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Human Animal -FDCT

Debutta a Torino, all’interno del Festival Delle Colline Torinesi, lo spettacolo della compagnia La ballata dei Lenna, risultato del progetto vincitore di Hangar Creatività.

Human Animal. Se sei immune alla noia non c’è niente che tu non possa fare.” è il suo titolo. L’autore contemporaneo americano David Foster Wallace -e in particolare “Il re Pallido”, suo ultimo libro lasciato incompiuto-, è invece la fonte ispiratrice dalla quale Paola di Mitri decide di partire per la scrittura dello spettacolo. Un romanzo che affronta in particolar modo i temi della noia della quotidianità e dell’angoscia esistenziale che attanagliano l’uomo, oggi più che mai.

Se Wallace descrive la vita di un gruppo di funzionari della IRS (agenzia tributaria statunitense), e nello specifico la necessità di elaborare ed affrontare nel migliore dei modi la tediosità del loro lavoro, Paola Di Mitri trasporta la vicenda in Italia, concentrandosi sugli impiegati dell’agenzia delle entrate. Con alcuni di loro gli attori trascorrono un primo momento di ricerca, durante il quale raccolgono informazioni, suggestioni, pensieri, gesti e nevrosi, per poi passare ad una seconda fase di selezione e rielaborazione. Costruiscono a questo punto i tre personaggi cardine dello spettacolo – a tratti al di là e al di qua dello schermo in un’alternanza che integra e consegna talvolta personaggi cinematografici, talvolta teatrali -, all’interno di una performance che lascia ampio spazio –come d’altronde richiesto da Hangar- all’utilizzo delle nuove tecnologie, nonché ad una particolarissima interdisciplinarità.

La scenografia è scarna ed essenziale. Il palcoscenico non c’è. Di fronte al pubblico soltanto un piccolo spazio vuoto interrotto da uno schermo, dietro al quale talvolta si nascondono gli attori. Questi ultimi, infatti, in alcuni punti completano, danno voce e corpo al filmato, che s’interrompe, che continua muto, che lascia fuori campo un personaggio ora di fronte al pubblico, in carne ed ossa. Gli attori poi -bisogna precisare- non sono soltanto dei semplici attori, ma dei performer. Si dimenano sulle note di Je t’aime… moi non plus (Serge Gainsbourg e Jane Birkin) e cantano, oltre a recitare, per spogliarsi infine anche della loro maschera d’attore. O forse per svelarne un’altra, liberandosi ad ogni modo dal personaggio fino a quel momento interpretato.

La performance si divide infatti in due parti: durante l’ultima mezz’ora tutti si spostano nella sala accanto. Qui, su di una pedana, gli attori -pur continuando a recitare- hanno un colloquio diretto con il pubblico, che si vede (con grande timore) chiamato in causa. Giocano con gli spettatori, che – a questo punto- contribuiscono attivamente alla costruzione del senso dell’opera. Come fosse uno sguardo in macchina, quindi, i tre performer sono ora portatori dei pesanti pensieri dell’autore. Quei pensieri che, il 12 settembre dell’anno 2008, probabilmente lo spinsero al suicidio. Scelgono di dare voce e forma alle sue ultime parole, completando la parte mancante di quel libro, lasciato da Wallace -come già detto- inconcluso. E decidono di fare del finale un’esortazione alla vita. Un incitamento che ha come obiettivo quello di risvegliare ciascuno da quella condizione di assopimento e alienazione di cui troppo spesso oggi l’uomo è vittima.. ormai, purtroppo, senza più accorgersene. Cercano di far capire che il tempo passa incessantemente e che ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà piú. Che ci stiamo dimenticando dei veri valori, e del significato della bellezza, quella autentica. “Il mondo così com’è oggi è una burocrazia” scrive Wallace. Viviamo in un mondo troppo complicato. E’ vero. Ma ciò non può impedire (per lo meno non del tutto) di essere felici. Di vivere davvero. Di lasciarsi scompigliare e spettinare dalla vita, senza che questa si limiti a passarci sopra. O di fianco. Di riuscire ad intravedere quella meraviglia con cui un tempo eravamo capaci di vivere. Sarà forse più difficile, ma non impossibile. E il loro compito, oggi, è quello di darci un po’ più di coraggio. Di darci un piccolo spintone in avanti, per avvicinarci alla vita. Quella vera.

