanno illustrato in un fumetto i testi di Arianna Perrone, ex allieva della Scuola Holden, scritti a contatto con il processo di creazione della coreografia, avvenuto l’anno scorso, sempre fra le mura della Lavanderia. Tali testi costituiscono inoltre parte consistente della drammaturgia dello spettacolo stesso. Non ultima, l’introduzione alla storia del balletto russo tenuta dal prof. Alessandro Pontremoli dell’Università di Torino. Facile intuire che, a fianco della nobile volontà da cui è animato il progetto, la resa coerente e solida dello stesso si prospetta ardua.

Un evento a trecentosessanta gradi della durata di un’ora e mezza (come del resto il balletto originale) che avvicina ambiti professionali diversi, pubblici variegati, famiglie, bambini, ragazzi e studenti. Un evento che tuttavia, in virtù di questa sua natura eterogenea, non si dichiara mai esplicitamente appartenente a una definita etichetta critica: sarà teatro ragazzi o danza d’autore? Un progetto di sostegno a un coreografo emergente o un re-enactment di un classico della danza? O ancora uno spettacolo per le famiglie, sulla falsa riga di un saggio di fine anno? Da un punto di vista drammaturgico la narrazione percorre la vita e i sogni dei personaggi incarnati dai danzatori, che vogliono presumibilmente avvicinarsi alla vita e ai sogni di ognuno di noi, ma con i quali, a livello partecipativo, si fa fatica a identificarsi. La causa è l’addizione di scene eccellenti che prese singolarmente basterebbero a giustificare un intero spettacolo dedicato, ma che susseguendosi rapidamente in una bulimia di cose da dire non rimangono, come meriterebbero, impresse nella memoria dello spettatore. Sul palco, inoltre, si accumulano una serie di oggetti e di strumenti non sufficientemente valorizzati: tra gli altri un grosso tappeto elastico, un giradischi, una moltitudine di giocattoli, costumi variopinti, un vinile, un diario, un microfono, un clarinetto… Viene da chiedersi quanto potere effettivamente abbiano (o non abbiano) avuto i due giovani autori dello spettacolo, Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli, su questi numerosi aspetti importanti e preziosi, costitutivi della loro opera. L’elenco dei coproduttori (Compagnia Abbondanza Bertoni – Cid Cantieri – Festival Oriente Occidente) e dei sostenitori (Lavanderia a Vapore di Collegno, Fonderia 39 – Aterballetto – Reggio Emilia) è ricco e prestigioso. La mancanza tuttavia di una riconoscibilità propria di questo re-enactment dello Schiaccianoci, se non si fa apprezzare dagli addetti ai lavori, è una scommessa per quel che riguarda la ricezione del pubblico, non precisamente avvezzo, come si sa, alla danza accademica e neanche a quella contemporaneità con cui si è soliti oggi reinterpretare i classici. Lo amerà? Lo comprenderà? O gli basterà riconoscere sul palco qualcuno della sua famiglia, magari un suo bambino, perché l’esito del progetto possa dirsi positivo?

L’aspetto più meritevole è certamente la mole inimmaginabile di lavoro e di competenze che stanno dietro allo spettacolo, e che sicuramente hanno richiesto lo spostamento e il coordinamento di grosse masse di partecipanti, ancora più complesse da gestire se si pensa alle diverse fasce di età e alle diverse provenienze (pensiamo soprattutto ai numerosissimi bambini e adolescenti presenti sul palco). Una cultura del corpo che travalica le generazioni e i generi per avvicinare tutti, in una sana e salutare pratica motoria che si è consacrata nella briosa messa in scena finale cui abbiamo assistito alla Lavanderia.

Si rivela particolarmente apprezzabile l’estetica che caratterizza l’opera: un tripudio tipicamente italiano, potremmo dire felliniano, che tramite l’accumulo di immagini celebra il sogno e la festa, resi cinematograficamente dallo spostamento, già citato, di considerevoli masse sulla scena, di una scenografia giocosa e di sequenze coreografiche numerose che sembrano omaggiare le dolcezze della vita in chiave sociale, sostenibile, comunitaria. Forse più ancora che lo spirito natalizio della fonte drammaturgica, lo stile della rappresentazione sposa un gusto e una propensione festosa dello spirito tipicamente made in Italy. Non a caso il coro di voci bianche richiama alla recente memoria quello che, altrettanto fellinianamente, ha cantato e decantato la Vita in vacanza al Festival della canzone italiana di Sanremo poche settimane fa.

Uno Schiaccianoci molto ricco, molto lungo e molto popolato, che in definitiva, come dice uno dei protagonisti nei confronti del signor Drosselmeyer, “affascina ma non è limpido”.

Senza filtro – Uno spettacolo per Alda Merini

È il primo novembre, siamo al Bar Charlie sui navigli di Milano. L’atmosfera è in stile anni Sessanta. La scena davanti a noi è caotica, onirica e suggestiva: sedie rotte, impilate una sull’altra, tazzine da caffè sporche, pagine sparse sul pavimento. Al centro, un tavolino, due seggiole e una macchina da scrivere. Sullo sfondo un musicista, Marco Pagani, commenta la scena con chitarra e pad elettronico. In primo piano, Rossella Rapisarda, co-autrice della pièce con Fabrizio Visconti, è l’unica attrice. Indossa le vesti di un angelo biondo, un po’ spettinato, in attesa di qualcuno che non ci è dato conoscere. Attesa che trasformandosi in racconto dà vita allo spettacolo.

Senza filtro – Uno spettacolo per Alda Merini è la produzione teatrale della compagnia Eccentrici Dadarò andata in scena venerdì 16 Febbraio alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Come da titolo, la rappresentazione omaggia la poetessa e scrittrice milanese, vittima, insieme a molti altri, dell’esperienza di ricovero in manicomio. La Lavanderia, insieme alla Regione Piemonte, al Comune di Collegno e alla Fondazione Piemonte dal Vivo, ha infatti scelto di inaugurare con questo spettacolo la rassegna intitolata Quello che tutti chiamavano manicomio, organizzata in occasione del quarantennale della legge n. 180/1978, meglio conosciuta come Legge Basaglia. Per chi non fosse adeguatamente informato sull’argomento, cercheremo qui di riassumere brevemente i complessi e significativi avvenimenti cui si deve la programmazione dello spettacolo.

Era il 13 maggio 1978 quando venne promulgata la legge “Accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori”, la quale sanciva la chiusura definitiva dei manicomi in Italia. Il luogo scelto per portare in scena lo spettacolo non è casuale: la Lavanderia a Vapore era infatti il luogo deputato al lavaggio dei panni e della biancheria all’interno del manicomio di Collegno, il più grande d’Europa al suo tempo. Qui tuttavia, già nel 1977, anticipando di un anno la legge, su iniziativa dell’Amministrazione Comunale venne abbattuto un primo tratto del muro di cinta che separava la struttura dalla città. Fu un gesto di grande importanza poiché il varco permise per la prima volta a migliaia di cittadini di entrare nel manicomio per visitare una mostra dedicata alla tematica dal titolo Collegno: proposte e documenti. Quell’evento aprì una finestra sulle condizioni di vita dei ricoverati creando così un dialogo tra istituzione psichiatrica e città. Nel 1979 venne infine completata l’opera di demolizione delle mura e il manicomio, da luogo di coercizione, si trasformò definitivamente in un parco pubblico aperto a tutti. Ancora oggi i cittadini collegnesi ricordano vivamente il momento in cui per la prima volta videro camminare liberamente nel parco i tanti pazienti che fino a poco prima avevano vissuto, segregati, a fianco delle loro case. Nel 2008 un’ulteriore trasformazione dello spazio inaugurò l’attuale padiglione multiculturale conosciuto col nome di Lavanderia a Vapore. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile se non fosse stato per la lungimirante battaglia intrapresa dall’intellettuale veneto Franco Basaglia, psichiatra e neurologo.

Quello che ha ospitato lo spettacolo in questione è dunque uno spazio trasformatosi negli anni da luogo di dolore e malattia a terreno fertile per la cultura. Sappiamo come all’interno dell’istituzione manicomiale il sapere e il potere medico venissero usati per creare un’idea di malattia mentale tale da giustificare l’esistenza stessa del manicomio e dei suoi metodi coercitvi. Su queste tematiche si confrontarono importanti studiosi come Foucault, Goffman, Szasz e lo stesso Basaglia, giungendo ad esisti che tutt’ora si rivelano estremamente attuali. Oggi, attraverso una forma di sapere differente, più propriamente culturale, l’ex luogo manicomiale si sta trasformando in una possibilità concreta di condivisione e crescita per il soggetto, attraverso un processo di conoscenza, scoperta e sperimentazione di sé, contribuendo alla formazione di un cittadino, si spera, più critico e consapevole.

Tornando allo spettacolo su Alda Merini, non si fa difficoltà a trovarvi forti parallelismi con questi stessi discorsi. L’angelo biondo sulla scena è un personaggio ripreso da una poesia della scrittrice intitolata Al mio angelo custode che non ha mai imparato a fumare che possiamo vedere come un suo doppio, quello stesso doppio che nella follia spesso partecipa della soggettività dell’individuo. Protagonisti della pièce sono la macchina da scrivere e la musica. Ventiquattromila baci di Adriano Celentano è il brano con il quale inizia la scrittura, che si rivelerà travagliata durante il corso di tutto lo spettacolo: “senza musica – ci dice l’angelo – non c’è amore”. Torna alla mente il momento narrato dalla Merini nel suo testo L’altra verità. Diario di una diversa in cui, durante uno dei numerosi ricoveri in manicomio, il suo medico le diede una macchina da scrivere, invitandola a ritrovare il piacere della scrittura. Com’è la protagonista a ricordarci, in maniera a volte fin troppo retorica, la vita di Alda Merini fu un inno alla vita e all’amore. Una fame d’amore caratteristica dell’uomo che se dura incontrollata tutta una vita comporta facilmente un vuoto, nel quale può emergere il disagio psichico. La poetessa milanese scrisse che “la malattia mentale non esiste, che esistono i dolori e le mancanze ma non la malattia”. In questo troviamo una grande vicinanza con il pensiero di Basaglia il quale sostenne per tutta una vita la distruzione del mito della malattia mentale. Due controverse personalità che, pur da posizioni diverse, hanno dato voce ad una stessa “folle” e visionaria idea.

 

recensione di Linda Casoli

 

IL GIURAMENTO DELLA DIGNITA’

Dal 16 al 18 Febbraio il Teatro Astra ha ospitato lo spettacolo Il Giuramento, un testo di Claudio Fava con la regia di Ninni Bruschetta. La storia è ambientata in Italia nel 1931 e narra di Mario Carrara, professore di Patologia all’Università di Torino, uno dei dodici docenti che rifiutò il giuramento di fedeltà al fascismo. Mussolini lo aveva imposto per essere certo di avere pieno controllo sulla formazione, sugli  insegnamenti impartiti ai giovani, stroncando ogni possibilità di dissenso.

Lo spettacolo si apre con l’ingresso  in scena  (dalla platea) degli attori mascherati e con un mantello nero che intonano una versione rivisitata di Faccetta Nera in chiave jazz: un modo per  permettere agli spettatori di entrare nell’atmosfera in cui si ambienterà lo spettacolo; sono, infatti, molti i rimandi ai primi anni dell’epoca fascista che chiariscono il periodo storico e sociale della messinscena: il ritmo quasi martellante della marcia delle camicie nere scandisce la recitazione degli attori soprattutto in momenti di particolare tensione e alcuni allievi del professor Carrara si recano a lezione indossando la divisa del partito, muniti di regolare pugnale. Inoltre ci sono personaggi che incarnano le varie tipologie umane che si possono trovare sotto un regime: l’ufficiale austero dell’esercito che insegna ai giovani a essere forti e pronti per la guerra, i ragazzi che inneggiano al Duce sicuri che egli farà rinascere il Paese, e il Rettore dell’Università che sottolinea come l’Italia fascista abbia bisogno di muscoli e persone sane, declassando così i più deboli e i malati in un sistema a suo vedere perfetto, poiché freddo e inesorabile.

Al centro della vicenda, però, non vi è solo il contesto storico, che pure rimane  chiaro nella mente degli spettatori, non si vuole porre l’accento solo sul fatto che  il fascismo è stata  una dittatura  violenta e spietata. Al centro della vicenda, vediamo un uomo comune, con le sue manie e le sue abitudini, al quale piace il proprio lavoro, passare la propria conoscenza a giovani brillanti che saranno il futuro della società. Quest’uomo, Mario Carrara (David Coco), è sicuramente un antifascista, ma questa non è la prima cosa che viene messa in risalto, poiché egli, messo al corrente dal Rettore  che avrebbe dovuto prestare giuramento al Re e al Duce, vive una profonda crisi che non è dettata dal suo orientamento politico, ma dal fatto che prima di tutto si sente un uomo  e un medico. Il sapere, la conoscenza e la scienza non devono giurare a niente e a nessuno, non possono piegare il capo, ed è proprio per questo che Carrara non capisce perché un professore debba fare un giuramento su una materia oggettiva e totalmente slegata da qualsiasi retorica politica. Ed è qui che si scontra con l’opinione di altri: il Rettore (Simone Luglio) ha fede nel Duce, i suoi ragazzi sono stati quasi tutti ammaliati dalla promessa di valore e fama, e perfino il suo amico e collega apertamente socialista (Antonio Alveario) gli intima di giurare: perché lo faranno tutti, perché è l’unico modo per mantenere il proprio lavoro, ma soprattutto perché ormai il processo di affermazione di un totalitarismo è già iniziato e solo dall’interno si può ancora fare qualcosa. In un momento storico in cui le donne non venivano quasi considerate come esseri pensanti, sarà proprio la dolce e decisa Tilde (Stefania Ugomari di Blas), sua assistente da anni, alla quale è legato da un profondo affetto, a spingerlo a prendere una decisione. Grazie all’ultima conversazione con la donna, infatti, Carrara deciderà di congedarsi dai suoi studenti e accetterà di andare in carcere con l’unica colpa di avere avuto il coraggio di dire di no a qualcosa che riteneva profondamente ingiusto e proprio per questo con la testa alta di un uomo che con dignità si è distinto dal conformismo della società.