Distruggono il mondo/ In pezzi/ Distruggono il mondo/ A colpi di martello/ Ma non mi importa/ Non mi importa davvero/ Ne rimane abbastanza per me/ Ne rimane abbastanza/ Basta che io ami/ Una piuma azzurra/ Una pista di sabbia/ Un uccello pauroso/ Basta che io ami/ Un filo d’erba sottile/ Una goccia di rugiada/ Un grillo di bosco/ Possono rompere il mondo/ In frantumi/ Ne rimane abbastanza per me/ Ne rimane abbastanza/ Avrò sempre un po’ d’aria/ Un filetto di vita/ Un barlume di luce nell’occhio/ E il vento nelle ortiche (..)   (Boris Vian, ’51-‘52, Non vorrei crepare)

 

di Paola di Mitri
regia Nicola Di Chio, Paola di Mitri, Miriam Fieno

con Martin Chishimba, Paola di Mitri, Miriam Fieno
luci e visual concept Eleonora Diana
video e riprese Vieri Brini e Irene Dionisio 

produzione La Ballata dei Lenna
produzione esecutiva ACTI Teatri Indipendenti
sostegno alla produzione Hangar Creatività (Assessorato alla Cultura Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal Vivo), Zona K Milano, Factory Compagnia Transadriatica,
Principio Attivo Teatro
in collaborazione con Scuola Holden
vincitore bando Funder35
vincitore progetto Hangar Creatività

 

 

RAFFICHE di RIVOLUZIONE tra CORPI e PAROLE

I Motus non potevano mancare ad impreziosire – con la loro provocatoria presenza – la rassegna torinese che nella sua XXII edizione li vede coinvolti in qualità di ospiti per la quattordicesima volta. Intervistata da «Repubblica», Daniela Nicolò regista e co-fondatrice di Motus – racconta: «Venire al Festival delle Colline è come tornare in famiglia […] siamo stati presenti praticamente ogni anno con tutti gli spettacoli». Al Festival la compagnia avevo esordito nel 2003 proprio con Spelndid’s, spettacolo nel quale affonda le sue radici Raffiche – riscrittura dell’originale genetiano andata in scena al Petit Hotel di Torino dal 7 al 9 giugno.

L’opera di Genet, scritta nel 1948, ma pubblicata postuma nel 1993 è ambientata in un albergo dove una banda di gangster si ritrova accerchiata dalla polizia per aver preso in ostaggio una ricca ereditiera americana. Dopo il grande successo riscosso nei primi anni duemila, a muovere la compagnia riminese verso un nuovo allestimento di Splendid’s è stata l’esigenza di farne una versione tutta al femminile. Esigenza però ostacolata dall’agenzia che detiene i diritti dell’opera del drammaturgo francese che, imponendo il mantenimento integrale dei testi, non prevede cambiamenti di genere per i personaggi. Regole quasi paradossali, dal momento che tradimento e travestitismo sono nodi tematici ricorrenti nella drammaturgia dello stesso Genet.

Nasce così Raffiche – testo interamente originale, scritto da Magdalena Barile e Luca Scarlini – che si ispira alla stessa situazione narrativa di Splendid’s per sviluppare una riflessione sul superamento delle barriere identitarie e sulle dinamiche del potere. Un’operazione di questo genere non comporta la semplice assegnazione di ruoli originariamente maschili ad un cast di sole donne, ma prevede una scrittura appositamente pensata per la fisicità delle attrici che determina una risemantizzazione dell’intera vicenda.

Le identità dei personaggi genetiani migrano e si sfaldano nel dare vita alle Raffiche, un gruppo di misteriose mutanti che hanno rapito ed ucciso la scienziata di una multinazionale farmaceutica – simbolo dei dettami imposti dal potere capitalistico. Se i componenti di questo gruppo di lotta siano uomini o donne non è dato sapere. Ogni etichetta è qui presentata nella sua arbitrarietà e vacuità. Chiamatele “gender-hackers” o piuttosto “transtreghe”, come la stesso gruppo ama definirsi: streghe trans-moderne al cui cospetto tremano anche gli spettatori quando le vedono arrivare – imbracciate le armi e stereo alla mano – nella hall dell’hotel. È qui che ci si trova caricati sull’ascensore che conduce al luogo del delitto, nonché della rappresentazione teatrale, divenendone direttamente partecipi. Niente a che vedere con le fin troppo usurate velleità metateatrali. Le Raffiche, con passo severo e seducente, coinvolgono l’ignaro spettatore in uno spazio totalmente inedito e liminare in cui – in piena consonanza con la tematica genetiana dell’attraversamento del confine – non si possono più praticare distinzioni tra assediati ed assedianti, leader e gregari, vittime e carnefici.

Attraversamento del confine che non viene dunque declinato nella sola macro-accezione identitaria, ma assume anche i contorni più subdoli e sottili del tradimento. A condividere con le Raffiche la reclusione forzata c’è infatti una poliziotta volontariamente aggregatasi al gruppo del quale sembra inizialmente condividere i principi rivoluzionari, per poi rivelarsi determinante nell’arresto della banda stessa.

Un dispositivo drammatico con queste caratteristiche spinge alle estreme conseguenze la critica delle opposizioni dicotomiche alle quali non si può pretendere di ricondurre la fluidità pulsante del reale.

Non è un caso che i campi su cui le Raffiche giocano la loro battaglia investano tanto i corpi, quanto i comunicati, quindi le parole – quella ferocissima arma in grado di plasmare il reale pur senza contenerlo. E se con rivoluzione si intende il tentativo o per lo meno l’auspicio di trasformare la realtà, ogni slancio sovversivo – anche il più anarchico – dovrà venire a patti con le parole. Linguaggio fisico e linguaggio verbale rivelano così lo stesso carico di eloquenza.

Le parole – fastidiosamente infedeli, disperatamente necessarie – guidano il cambiamento e come tali hanno un forte potenziale politico. Ogni forma di potere, pur nei diversi gradi di legittimazione ed istituzionalizzazione, deve saper fare buon uso della retorica. Così Rafale a Scott:

Tu mi insegni, Scott, la grammatica è un’invenzione capitalistica patriarcale che regola e dispone i corpi del discorso secondo modelli imposti che vanno scardinati. Dobbiamo riappropriarci del discorso, ri-sessualizzare la punteggiatura.

No al punto e alla virgola, sì ai due punti e al punto e virgola. No all’assolutismo dei punti esclamativi, sì all’incognita aperta dalle X e dalle Y. Anche i morfemi di genere vengono sbugiardati in tutta la loro convenzionalità.

Come le Raffiche, che dividono la loro resistenza tra linguaggio del corpo e linguaggio verbale, così la sceneggiatura alterna serrati scambi di battute a momenti strettamente performativi. Il tutto brillantemente condotto da interpreti diverse per età e provenienza, ma accomunate da un carisma fuori dal comune.

Non solo dialoghi dunque, ma anche passi di danza, fatali attrazioni, rombanti colluttazioni, spari e suicidi… fino alla tragica disfatta. Quanto suggerito da Scott prima della resa lascia aperti interessanti spiragli di riflessione. Al machismo imperante di chi per farsi rispettare sa solamente esibire i muscoli, si deve rispondere anche scoprendo le caviglie e mostrando il volto struccato. E se il lusso dell’arrendevolezza – invocato sul finale – fosse la vera rivoluzione?

Cecilia Nicolotti

RAFFICHE

RAFALES | MACHINE (CUNT) FIRE

di Motus

regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

dedicato a Splendid’s di Jean Genet
con Silvia Calderoni (Jean), Ilenia Caleo (Rafale), Sylvia De Fanti (Bravo), Federica Fracassi (il Poliziotto), Ondina Quadri (Pierrot), Alexia Sarantopoulou (Riton), Emanuela Villagrossi (Scott), I-Chen Zuffellato (Bob)
la voce della radio Luca Scarlini e Daniela Nicolò
testi Magdalena Barile e Luca Scarlini

produzione Elisa Bartolucci e Claudia Casalini
distribuzione estera Lisa Gilardino
comunicazione Marta Lovato

produzione Motus
con Ert, Comune di Bologna
in collaborazione con Biennale Teatro, L’arboreto – Teatro Dimora Mondaino, Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza, Teatro Petrella Longiano
con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia Romagna

EMILY: LA POESIA DELLA SOLITUDINE

Durante la 22^ edizione del Festival delle Colline Torinesi, è andato in scena al Teatro Astra lo spettacolo Emily di e con Milena Costanzo.

Cercando di ricreare la vita della poetessa statunitense Emily Dickinson, vengono rappresentati i turbamenti di ogni adolescente: non voler uscire di casa, non voler mangiare, fare le pulizie. Semplicemente, non voler crescere, voler rimanere bloccati in una giovinezza immortale ed eterea. Un testo a tratti commovente, divertente, inquietante che, anche se a volte sembra essere poco omogeneo, porta lo spettatore a riflettere su quali siano i doveri di ogni figlio nei confronti della famiglia, quelli della famiglia verso ogni componente di essa, e quali i doveri di ogni cittadino verso la società. Perché in fondo Emily vive in solitudine perché non si sente capita, ma nasconde una grande voglia di amare, e la sua solitudine è un po’ la solitudine che è in tutti noi. Nonostante questo, nonostante i suoi problemi, viene ripudiata dalla famiglia e considerata pazza: è vietato pronunciare il suo nome e ogni domanda su di lei viene aggirata con chiacchiere futili dalla madre e la sorella.