Dato il messaggio forte dello spettacolo, la regia ha voluto lasciare le menti degli spettatori sveglie e attente per tutta la sua durata realizzando una messinscena che non permetteva l’abbandono e l’immedesimazione: la scenografia essenziale rappresentava un aula universitaria con delle gradinate e una cattedra, aula che a seconda dei momenti poteva diventare anche un tribunale dove il professor Carrara sentiva premere su di lui il giudizio degli altri. Lo spazio teatrale era stato reso visibile in tutta la sua grandezza e potenzialità, e infatti anche le quinte erano sparite, in modo che gli attori uscendo di scena rimanessero sempre visibili al pubblico, spettatori anch’essi del dilemma interiore che si stava compiendo sul palco. Anche i pochi cambi scenografici sono stati fatti a vista  e spesso durante i dialoghi e i momenti corali si aveva un alternanza di recitazione e canto, che alla fine dello spettacolo si trasforma quasi in un canto funebre che accompagna Carrara in cella.

Molto interessante è l’uso dell’eco nei momenti più carichi di pathos, soprattutto quando il Rettore inneggia alle parole d’ordine del regime: in quei momenti è stato proprio come se quelle parole arrivassero direttamente dalle nostre coscienze, per invitarci ancora a riflettere su quello che è stato, sui gesti di uomini come Carrara, una memoria che non deve scomparire.

Degna di nota sicuramente è  la capacità degli attori di passare dal canto alla prosa senza perdere l’intensità del momento e facendo arrivare chiaramente al pubblico tutta la potenza di quello che volevano trasmettere.

Dopo lo spettacolo, ho assistito a un incontro di approfondimento con il regista Ninni Bruschetta, l’autore Claudio Fava e Tommaso De Luca, rappresentante dell’ANPI Provinciale, durante il quale è intervenuto anche il nipote di Mario Carrara, suo omonimo, presente allo spettacolo. Quest’ultimo, pur avendo apprezzato la recita, ha criticato alcuni aspetti della restituzione della figura del nonno,  primo fra tutti il fatto che non sia stata sottolineata chiaramente la posizione politica di Carrara, capostipite di una famiglia antifascista da generazioni. In risposta, l’autore ha sottolineato che il testo non voleva  raccontare che cosa fosse il fascismo, ma raccontare il coraggio di non conformarsi con la società, di rivendicare l’autonomia della ricerca scientifica. Infatti, con il suo gesto coraggioso, Mario Carrara è emblema di dignità e di dovere solo verso i propri principi scientifici. Come evidenzia poi il regista, nello spettacolo si è voluto scindere l’orientamento politico dal giudizio personale: quella di Carrara diventa un’azione eroica, poiché disgiunta dal fine; egli non pensa al risultato del suo rifiuto mentre lo compie, riesce solo a vedere con chiarezza quale sia la cosa moralmente giusta  da fare.

Concludo riportando una frase del personaggio del Rettore: “Non resterà traccia del vostro rifiuto”; i dodici nomi di chi si è rifiutato di giurare, elencati sulla via della prigione proprio da Carrara alla fine dello spettacolo, sono conosciuti e meritevoli di essere tramandati come un esempio. Gli altri 1238 professori invece non sono degni di memoria.

Alice Del Mutolo

Teatro Stabile di Catania
presenta

IL GIURAMENTO

novità assoluta di Claudio Fava
regia Ninni Bruschetta
con David Coco,
Stefania Ugomari Di Blas, Antonio Alveario, Simone Luglio, Liborio Natali,
Pietro Casano, Federico Fiorenza, Luca Iacono, Alessandro Romano
musiche originali Cettina Donato
scene e costumi Riccardo Cappello
luci Salvo Orlando

Salome semiscenica al Teatro Regio

Torino, 15 febbraio 2018.

La perversa teenager Salome è il cuore del Festival Richard Strauss (2-25 febbraio) e titolo cardine della Stagione operistica: il Teatro Regio non vi rinuncia, nonostante l’incidente occorso il 18 gennaio durante una recita di Turandot, quando un elemento scenico è caduto sul palco ferendo due artisti del coro.

Costretto ad una soluzione di ripiego, il Regio presenta, per le cinque recite dell’opera (15, 18, 20, 22 e 25 febbraio) una versione semiscenica curata da Laurie Feldman, assistente di Robert Carsen, il cui allestimento del 2008 aveva riscosso grande successo.

La prima assoluta di Salome andò in scena il 9 dicembre 1905, diretta da Ernst von Schuch alla Semperoper di Dresda, e fu un vero trionfo, nonostante il clamoroso scandalo, o forse anche grazie ad esso: temi scabrosi come l’incesto e la necrofilia si univano ad una musica di enorme potenza espressiva. L’opera venne definita rivoluzionaria e fu eseguita nei maggiori teatri d’Europa. In Italia venne rappresentata la prima volta il 22 dicembre 1906 proprio al Regio di Torino, diretta dallo stesso Strauss.

Sul podio adesso c’è Gianandrea Noseda, al suo terzo appuntamento operistico della Stagione, dopo Tristano e Isotta e Turandot. Il direttore fa il suo ingresso con le mezzeluci in sala, cogliendo di sorpresa il pubblico. Le luci si spengono e la musica ha inizio.

Un atto unico che richiede grande abilità da parte del direttore d’orchestra, dei musicisti e dei cantanti, «una vera e propria vetta da scalare» afferma Noseda, che torna alla Salome dopo dieci anni. Si tratta di una partitura complessa, che richiede scelte difficili: ci sono linee musicali da prediligere e i fortissimi non possono essere tutti uguali se si vuole che venga alla luce il nucleo dell’opera, che si trova in quella connessione, strettissima, tra musica e parole.

«Questo testo grida musica» disse Strauss assistendo alla recita di Salome di Oscar Wilde e decise di musicare il dramma, nella traduzione tedesca di Hedwig Lachmann e con opportuni tagli e modifiche, senza la mediazione del librettista: è quella che, in termini tecnici, si chiama Literaturoper, operazione poco praticata allora, ma destinata ad una certa diffusione nel corso del Novecento.

L’opera si apre con il tema della principessa: un serpeggiante arabesco Jugendstil dei clarinetti che non è solo elemento decorativo, ma costruisce, con la sua linea, il personaggio dell’adolescente annoiata, capricciosa e sensuale. Questo disegno sinuoso definisce inoltre il clima di fondo dell’opera, il perverso intrecciarsi di passioni non corrisposte e giochi di potere. I temi musicali proposti, nonostante le variazioni, rimangono gli stessi dall’inizio alla fine: tale fissità dei temi, che non si influenzano gli uni con gli altri, rispecchia l’immobilità dei personaggi, che non hanno né la capacità, né la volontà di comunicare tra loro.

In un soffocante clima caldo umido il Profeta, che viene dall’arido deserto, annuncia con un semplice canto diatonico la venuta del Messia, ma la sua voce profonda e solenne è un corpo estraneo nel tessuto musicale dell’opera, la sua è una purezza che non purifica. Jochannan è incapace di redimere la fanciulla e ne teme persino lo sguardo. Se il bacio necrofilo con la testa mozzata non scandalizza più come nel 1905, rimane sconvolgente l’assenza completa di qualsiasi possibilità di cambiamento e di salvezza.

Durante la recita, tuttavia, non serpeggia alcun turbamento tra il pubblico e alcuni spettatori faticano a seguire il filo conduttore della vicenda, lasciandosi disorientare dal fatto che tutti gli interpreti siano sempre presenti sul palco, anche quando il personaggio è uscito di scena, come nel caso di Narraboth. Le sedie che connotano lo spazio all’interno del quale i personaggi interagiscono sono un segno chiaro per chi già conosce lo svolgersi degli eventi, ma non per tutti. I costumi, a cura di Laura Viglione, sono abiti da sera contemporanei che non caratterizzano in modo incisivo i personaggi. Allo stesso modo, le luci firmate da Andrea Anfossi, non sono in grado di infondere il necessario dinamismo a ciò che avviene in scena.