Emily ci mostra come uno spettacolo possa colpire anche senza l’ausilio di troppi oggetti scenografici e come l’uso intelligente delle luci e della musica possa elaborare soluzioni interessanti: fondale nero, un tavolo, tre sedie e tre lampadari usati a seconda delle esigenze. La musica, che sembra non coincidere quasi mai con la drammaticità dei momenti rappresentati, aiuta invece ad aumentare il pathos, a tenere alta l’attenzione degli spettatori e a creare, all’occorrenza, momenti divertenti, anche grazie all’abilità degli attori.

Uno spettacolo che unisce la ricostruzione della vita e delle sofferenze di una delle più sensibili poetesse vissute al ragionamento sui demoni di una società che tende a nascondere chi soffre.

Alice Del Mutolo

di Milena Costanzo
regia Milena Costanzo

con Milena Costanzo
e con Alessandra DeSantis, Rassana Gay, Alessandro Mor
assistente alla regia Chiara Senesi
costumi Elena Rossi
oggetti di scena OkkO Parma
organizzazione Antonella Miggiano

produzione Fattore K
con il sostegno di Danae Festival, Olinda

 

ELEPHANT WOMAN: LA PISTOLA DELLA FOLLIA

Un altro spettacolo del ricco programma del Festival delle Colline Torinesi 2017:  Elephant Woman, di Andrea Gattinoni con Silvia Lorenzo, in scena al Teatro Gobetti.

La scena è completamente vuota: quinte e fondale neri e una luce fissa. Nel buio sentiamo  un rumore di tacchi a spillo, poi  entra una donna con un rossetto rosso, seminuda, che inizia a parlare di sé, Topazio, e della sua amante, B. Dopo pochi minuti ci da le spalle ma,  girandosi di nuovo,  ci punta addosso una pistola: proprio questo oggetto  sarà il punto di tensione di tutto lo spettacolo, perché il pubblico non riuscirà mai a staccare gli occhi dall’arma e, proprio per la sua presenza, non abbasserà mai l’attenzione nemmeno per un secondo.

Topazio è una giovane donna che decide di abbandonare famiglia, lavoro e amicizie per vivere ai margini della legalità e per dare sfogo a ogni  pulsione. Il racconto procede con l’attrice sempre al centro della scena. Si muove lentamente e,  nonostante sia sola, non fa mai sembrare vuoto il palcoscenico. Ci cattura  con la mimica e con il corpo, con la voce suadente e con i racconti della sua vita: una vita di dolore, di abusi, di solitudine e di insicurezza.

Per tutto lo spettacolo abbiamo l’impressione di trovarci all’interno della mente un po’ malata di Topazio: i suoi racconti provengono dal buio, da un incubo, e non saremo mai sicuri della veridicità delle sue parole. Ma non è questo l’importante, non è necessario sapere se siano tutte bugie o se sia un sogno. Il testo, infatti, vuole farci riflettere sul doloroso destino di alcune donne maltrattate e poi abbandonate a loro stesse. Questo non può far altro che creare esseri umani che non distinguono più la realtà dalla finzione e finiscono per relegarsi ai margini della società.

Il perno emozionale dello spettacolo è la lettura di una lettera alla madre, che non ha mai aiutato la figlia abusata dal padre: la disperazione, il dolore e la follia che ne deriva si scatenano  come una tempesta,  amplificata dall’uso di un microfono panoramico.

L’attrice Silvia Lorenzo è stata in grado di tenere alta l’attenzione degli spettatori  per un’ora di monologo. Alla drammaticità dei racconti si sovrappongono momenti comici in cui l’attrice ripete a memoria definizioni tecniche della lingua italiana o astronomiche come se fosse una voce automatica, esterna al personaggio.

Un colpo di pistola sottolinea il termine dello spettacolo, facendo domandare a tutti gli spettatori se Topazio si sia uccisa, se abbia ucciso qualcuno, o se sia mai esistita.

Alice Del Mutolo

di Andrea Gattinoni
regia 
Andrea Gattinoni

con Silvia Lorenzo

produzione Teatro Filodrammatici, Festival delle Colline Torinesi

 

Il Cielo non è un fondale – FDCT

Soli come nei sogni, così si apre Il cielo non è un fondale, che inizia proprio da un sogno, a sua volta generato da una canzone dall’omonimo titolo. In questo modo spontaneo e naturale inizia il lavoro dell’attore: sognare ad occhi aperti e lasciarsi trasportare dagli eventi. Un sogno che piano piano diventa collettivo, collocato in una scenografia scarna, dove l’unico elemento è un termosifone bianco, posto a lato della scena. In questa situazione onirica Antonio ci racconta di aver sognato Daria nei panni di una barbona e, pur avendola riconosciuta, l’ha ignorata. Da questo sogno si instaurano a catena tanti racconti sconnessi  ma legati da qualche particolare che permette il passaggio da una storia all’altra. Gli attori si interrompono nei loro racconti e tra una pausa e l’altra riprendono parola, tutto apparentemente sconnesso ma con un senso come all’interno di un sogno. Continua la lettura di Il Cielo non è un fondale – FDCT

Zoo[m]out! Some other place, some other time

La sera del 6 giugno presso la Casa Teatro Ragazzi la compagnia Th[on]gu, un duo di espressione scenica fondato nel 2013 da Guendalina Tondo e Riccardo Giovinetto, presente per la prima volta al Festival delle Colline torinesi, ha proposto una prima “versione per voce, musica e video” di Zoo[m]out, alla quale seguirà una versione integrale.