La direzione di Noseda mette in evidenza tutte le soluzioni musicali innovative per cui la Salome è apprezzata, la violenza espressiva di un’opera che ha anticipato il teatro musicale espressionista. Di fronte all’intensità dell’orchestra i cantanti risultano, a volte, un po’ deboli. Tuttavia il soprano svedese Erika Sunnegårdh, nel ruolo della protagonista, il tenore Robert Brubaker in quello di Erode, il mezzosoprano Doris Soffel, che interpreta Erodiate e il baritono Tommi Hakala nel ruolo di Jochanaan riescono ad entrare nella psicologia dei personaggi.

Questa Salome semiscenica, che alla ridondanza verbale di Wilde e musicale di Strauss accosta una essenzialità scenografica da teatro epico brechtiano, porta alla luce uno dei temi fondamentali su cui si gioca la ricezione del pubblico: la regia.

Parte degli spettatori ha espresso il proprio gradimento per questa versione perché ha permesso di concentrarsi esclusivamente sulla musica. Ma non di sola musica si compone l’opera: in essa si combinano, in modo equilibrato, la recitazione, la danza, i costumi, le luci e altro ancora. Quando ogni elemento si fa portatore di un’istanza espressiva coerente con il significato della vicenda, allora questa può comunicare qualcosa che ha a che fare con noi e con il mondo in cui viviamo. Che Salome sia ambientata nell’antica Palestina o nell’odierna Las Vegas, sarà riuscita soltanto quando il pubblico uscirà dal teatro turbato per quel Fantasma di perversione che è in grado di evocare.

Il senso della vita di Emma

Chi è Emma? Si potrebbe rispondere in molti modi. Emma siamo noi, la nostra vita.  Emma è semplicemente la ragazza scomparsa. Ma è anche una figura astratta, tant’è che la vediamo solo alla fine. Permette la narrazione di una storia, crea dinamiche familiari, e trasforma i personaggi. Emma è un po’ vera e un po’ falsa.   Si potrebbe continuare a trovare altri significati. Ed facile che ci sovvenga  anche una seconda domanda: qual è il senso della vita di Emma? Niente di più sbagliato. Lo spettacolo non vuole essere incentrato sulla ricerca del senso della vita di Emma, o il senso della vita in generale.

Fausto Paravidino, attore, autore e regista, molto attivo nel panorama  teatrale italiano e internazionale, da gennaio di quest’anno Dramaturg residente del Teatro Stabile di Torino, scrive e mette in scena, interpretando anche uno dei personaggi, lo spettacolo Il senso della vita di Emma. Un romanzo teatrale in due parti, dove diverse storie e dinamiche familiari si intrecciano a piccoli cambiamenti di costume e di arte, sullo sfondo della storia grande; una storia che succede addosso ai personaggi, ma non motore della vicenda, a detta del regista.

Uno spettacolo che fin dall’inizio vuole rivolgersi direttamente al pubblico, dove i personaggi hanno bisogno di narrare la loro storia, per capire come mai Emma sia scappata. Infatti, la quarta parete sarà infranta ripetutamente. Padre, madre, fratello e sorella e gli amici racconteranno a tratti qualche spezzone della vita di Emma. Lo spettatore assiste ad  una storia di due  famiglie, dagli anni sessanta fino ai giorni nostri, da quando i genitori di Emma e i loro amici si sono conosciuti fino al ritrovamento di Emma. Classi sociali differenti, ma che si incontrano. Due coppie di amici che si accorgono che è arrivato anche per loro il momento di crescere e assumersi responsabilità: da una parte Carlo (Fausto Paravidino) e Antonietta (Eva Cambiale) e dall’altra Giorgio (Jacopo Maria Bicocchi) e Clara (Marianna Folli). La prima coppia, un uomo semplice dedito ad impagliare gli animali e una professoressa di lettere un poco svampita; la seconda, una donna pettegola e isterica, che scarica le sue frustrazioni sul compagno, un letterato per bene, che si fa mettere i piedi in testa dalla compagna accettando la situazione.

I problemi giungono quando nascono i primi figli di Carlo e Antonietta: Marco, il maggiore (Gianluca Bazzoli) sempre in crisi con la propria identità, scoprendo in seguito di essere bisessuale, e vittima degli scherzi della sorella Giulia, la stronza (Angelica Leo). Impreparati a gestire i propri figli, i problemi si trasferiranno anche sugli amici: questi, stanchi del fatto che l’altra coppia ha scelto di avere figli, forse anche invidiosi, decidono di non frequentare più Carlo e Antonietta. Il punto di svolta si avrà quando Antonietta rimane incinta per la terza volta. Tutte le frustrazioni della coppia saliranno in superfice: Carlo non riesce a vedere e capire le sofferenze della moglie e così quest’ultima decide di prendersi una pausa di riflessione e si trasferisce dagli amici, con cui si era riconciliata poco prima. Il padre dovrà occuparsi dei figli, o meglio dovrà imparare ad occuparsi di loro.

Emma che per più di metà spettacolo viene solo evocata a parole, finalmente entra in scena (era la bambina che aspettavano Antonietta e Carlo), prima come bambina neonata, poi cresciuta come una marionetta, una  bambola. Forse per accentuare il fatto che sono gli altri, i genitori e i fratelli che la dirigono nella sua infanzia, la manipolano a loro piacimento, oppure solo per mostrare che è un personaggio immaginario, finto, che rappresenta qualcosa in più della semplice Emma. Fatto sta che lei procurerà non pochi problemi alla famiglia. Crescendo parla poco, ha solo un’amica con cui condivide le sue stranezze e le sue avventure di ribellione contro un sistema sporco e radical chic.  A Londra fa irruzione con altre compagne in una galleria d’arte contemporanea, con una maschera di maiale sul viso e completamente nuda, per distruggere con un quadro una pecora, sezionata a metà, esposta come opera d’arte. Qui, come all’inizio dello spettacolo si vede tutto l’intento parodico su cosa ormai possa essere considerato bello e su cosa sia un’opera d’arte. Tutto può essere considerato opera d’arte? I cambiamenti di cultura e costume, vanno di pari passo con la crescita di Emma, come se lei rappresentasse uno spartiacque tra la cultura sessantottina dei genitori e quella successiva  dei figli, di lei, che deve fare i conti con l’eredità che i genitori le hanno lasciato: non a caso è nata il giorno del delitto  Moro.