Quali sentimenti verrebbero risvegliati se si provasse a guardare il pianeta Terra come se lo si scoprisse per la prima volta? Sembra sia questo l’interrogativo attraverso il quale l’attrice invita a riflettere.  Su un palco minimale, Guendalina Tondo veste in total black, nero appunto, termine intermittente come un’insegna  Retro Wave che si accende e si spegne, nero come la metafora di qualcosa di prezioso che sfugge all’attenzione, piccoli pezzi di mondo che non vengono visti, “come fosse nero”. Ma se è una verità che dopo il nero sopraggiunge sempre la luce, tutto ciò che essa potrebbe illuminare sarebbe visibile in un baleno, anche quello che non si è mai visto. Zoo[m]out prende spunto dal romanzo di fantascienza L’uomo che cadde sulla Terra, scritto da Walter Tevis e che nel ’76 diventa un film interpretato da David Bowie. La fascinazione nei confronti dell’alieno Bowie la si può ricostruire attraverso l’elemento espressivo della luce, che diventa un presupposto necessario all’intento scenico, e a guardar bene, i lineamenti del volto dell’attrice stessa ricordano quelli delicati dell’uomo delle stelle degli anni ’70.

E se ci si trovasse catapultati  sul pianeta Terra, vestiti di silver e incapaci di comunicare in una lingua universale, e senza che nessuno se ne accorga? Su questo secondo punto di domanda sembra poggiare una critica esplicita verso la smodata e tutta moderna manìa di trasferire tutto su istantanea. Istantanea come una fotografia, istantanea come una dipartita, quella metaforica di chi fa tutto questo “senza mai guardare fuori”.

La sonorizzazione di Riccardo Giovinetto (Ozmotic), in palcoscenico insieme all’attrice, non è rimasta un elemento subordinato rispetto alla narrazione. Gesti, suoni e ambiente sono il risultato di un unico infuso.

Probabilmente Zoo[m]out vuole invitare a posare lo sguardo sul nostro pianeta (e anche sugli altri, chissà!), facendone esperienza  e percependolo non come è, ma per come si è. Per dirla con gli argentati Rockets, some other place, some other time, it’s a world deep inside of you!

Alessandra Pisconti

6 giugno 2017, Casa Teatro Ragazzi, Torino

di th[on]gu

musiche e visual Ozmotic

in scena Guendalina Tondo

con il sostegno di Campo Teatrale e Festival delle Colline Torinesi

e la collaborazione di Micron

Dust e In Verdis al TOFringe

“Il grande male del mondo è il Disagio, che abolisce la Bellezza e abolisce la bellezza della Diversità.” Così ha dichiarato Barbara Altissimo della compagnia LiberamenteUnico, durante il dibattito  alla fine dell’evento speciale ospitato nella quinta edizione del Torino Fringe Festival. È però solo una delle tante  stimolanti riflessioni che hanno concluso la serata di martedì 16 maggio alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani,  serata dedicata alla proiezione di due opere video.   L’obiettivo era quello di  mostrare al pubblico gli “invisibili”,  le persone che la società emargina facendole scomparire agli occhi, di mettere in luce quelli  che normalmente passano inosservati. Ma farlo senza cedere alla retorica.

Il primo dei due video, il documentario Dust – The wanted life di Gabriele Falsetta, ha mostrato  come la città di Torino si sia dimenticata per anni di bambini che, rinchiusi tra le mura dell’ospedale Cottolengo per essere stati colpiti in tenera età da qualche disturbo mentale,  hanno avuto l’unico desiderio di  poterne uscire, un giorno. Con questa speranza,  di anni ne sono passati fin troppi, tanti da far appassire quei sorrisi gioiosi e infantili. Nessun principe azzurro è arrivato a salvarli come nelle fiabe, ma qualche anno fa si sono ritrovati a far parte di questo documentario grazie a delle volontarie molto determinate che videro in questo progetto  una vera “battaglia per la dignità”. Il documentario, tratto dal progetto teatrale POLVERE  e prodotto da Kess Film e Frömell Films Production,  ha ottenuto segnalazioni e riconoscimenti.