Emma è compresa solo da Leone  (Giuliano Comin), figlio dell’altra coppia, di Giorgio e Clara. Lui, innamorato,  va a cercarla, ma sarà poi rifiutato da lei. Emma torna a casa, e si allinea al sistema : va a lavorare per un’industria che di ecologico non ha nulla e sposa Nello lo Splendido (Giacomo Dossi), un discotecaro bisessuale che la tradisce con la sua logopedista. Emma a seguito in un furto nell’azienda in cui lavora, scappa in Kosovo, per riapparire in un museo inglese dove è esposto il suo ritratto. Finalmente ha lasciato il suo corpo di marionetta e la vediamo come una persona viva (Iris Fusetti). Si è tolta la maschera, una maschera imposta dagli altri, da sé con le sue fughe i suoi atti sovversivi, una maschera per stare al mondo, in un mondo che fa marionetta e ti dirige? La maschera si è trasformata nel ritratto appeso al museo ed è per questo che lo vuole distruggere?  Sarà bloccata da Leone che si trovava lì per caso ad ammirare il quadro, o meglio ad ammirare Emma. Leone le fa capire cosa ha sbagliato in tutti quegli anni di fughe di comportamenti ingrati, ma lei continuerà a sentirsi disadattata, vuole ma non riesce a trovare una sua identità, a piacersi. Colpa degli insegnamenti sbagliati, o meglio delle mancanze dei genitori? Forse. Leone e l’artista del quadro le fanno capire che la persona raffigurata nel quadro è si lei, ma rappresentata dal punto di vista dell’artista, e così il quadro rimane lì. Non dobbiamo aver paura di come ci raffigura la società ed essere noi stessi?

La chiusa finale è un piccolo gioco sul teatro, dove la storia di Emma è un po’ vera e un po’ no come il teatro, per usare le parole del regista. E qui sta il senso di chi sia Emma, una figura che esiste, che si porta dietro problemi, fa evolvere le vite degli altri personaggi e si immerge nei cambiamenti culturali, ma che allo stesso tempo è una marionetta, è finta. Emma siamo noi, è la nostra vita, così si chiudeva la prima parte.

Fausto Paravidino non vuole dare un senso ultimo allo spettacolo, ma lascia libera interpretazione allo spettatore. Non vuole neanche fare una critica alla società post-sessantottina che si trasforma, a costumi che cambiano velocemente, pur inserendo commenti parodici verso l’arte e una storia che c’è come sottofondo.

Ma se si vuole appagare la nostra ricerca a dare senso ad ogni cosa, si può trovare un possibile significato dello spettacolo parafrasando le battute di Giorgio. La vita magari non è quella che ci siamo sognati, va così. Ci sono momenti belli e altri invece di meno, ma l’importante è esserci, vivere.

Uno spettacolo da tutto esaurito pure alla penultima rappresentazione. Un pubblico però che abbocca più facilmente alle battute volgari. Altre scene potevano meritare di più la risata, ma hanno avuto meno applausi. Uno spettacolo quindi comico, ma con venature drammatiche che si diramano attraverso le crisi di queste persone, il tutto per dare uno spaccato particolare, ma abbastanza probabile di due possibili famiglie.

Uno spettacolo forse troppo didascalico. Dove a volte le azioni compiute, che si sovrappongono alle parole, suscitano la risata, o sono costruite molto bene per aumentare il senso di quello che si ascolta, altre volte questo risulta troppo pesante e scontato.
E un finale in cui tutto si fa troppo dilatato e prolisso. Ci riferiamo soprattutto all’incontro tra i due giovani al museo.
Invece, punto di forza sono le scene corali, costruite molto bene dal regista e dagli attori. Un gruppo di ben 12 attori, con a “capo” Fausto Paravidino che fa da punto focale di queste piccole coreografie, anche nei momenti in cui in scena gli attori sono solo una parte. Sul palcoscenico lo si sente e lo sentono anche gli altri attori, come se si nascondesse dietro ai suoi personaggi per far da base, da spinta per far risaltare di più i suoi compagni/personaggi.
Uno spettacolo che seppur con qualche caduta è divertente e abbastanza riuscito. In un microcosmo dove esistono problemi, si deve vivere un po’ giocosamente, prendere coscienza di sè e cercare di non morire democristiani.

Emanuele Biganzoli

Produzione: Teatro Stabile di Bolzano e Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale

Di Fausto Paravidino

Regia: Fausto Paravidino

Con: Eva Cambiale (Antonietta), Fausto Paravidino (Carlo), Marianna Folli (Clara), Jacopo Maria Bicchiere (Giorgio), Gianluca Bazzoli (Marco), Angelica Leo (Giulia), Sarà Rosa Postilla (zia Berta), Giuliano Comin (Leone), Veronika Lochmann (Ingrid), Emilia Pizza (Genziana), Maria Giulia Scarcella (dottoressa Forlì), Iris Fusetti (Emma), Giacomo Dossi (Nello, lo splendiso / don Mario).

Scene: Laura Benzi

Costumi: Sandra Cardini

Luci: Lorenzo Carlucci

Musiche originali di Enrico Melozza, eseguite da Orchestra Notturna Clandestina, diretta dall’autore

Maschere: Stefano Ciammitti

 

Muttersprache Mameloschn – Lingua madre Mameloschn: alla ricerca della propria dimensione.

Non tutti siamo fatti per restare dove siamo nati: c’è chi, allora, parte e rispetta l’intenzione di non tornare più, chi parte ma torna indietro quasi subito, e chi, come Rahel, figlia di Clara e nipote di Lin – le tre protagonista di questa dramma- salpa alla volta di New York per iniziare un nuovo capitolo della propria vita, portandosi dietro un amuleto pesante di confusione storica, di ricordi e di fragilità.
Si sa, all’inizio è sempre allettante trasferirsi in un posto nuovo ma poi, piano piano, subentrano le difficoltà;  la vita, infatti, sa essere crudele e mette a durissima prova l’essere umano.

Rahel, inizialmente, gode della sua confusione a proposito delle vie senza nomi ma solo numerate; è felice di tornare a sentirsi nuovamente come una sorella minore- come scrive nelle lettere rivolte al fratello assente- e di non capire la lingua del posto: un’incomprensione linguistica che ricorda tanto Alexander Bruno, il protagonista di un libro di J. Lethem , che cerca a tutti i costi di andare in posti esotici in cui la lingua a lui sconosciuta lo lasci felicemente ISOLATO nell’incomunicabilità; ma se per questo protagonista il tutto si rivela come un dolce balsamo, per Rahel, invece, a lungo andare, diventa estenuante.
“Io non capisco i piccoli dettagli, le allusioni, non capisco nemmeno le barzellette, niente!” scriverà al fratello, in modo sempre più disperato. Le barzellette che strappavano risate dolci-amare, le barzellette simbolo di casa, simbolo di una lingua parlata da sempre con sua madre e sua nonna, una lingua madre appunto -un mameloschn– che ora ha perduto e non sa come ritrovare.

Sentirsi continuamente fuori posto, affermare la propria identità mediante la storia passata e ricercare una propria lingua madre in cui sentirsi a casa: sono questi i temi di un dialogo politico, religioso, familiare ed intimo che le straordinarie Elena Callegari, Francesca Cutolo e Maria Roveran portano in scena con tenerezza, passione e delicatezza.

È intorno al tema della partenza, però, che si snoda l’intero dramma. Il primo a essere andato via e a non aver fatto più ritorno è Davie, unica figura maschile dell’intero dramma che presenta la sua assenza unicamente con delle lettere spedite alla sorella Rahel, dalle quali si alzerà il coro delle voci della coscienza delle donne, con un sistema narrativo che ricorda il romanzo La grande sera di Pontiggia. Seguirà poi, la partenza della giovane ragazza, che segnerà un ennesimo colpo al cuore per una madre ormai “orfana” di due figli.
Partire, dunque, per cercare di risolvere le questioni in sospeso o addirittura lasciarle alle spalle, ma è davvero sempre possibile? Il poeta latino Orazio, in un famoso esametro, diceva che è il cielo a mutare per coloro che attraversano il mare, e non l’animo; lo stesso vale per gli affanni dell’anima dell’adolescente, che non riuscendo a superare il dolore causato dalla partenza definitiva dell’ amato fratello maggiore, prova a superarla attraverso una partenza in un nuovo Stato -che comunica allo spettatore attraverso un intimo monologo- ma nemmeno a lei è dato da sapere se riuscirà nel suo intento: quando il dolore c’è e non passa, te lo porti dietro ovunque, anche dall’altra parte del continente!