Il secondo video, Uno studio per In Verdis, produzione di  LiberamenteUnico e ideazione di Azul, ha come sottotitolo Appunti di viaggi, nella speranza che il prossimo anno il progetto iniziato possa avere un seguito. Il percorso iniziato quest’anno ha compreso non solo ragazzi disabili, ma racconti di adolescenti e non, ognuno con una propria lotta da combattere, cercando di mettere a nudo le proprie fragilità. Attraverso il teatro e  il corpo i ragazzi hanno avuto modo di mettersi in rapporto con realtà diverse dalla loro e imparare dall’esperienza dei loro compagni. Un ottimo lavoro di condivisione e di rispetto verso l’altro. È un progetto di Formatico, in collaborazione con la Cooperativa Valdocco e a cura di Barbara Altissimo e Ivana Messina, ovvero le conduttrici di entrambi i percorsi che hanno anche partecipato al dibattito alla fine delle proiezioni insieme a Rita Fabbris dell’Università degli Studi di Torino, a Beppe Quaglia della Cooperativa Valdocco e ad alcuni giovani protagonisti del progetto In Verdis.

Spero si presenterà  l’occasione di vedere in scena uno spettacolo realizzato da coloro che ne hanno fatto parte, per avere davanti agli occhi, in tutta la loro concreta presenza, quei volti, quei corpi e quei vissuti. L’intensità durante la discussione finale e l’emozione di tutti erano palpabili. Forse per chi, come me,  non conosceva i protagonisti, sarebbe stato di  impatto ancora maggiore poter conoscere più a fondo ciò che  il video ha mostrato per accenni.  L’idea che il diverso sia un problema da gestire e da guidare  dall’esterno, ha provocato la falsa necessità di dover essere necessariamente tutti uguali, tutti “normali”. Queste testimonianze video, a parer mio soprattutto Dust, hanno voluto inquadrare il mondo che conosciamo da un’altra prospettiva: come se quello che, nella realtà di tutti i giorni, viene percepito come “sbagliato”, come un “errore”, avesse potuto finalmente mostrare il proprio, speciale, valore.

Alessandra Botta

“SIATE CORAGGIOSI”

Quando si parla di Angelo Tronca, non si fa certo un nome sconosciuto al panorama teatrale torinese. Tra i tanti artisti proveniente da tutta Italia che in questi giorni hanno letteralmente invaso la città con il Torino Fringe Festival, arrivato alla quinta edizione, Angelo ha portato la bandiera locale andando in scena con il suo Don Chisciotte Amore Mio insieme al collega Francesco Gargiulio, volto altrettanto noto che interpreta il fedele compagno Sancho, Astrid Casali nel ruolo di Roberta, Beniamino Borciani per musica ed effetti sonori, con la regia di Alberto Oliva. Lo spazio è quello del “De Amicis art bistrot” in Corso Casale, che a un primo impatto lascia un po’ spiazzati. Scendiamo in quella che sembra una cantina e ci accomodiamo su sedie sistemate in file a forma di “L” che descrivono un luogo piuttosto stretto, tanto che ci si chiede: ma riusciranno a muoversi qui dentro? Ebbene, ciò che ci fa capire che ci troviamo di fronte ad attori molto bravi è anche la capacità di prendere uno spazio così piccolo e di renderlo infinito: Don Chisciotte e Sancho Panza viaggiano in groppa ai loro cavalli per praterie sconfinate, arrivano fino a una locanda dove trovano riposo, per poi imbarcarsi su una nave e solcare mari sconosciuti. E il pubblico riesce a vedere e a percepire ogni singolo chilometro percorso dai nostri epici eroi, che pur si muovono in pochi metri di stanza.

Tutto ha inizio con dei ringraziamenti, come ogni poema epico che si rispetti. Viene ringraziato Dio per l’ispirazione ricevuta. Poi il teatro, inteso come pavimento senza il quale si sprofonderebbe giù, e come luci che illuminano così bene i teatranti permettendo agli spettatori di assistere allo spettacolo. Infine si ringrazia il pubblico tramite una giusta quanto semplice osservazione: sarebbe potuto starsene a casa o fare altro, e invece è venuto. Questi i presupposti che aprono un’ora di risate e di meditazione, di battute quasi demenziali che si muovo in parallelo a concetti estremamente seri. Il tema del coraggio, come ci dice l’autore, domina tutto il testo. Ma si tratta di un coraggio timido, che agisce in sordina. I due protagonisti, per quanto a volte molto plateali, non sono eroi gradassi e pieni di sé che pensano di essere sempre nel giusto. Li ascoltiamo parlare delle loro difficoltà e delle loro paure e non ci sembra quasi che siano veri eroi. Del resto, come dice lo stesso autore, Don Chisciotte è un eroe per necessità, ma non per questo è meno eroe dei più classici degli eroi.

“Siate coraggiosi”, questo è l’augurio finale che l’attore riserva al suo pubblico.

Uno dei primi momenti a cui assistiamo è un divertentissimo elogio di Sancho alla caffettiera. Inginocchiato davanti a questa, posta sopra a un tavolino come fosse una reliquia, l’attore viene travolto da un sentimento di profonda gratitudine per quell’oggetto di metallo che sbuffando ogni mattina permette di ricevere quella scossa di energia necessaria per cominciare la giornata. Il pubblico capisce subito, e non potrebbe essere più d’accordo con l’attore.

Come narra la storia, i due cominciano a viaggiare, diventando cavalieri erranti della Mancha. Quando scendono dai loro destrieri, il punto di vista si sposta più “in basso”. Sistemati nelle loro stalle, legati e con poco o niente da mangiare, i due animali si confrontano. Il cavallo di Don Chisciotte, Ronzinante, chiede all’asino di Sancho Panza se secondo lui i due si stancheranno, prima o poi. “Magari muoiono”, si augura a un certo punto. L’asino è esasperato dalle lamentele di Ronzinante. Innanzi tutto, obbietta, come mai potranno stancarsi se se ne stanno seduti in groppa a loro due, e loro due continuano a portarli in giro? Poi quasi si offende al desiderio espresso dal cavallo, che augura la morte del suo padrone. Lo odia, sì, ma non vuole che si parli male di lui: l’asino prova sentimenti contrastanti. In una scena successiva, i due animali sono legati a un palo o a una staccionata probabilmente, noi vediamo solo le due corde intorno ai colli che si tendono, tenute saldamente da due spettatori. Questa volta Ronzinante chiede all’amico asino cosa pensa del futuro. Gli racconta un sogno fatto recentemente, e nel sogno l’asino, stremato per il caldo e per l’assenza di cibo, cade a terra morto mentre dei corvi staccano pezzetti di carne via dalla sua groppa. A questo punto l’asino perde la pazienza, e si sfoga in un esilarante considerazione su questi uccelli: in un mondo dove sono tutti vegetariani, vegani, celiaci e intolleranti, questi corvi non potevano mangiare semi come fanno tutti gli altri? Dovevano proprio accanirsi sulla sua carcassa?

Particolarmente divertente è la scena dove l’autore dichiara di non aver scritto più niente da quel momento in avanti, finale compreso. Il collega rimane giustamente spiazzato, trovandosi senza più niente da dire al pubblico, e chiede furioso come mai non ci sia un finale. Così l’autore ci confessa di essere stanco, di essersi annoiato mentre scriveva e di aver semplicemente smesso. Giustamente si è fatta una certa ora e ci dice di avere fame e che vorrebbe andare a mangiarsi una pizza, e qui di nuovo il pubblico non potrebbe sentirsi più vicino all’attore, alla faccia dell’immedesimazione. Ma questo non può assolutamente essere: lo spettacolo deve andare avanti. Le idee che escono fuori sono molte. Perché non concludere andando sul simbolico, si chiede Angelo, come per esempio riempire di mollette la faccia del collega. Francesco sembra entusiasta, propone addirittura di giocare la carta del teatro d’avanguardia. “Mi spoglio!” esclama, come se fosse l’idea più originale di tutti i tempi. In questo modo i due aprono un siparietto sul fare teatro oggi, non lasciandosi sfuggire l’occasione per lanciare un’acuta e sottile critica che, personalmente, mi ha divertita molto.

Così, mentre uno corre in un angolo a inventarsi qualcosa all’ultimo minuto, l’altro si esibisce in una serie di barzellette sul tema “Dottore, dottore!” per intrattenere il pubblico che attende. Alla fine l’autore propone il suo finale: i protagonisti muoiono. Non troppo originale, secondo il suo collega.

Queste e tante altre sono le trovate di Angelo Tronca che possiamo gustare in questa rappresentazione. Ultima in ordine di tempo, una chicca che ha lasciato il pubblico incredulo e ancora una volta molto divertito. Sancho e Don Chisciotte si trovano in mezzo a un temporale, di notte, stretti stretti sotto un ombrello. Nella stanza però, comincia a piovere sul serio: fissata in cima all’ombrello c’è una bottiglia di plastica, forata, con dell’acqua dentro. Dai fori della bottiglia l’acqua comincia a uscire e a colare dolcemente dalle punte dell’ombrello, incorniciando i due in piccole cascatine di “pioggia”. Un tocco di classe per finire in bellezza.