Oltre alla figura pregnante della ragazza, protagoniste di questo dramma sono, poi, altre due donne, altre due generazioni che sono l’una l’antitesi dell’altra: una nonna e una figlia- a sua volta madre di Rahel- che ne hanno vissute tante insieme, dagli spettacoli di cabaret alle manifestazioni socialiste guidate dall’ormai anziana Lin e , tutt’ora, si ritrovano a (soprav)vivere con tutte le loro contraddizioni, in un vortice di amore e odio, in un appartamento berlinese, all’ombra della caduta del Muro.
Si amano, si uccidono con una mezza parola che è peggio di una freccia imbevuta nel veleno, come solo una madre sa lanciare…e ancora si amano e si disprezzano e più si amano e più si rinfacciano i dogmi di un ebraismo ormai diventato un peso per entrambe. Tentano, invano, di lasciarsi ma non riescono a stare l’una separata dall’altra, sono l’una l’ossigeno per l’altra; solo la morte sarà in grado di separarle, ma solo apparentemente poiché un filo rosso le terrà per sempre unite.

Sasha Marianna Salzmann è nata nel 1985 a Volgograd nell’Unione Sovietica, vive tra Berlino e Instanbul, è scrittrice e curatrice del teatro Maxim Gorki di Berlino, ed è l’autrice di questo dramma, la cui regia è stata curata da Paola Rota, attrice di cinema e teatro, nonché regista di spettacoli prodotti dal Teatro Stabile di Torino, della Biennale di Venezia e del Teatro dell’Elfo di Milano.

 

Martina Di Nolfo

 

di Sasha Marianna Salzmann
traduzione Alessandra Griffoni
con Elena Callegari, Francesca Cutolo, Maria Roveran
regia Paola Rota
costumi Ursula Patzak
luci Camilla Piccioni
Teatro Stabile di Genova
Festival delle Colline Torinesi
PAV nell’ambito di Fabulamundi .
Playwriting Europe – BEYOND BORDERS?
con il supporto del programma dell’unione Europea Creative Europe e del Goethe Institut

Re Lear: il trionfo del bene sul male, è utopia o realtà?

È un Re Lear decisamente più calcato e più “underground” rispetto all’opera originale del bardo, il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti, regista teatrale romano, interpretato da un eccezionale Ennio Fantastichini, fasciato da un completo in velluto rosso. Riscritto in chiave moderna senza azzardare troppo, ripulito da lirismi di marca secentesca sostituti da qualche battuta odierna, l’opera si fa piacevolmente seguire e trascina lo spettatore per l’intera durata dello spettacolo, nonostante la lunghezza – alla quale non siamo più abituati, vista la velocità eccessiva con cui tutto scorre nel nostro tempo- sia non poco impegnativa; merito anche di un cast numeroso e pulsante che conosce davvero il lavoro dell’ attore su stesso.

Re Lear è la storia di padri che fraintendono i figli, e di figli che tradiscono i padri; è una storia intrecciata di legami di sangue infangati da menzogne e sotterfugi per un unico grande desiderio: il potere, che prende forma in svariati modi: nella dominazione, nella supremazia, nel denaro e nella sessualità. Soprattutto, però, è la storia di “animali umani” che dimostrano di essere più istintivi e affamati degli animali stessi, che non uccidono per sussistenza ma per smania di possessione e per egoismo. Ecco infatti, che la storia si ripete: Re Lear non è solamente una tragedia teatrale, ma è un affresco della violenza che domina i nostri telegiornali e i social network, un dipinto del profitto sul più debole e il riflesso di un meccanismo sociale presente fin dagli albori, che premia cioè chi tace e punisce chi parla. L’intero Re Lear è quella sensazione di olio fritto che non si ha digerito, è la nausea di una sbornia triste dopo una felice festa di carnevale all’insegna di brindisi e balli ma che, ad ogni modo, lascia una piccola speranza alle generazioni future.

“A noi spetta gravarci del peso di questo triste tempo, dire quel che si prova, e non quel che si deve”, sono queste, infatti, le ultime parole affidate ad Edgar (un toccante Gabriele Portoghese), unico superstite della tragedia che rappresenta uno spiraglio di speranza e di miglioramento per le generazioni future.

La suddivisione dello spettacolo ricorda molto la Commedia dantesca, concepita però a ritroso. Lo spettacolo si apre nel salone del palazzo del Re, con un modernissimo party colorato con tante luci e tanto spumante, con un sottofondo di musiche composte e eseguite dal vivo da Luca Nostro; un Eden contemporaneo insomma, dove spiccano abiti eleganti e colorati che caratterizzano anche i vari personaggi, e il loro stato d’animo: Lear è caratterizzato dal rosso, la figlia Cordelia ( una delicata Alice Giroldini) dal nero, le spietate sorelle di quest’ultima e i loro mariti (Mariano Pirello e Pierluigi Corallo) , rispettivamente Goneril (un’ irruenta Francesca Ciocchetti) dal blu e Regan (una sensuale Sara Putignano) dal verde. In questa prima parte si svolge il dramma delle due famiglie.

Il primo dramma riguarda Re Lear appunto, un re rinascimentale e barbaro che fa della parola il metro di giudizio dell’amore. Egli ha, infatti, deciso di abdicare e di spartire i territori del suo regno in proporzione all’amore che ogni figlia, con le sue parole, saprà dimostrare al padre. Cordelia sarà l’unica fra le tre figlie, però, che si rifiuterà di adulare il padre in questo modo, poiché fermamente convinta che l’amore puro si dimostri con i fatti e non con parole condite di reverenza; ma d’altronde questo è il dramma in cui è la parola a rivelare l’azione e non viceversa, dunque a venir punita sarà la sincerità, tanto che Cordelia verrà rinnegata come figlia dal padre; sarà, invece, la parola che non sentiamo ma che conviene dire ad avere la meglio.
Sempre in questa prima parte assistiamo a un altro dramma che si sovrappone e si intreccia alla vicenda dei Lear, e cioè quella della famiglia Gloucester composta dal Conte in questione- interpretato da un incisivo Michele Di Mauro che sfodera una straordinaria capacità di far prendere a cuore allo spettatore quella tenerezza e quell’ ingenuità tipica di un padre innamorato dei propri figli, come lo è Gloucester- e dai suoi figli Edgar e Edmund. Quest’ultimo interpretato dall’atletico Francesco Villano che ci regala tutto se stesso, in particolare durante i monologhi che sembrano essere cuciti su di lui, stregando il pubblico con l’ ambiguità feroce e distruttiva del suo personaggio.

Nella seconda parte, che si può paragonare ad un Purgatorio, si svolge la tempesta che imperversa nella brughiera, il simbolo della follia che Lear farnetica. È proprio qui che l’incubo inizia a farsi avanti, confondendosi con la realtà: ecco che gli abiti perdono la vivacità dei colori che avevano in precedenza e la musica si fa più cupa.
Ed è sempre in questa parte che prende vita un altro tema, quello della strategia che si manifesta nell’ amore opportunista delle sorelle che tradiscono prima il padre e poi i loro mariti, e nel linguaggio colmo di falsità e invidia di Edmund, un Caino invidioso del fratello, che stufo di esser il figlio “bastardo” di Gloucester è disposto a tutto, persino a denunciare il padre come spia e a farlo accecare, pur di raggiungere una posizione elevata e di riscattare la bassa stima del proprio sé .

     

Infine la terza e ultima parte: il girone infernale ovvero la guerra, che porta con sé la dissoluzione finale della stirpe di Lear e della sua famiglia, sotto una scarica di musica rock che rivela i complotti e i tradimenti. Un girone infernale dove però la morte non guarda in faccia nessuno, punendo sia innocenti sia peccatori, ed è proprio a conclusione di questa tragedia che la domanda sorge spontanea: è possibile ancora credere nel trionfo del bene sul male o è solo un’utopia? E ancora, è possibile credere nella giustizia, visto che a pagare sono quasi sempre i puri d’animo?

Siamo invasi oggi da un interessamento su alcuni temi- come quello di farsi o meno giustizia in modo autonomo- da parte degli organi politici, che è solo apparente e che poi, col passare del tempo dimostra falle, trascuratezza e poca serietà; questo è pericoloso e non è da sottovalutare, perché comporta un trionfo di ignoranza- nel vero senso della parola, cioè di non conoscenza- che sfocia in atti ingiustificabili, violenti, fascisti e razzisti (e non solo verso stranieri), che rischia di finire in un’autogestione confusa e pregna di fraintendimenti, dove distinguere poi tra carnefice e vittima diventa difficile se non impossibile. È su questi problemi, quindi, che succedono oggi come succedevano anche ai tempi del drammaturgo inglese, che dovremmo riflettere.
Scritta quattro secoli fa, tra il 1605 e il 1606, Re Lear è, purtroppo e per fortuna, come tutte le opere di Shakespeare, estremamente attuale: quanti dissidi familiari sorgono a causa di eredità? Quante morti innocenti per la spartizione di territori- penso per esempio agli israeliani e ai palestinesi – ci sono state? Quante gare si facevano nel medioevo sulla torre più alta che al giorno d’oggi mi ricorda tanto una gara a chi possiede l’arma da guerra più tossica o devastante? Riflettiamoci, e cerchiamo di affermare un po’ di giustizia nel nostro piccolo mondo: è questo il messaggio di quest’opera. Come dice Edmund nell’ultimo atto, la ruota gira e gira per tutti, e anche se le strade asfaltate che tutti intraprendono sembrano essere le più facili da percorre, non è detto che siano le più convenienti; a volte, inoltrarsi nel sottobosco può essere la strada più giusta e perché no più vantaggiosa.
C’è ancora tanto bisogno delle opere di Shakespeare in questo mondo per le generazioni presenti e per quelle future!

Martina Di Nolfo

 

Re Lear

di William Shakespeare
traduzione Cesare Garboli
con Ennio Fantastichini
e con Michele Di Mauro, Roberto Rustioni, Francesco Villano, Francesca Ciocchetti, Sara Putignano, Alice Giroldini, Mariano Pirrello, Pierluigi Corallo,
Gabriele Portoghese, Andrea Di Casa, Antonio Bannò, Zoe Zolferino
regia e adattamento Giorgio Barberio Corsetti
scene e costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
musiche composte e eseguite dal vivo Luca Nostro
ideazione e realizzazione video Igor Renzetti e Lorenzo Bruno
Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Teatro Biondo – Stabile di Palermo

 

Sei Personaggi in cerca d’autore

I sei personaggi pirandelliani cercano il loro autore sul palcoscenico del Teatro Astra dal 24 al 28 Gennaio, diretti da Luca de Fusco.

Uno dei testi teatrali italiani più importanti del Novecento; un’opera, come afferma lo stesso de Fusco, “che proveniva dal futuro, anticipando i tempi in modo clamoroso”.

Per apprenderla appieno e comprendere il motore che ha spinto Pirandello a scrivere quest’opera credo sia necessario un breve excursus storico sul dramma.

A partire dall’Ottocento il sistema di valori del dramma borghese, ossia il suo essere assoluto, primario, presente e basato su rapporti intersoggettivi, va in crisi.

Con autori come Ibsen, Cechov e Strindberg, comincia a scardinarsi il modello secondo il quale un dramma per essere tale deve essere un concatenamento di azioni mosse da rapporti interpersonali che avvengono nel momento stesso in cui noi vi assistiamo.

Si comincia a riconoscere l’impossibilità di continuare a portare sulla scena drammi di questo tipo, e ad intravedere la necessità di lasciare spazio ad altri temi, come il passato, la frammentazione dell’io e l’impossibilità dei rapporti umani.

Pirandello, agli inizi del Novecento, appena dopo la fine della Prima guerra mondiale, è proprio questo che porta in scena: l’impossibilità.

Ma impossibilità di cosa?

I personaggi, entità che provengono da un altro mondo, che esistono e vivono come il loro autore li ha concepiti, “più vivi di quelli che respirano e vestono panni; meno reali forse, ma più veri” (come dice il Padre al Capocomico), costretti a vivere giorno dopo giorno il loro dramma, senza possibilità di uscirne, non possono essere rappresentati a teatro senza perdere la loro autenticità. Ogni attore interpreta un personaggio inevitabilmente a modo suo, e lo stesso spazio teatrale non permette la rappresentazione realistica dei fatti, ma è necessario mettere in atto delle convenzioni che i personaggi non accettano.

Allo stesso tempo però essi hanno bisogno di vivere il loro dramma, dal momento che esistono in relazione ad esso. Cercano un autore perchè colui che li ha concepiti (Pirandello stesso) si è rifiutato di completare l’opera dal momento in cui si è reso consapevole della sua irrappresentabilità.

Dovevano essere predestinati al romanzo, ma sono approdati al teatro, e smaniano per avere una vita artistica. Ma forse non è il teatro la forma più adatta per quello che cercano.

Questo il punto di partenza di Luca de Fusco.

Citando lo stesso regista: “la loro vicenda, così piena di ricordi, di visioni, di particolari di splendente importanza, mi ha subito fatto pensare ad una trama che si presta ad essere rappresentata più attraverso l’occhio visionario del cinema che tramite quello più concreto del teatro”.

Il lavoro del regista nasce dal pensare ai personaggi come un esperimento in rapporto con una fase iniziale dell’arte cinematografica.

Come ci racconta Gianni Garrera “i sei personaggi rinviano ad un eventualità di un cinema parlante, in un epoca in cui il cinema era ancora muto e in cui l’ipotesi avveniristica di un cinema parlante era vista come una minaccia per il teatro”.

I comportamenti dei personaggi appartengono al linguaggio cinematografico più che a quello teatrale, grazie al quale si possono udire i sottovoce, lo zoom può passare da un primo piano ad una panoramica o ad un dettaglio e ci permette di assistere ad azioni simultanee guidandoci tra i diversi luoghi senza difficoltà.

Con questo lavoro di contaminazione tra teatro e cinema de Fusco cerca di dare ai personaggi “ciò che chiedono invano al regista”.