Eleonora Monticone

DON CHISCIOTTE AMORE MIO

testo di Angelo Tronca

regia di Alberto Oliva

musiche di Beniamino Borciani

costumi di Lucia Giorgio

Don Chisciotte – Angelo Tronca

Sancho – Francesco Gargiulo

Roberta – Astrid Casali

 

Teatro Decomposto o L’Uomo Pattumiera – Torino Fringe Festival 2017

Tra gli spettacoli del Torino Fringe Festival 2017 ha debuttato Teatro Decomposto o L’Uomo Pattumiera, testo del drammaturgo Matei Visniec con la regia di Girolamo Lucania della compagnia Parsec Teatro.
Lo spettacolo si tiene all’interno dei locali del Cap10100. Al cento della platea troviamo un tavolo con tre sedie e distribuiti attorno alcuni oggetti di scena, tra cui anche le uniche fonti di luce,  e dei divanetti disposti a cerchio attorno a questo particolare spazio scenico. L’atmosfera è intima e molto particolare, del tutto inusuale e preannuncia uno spettacolo coinvolgente.

”Questi testi sono i pezzi di uno specchio rotto. C’è stato, un tempo, l’oggetto in perfetto stato. Rifletteva il cielo, il mondo e l’animo umano. E c’è stata, non si sa quando, né perché, l’esplosione. Il gioco consiste nel cercare di ricostruire l’oggetto iniziale. Ma il fatto è impossibile perché lo specchio originario nessuno l’ha mai visto, non si sa com’era.”

Matei Visniec nella prefazione del suo Teatro Decomposto o l’uomo pattumiera invita i lettori e i registi a scomporre  e ricomporre l’opera a proprio piacimento. Questa ricomposizione personale è possibile grazie ai continui rimandi tematici presenti nei ventiquattro testi monologici e dialogici. Sulla traccia delle indicazioni del drammaturgo, Girolamo Lucania ha portato in scena uno spettacolo con moduli che cambiano disposizione ogni volta che viene messo in scena.

I frammenti contengono aspetti grotteschi e assurdi, sono pregni di inquietudine e ci mostrano la solitudine e alienazione dell’uomo contemporaneo.
Un uomo ci narra di come dopo la guerra siano state inventate delle macchine che raccolgono i corpi dei morti, provvedono a seppellirli e fare le condoglianze ai parenti del defunto. Ci dice di essere un tecnico che ripara queste macchine quando si guastano e che nel tempo libero si diletta a scrivere poesie sulla natura.
Ci viene raccontata la storia del uomo che passeggiando la notte si ritrova ad essere divorato in pochi minuti da un mostriciattolo portato a passeggio da una signora. L’uomo dice di non provare dolore ma anzi piacere, ci descrive come gli viene mangiato il cuore e  tutto si conclude con l’attimo in cui il mostro lo guarda in faccia prima di mangiargli gli occhi.
Veniamo coinvolti nella storia dell’uomo pattumiera, ogni giorno riempito di spazzatura, alla ricerca di una risposta sensata per comprendere il perché della sua condizione di cestino umano. Ma non troverà risposte e col passare del tempo rischierà la vita.

“Mi scusi le sembro una pattumiera? ”
“Si, signore. Del tutto. ”
“Ma è impossibile veramente… Come potrei essere io una pattumiera? ”
“Non lo so,signore, ma lei è esattamente questo.”

Un verme realizza di essere parte del universo e prima di riuscire ad uscire da una mela viene mangiato. Un uomo si trova all’improvviso da solo al mondo, si abitua a questa condizione e vive in solitudine per anni finché un giorno inizia ad essere perseguitato da squilli di telefoni. Un cavallo decide di perseguitare un uomo, attendendolo sotto casa e seguendolo ovunque. Queste e altre sono le storie scritte da Visniec e rappresentate in scena dagli attori Stefano Accomo, Jacopo Crovella e Annamaria Troisi. Tra un frammento e il successivo ci viene interpretata anche la storia dell’uomo all’interno del cerchio. Basta prendere un gessetto e disegnare un cerchio per isolarsi in una dimensione in cui nessuno ti può disturbare. Questo racconto è il più suggestivo se si pensa alla disposizione delle sedute. Le luci si fanno  soffuse, poi si spengono,  per riaccendersi a sottolineare particolari passaggi.

Il lavoro realizzato da Girolamo Lucania fa sprofondare, per un’ora circa,  lo spettatore in un mondo assurdo,  nel teatro  inquieto e ossessivo di Matei Visniec.

Andreea Hutanu

Teatro Decomposto o L’Uomo Pattumiera
Di Matei Visniec
Regia Girolamo Lucania
Habitat scenotecnico e regia video Andrea Gagliotta
Con Stefano Accomo, Francesca Cassottana, Jacopo Crovella, Annamaria Troisi