Il video è usato per accentuare la dimensione “altra” dei personaggi, per creare gli spazi da loro richiesti e per permetterci di entrare nei loro ricordi.

Per il resto viene mantenuta l’atmosfera esplicitata dalle indicazioni di Pirandello, anche se queste non vengono rispettate alla lettera: gli attori e il capocomico entrano dalla platea, la prima attrice fa la sua entrata con un cagnolino al guinzaglio, i personaggi, molto differenziati rispetto agli attori grazie a trucco, costumi e luci (anche se non portano le maschere), non entrano dalla platea ma dal fondale del teatro che si apre “come per magia”.

La scenografia rappresenta uno spazio teatrale, più sobrio e crudele rispetto a quello che ci raccontano le didascalie dell’autore.

A completare la grande efficacia della messa in scena c’è l’interpretazione magistrale degli attori e dei personaggi, in particolare Eros Pagni e Gaia Aprea rispettivamente nel ruolo di Padre e Figliastra.

Meravigliosa e surreale l’entrata di Madama Pace (Angela Pagano), agghiacciante la scena del bordello, indisponente il silenzio del Figlio (Gianluca Musiu), emozionante l’annegamento della bambina (non un attrice ma una bambola) dietro ad uno schermo d’acqua, sorprendente lo sparo del giovinetto (Silvia Biancalana).

Immancabile il finale in cui non è più possibile distinguere i due mondi di realtà e finzione, che ci lascia, ora come nella prima rappresentazione del 1921, senza parole.

Concludo citando ancora una volta de Fusco: “Spero di indurre ad una rilettura scenica e letteraria di un testo che parla ancora oggi alla nostra coscienza contemporanea e ci invita a farci le domande più importanti e terribili sulla natura, il significato, l’essenza stessa della nostra esistenza”.

Lara Barzon

La Turandot al Teatro Regio – Puccini ai tempi di Matrix

Una Turandot “attraverso il cervello moderno” aveva chiesto Puccini in una lettera del 18 marzo 1920 a Renato Simoni, autore del libretto con Giuseppe Adami. La grande “incompiuta” del Novecento, tratta dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi, sembra proprio abitare il palcoscenico mentale contemporaneo nel nuovo allestimento del Teatro Regio, in scena dal 16 al 25 gennaio.

Gianandrea Noseda, Direttore musicale del Teatro, che ha appena ricevuto una nomination ai 60th Grammy Awards, sceglie di fermarsi là dove si fermò Toscanini, alla prima assoluta, il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala. Si dice che a metà del terz’atto il leggendario Direttore si sia voltato verso il pubblico dicendo: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». La versione più eseguita è quella di Franco Alfano, con i pesanti tagli di Toscanini; sono da citare, inoltre, la versione di Alfano senza tagli, resa disponibile dal 1979 e quella di Luciano Berio del 2001.

Sul finale dell’opera le questioni sono aperte: non fu la morte a interromperne la creazione ma complessità compositive sul fronte musicale e drammaturgico. Il problema della Turandot è soprattutto un problema teatrale. Può un bacio sgelare una tiranna che si dedica con ferocia a decapitazioni seriali? Il melodramma ha esigenze interne di coerenza, da cui la fiaba può dirsi libera. Il disagio che si cela tra le pieghe delle due linee tematiche incarnate da Turandot-donna carnefice e Liù-donna vittima sembra irrisolvibile. Liù si presenta come l’ultimo anello della catena di donne pucciniane, martiri di una passione amorosa, vissuta come religione. Proprio sul sacrificio della dolce schiava termina l’allestimento del Regio. Noseda dichiara: «Quella fine non mi ha mai convinto. Non ho mai capito quel lieto fine esagerato». Turandot non esiste, dicono le maschere Ping Pang e Pong. Non esiste che il Niente, nel quale ti annulli!

La regia di Stefano Poda, che cura anche scene, costumi, coreografia e luci, segue questa suggestione e crea uno spazio mentale in cui l’io onirico di Calaf è chiamato a confrontarsi con l’enigma dell’Alterità. Turandot è la proiezione del fantasmatico Altro che si replica all’infinito sul palcoscenico. Ad interpretarla il soprano sloveno Rebeka Lokar, mentre Calaf è il tenore Jorge de León e Liù è il soprano Erika Grimaldi. Danzatrici e danzatori accompagnano la messa in scena e ne sono, a detta dello stesso Poda, l’anima profonda. La sua è una Turandot tanto cantata quanto coreografata, nella quale il validissimo corpo di ballo, selezionato fra centinaia di danzatori torinesi, ha consentito al regista-coreografo una scrittura motoria impeccabile, che niente ha da invidiare ai migliori pezzi di danza contemporanea presenti sulle scene oggi. Corpi seminudi, pitturati di bianco e privi di caratterizzazioni, apparentemente inanimati, riportano la materia coreica ad un incedere primitivo e misterioso, un sussulto spirituale, fra l’atletico e l’inquietante.

Lo spettacolo ha un forte impatto visivo che, pur senza compiacimenti decorativi, cerca evidentemente il gusto di un pubblico, la cui cultura visuale è nutrita da campagne pubblicitarie, serie televisive, riviste di moda e post glamour di giovani influencer. Espressamente debitore di tale immaginario si rivela tutto il materiale scenico di cui si avvale l’opera. La scena è un’unica stanza asettica, nella quale un minimalismo architettonico convive con un’estetica hi-tech da ultimo grido, mentre un’immancabile struttura circolare consente al palcoscenico di girare nei momenti salienti della recita. I costumi incrociano lo stile dei film di fantascienza, tra armi e copricapo alla Guerre Stellari, e parrucche e mantelli cyberpunk in stile Matrix, attraversando un orientalismo coerentemente riadattato ai tempi contemporanei. Orientalismo che, tra l’altro, è da sempre parte della tradizione estetica e tematica del più alto teatro europeo. La matrice cinematografica risulta inoltre dalla commistione di riferimenti che intrecciano universi culturali i più diversificati in una miscela spettacolare tipicamente post-moderna dove le possibili citazioni si sprecano. Tale ottica forse non è in contrasto con quella capacità, tutta pucciniana, di tradurre attraverso nuove estetiche i valori della modernità. Tra il fashion design e la sfilata in passerella, lo stesso futuro del melodramma sembra così traslare la sua provenienza artigianale dal campo del teatro a quello della moda. La scelta di lasciare l’opera aperta è senz’altro suggestiva perché mette in risalto il mistero del dramma e le contraddizioni che i vari finali non sono riusciti a risolvere: una scelta “di tendenza”, anche questa.

Sottolineiamo, in coerenza con gli aggiornamenti in atto all’interno della secolare industria dello spettacolo, che questa produzione è il primo contributo del Teatro Regio al progetto europeo OperaVision, piattaforma video dedicata all’opera, sulla quale sarà visibile in streaming gratuito per sei mesi a partire dal 25 gennaio, offrendosi ad una platea virtuale internazionale.

Quella di Noseda e Poda è, in definitiva, una Turandot plastica, attraente e sensuale, che contemporaneamente sa e vuole essere algida e fredda come una sala operatoria. Gli 11 minuti di applausi rendono onore al mastodontico lavoro che l’opera ha alle sue spalle.

Foto di copertina di Ramella&Giannese

 

Recensione di Tobia Rossetti e Marida Bruson