Lo spettacolo, andato in scena il 17 gennaio 2017 alle Fonderie Limone di Moncalieri, è una drammaturgia a sei voci. Scenografia di Paola Comencini, disegno e luci di Gianni Staropoli e regia di Francesca Comencini (regista di “Gomorra la serie”). Interpretato dalle bravissime Bianca Nappi, Lunetta Savino, Carlotta Natoli, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli e Mia Benedetta che ne ha curato insieme alla regista i testi.
Sei storie di donne protagoniste, a vario titolo, dell’eccidio di uomini a loro cari nelle Fosse Ardeatine quando nel 1944, a seguito dell’attentato di Via Rasella, i nazisti coadiuvati dai fascisti si vendicarono con atrocità devastante contro uomini colpevoli di aver difeso il loro onore, amor di patria e libertà. A causa della morte di 33 soldati delle SS furono arrestati e uccisi 335 italiani, l’ordine era “per ogni tedesco ucciso dovevano morire 10 italiani”.
Una voce fuori campo ci ricorda che non siamo di fronte ad uno sceneggiato né a racconti di fantasia, ma a testimonianze dirette raccolte da Alessandro Portelli, uno dei principali studiosi della storia orale, che ha ispirato la regista. Lo spettacolo, incentrato sulla memoria e sulla necessità di ricordare, mette al centro la figura femminile ricordandoci quante donne coraggiose hanno partecipato attivamente come partigiane o compagne di partigiani. Non c’è ricordo più forte di chi realmente l’ha vissuto, ricordo che con grande abilità le sei attrici hanno incarnato con molta emotività e sensibilità tanto da non distinguere più l’attore dai personaggi realmente esistiti. Sei monologhi carichi di emozioni, ricordi e qualche nostalgico rimpianto. Le tre donne partigiane (Bianca Nappi, Mia Benedetta e Chiara Tomarelli) rievocano in tono freddo, duro e umile le gesta violente quanto necessarie compiute. Le donne non partigiane, con le eccellenti interpretazioni di Lunetta Savino,Carlotta Natoli e Simonetta Solder, invece, raccontano con più pathos quei momenti di intime sofferenze e di privazioni vissute per la mancanza dei loro cari (padri e mariti).
Viene rappresentato un lutto mai veramente rielaborato perché per anni la storia non ha mai riconosciuto e ricordato abbastanza il sacrificio e il supplizio che quegli uomini e indirettamente quelle donne, ora finalmente unite nel ricordo, hanno vissuto per difendere un’ideale nobile e la patria. E’ un lutto strano, un lutto di figlie, madri e vedove assenti. Assenti perché per anni non hanno potuto raccontare, perché emarginate, perché parenti di antifascisti caduti; assenti perché madri sole con figli da accudire. Non avevano avuto neanche il tempo di piangere. Assenti perché non sapevano nulla, avevano visto arrestare i loro cari, avevano immaginato e anche sperato che fossero stati deportati nei campi di concentramento. Invece no, un trafiletto su “Il Messaggero” il giorno seguente diceva: “L’ordine è già stato eseguito”. Non restava che riconoscerei cadaveri quasi irriconoscibili. Colpisce una scenografia scarna ma d’impatto, essenziale ma non spoglia: in primo piano le sei sedie e in quinta tanti cappotti appesi quante furono le vittime. L’attenzione è tutta focalizzata su quelle sei donne illuminate da una luce lieve. Sono sei voci che come un’orchestra ben diretta diventano un solo afflato di dolore ma anche di fiducia. E quando lo spettacolo, che ha tenuto un silenzio ingombrante in sala, arriva al finale, le sei donne si raccolgono sotto i cappotti come fossero un’unica persona e a chiudere la pièce teatrale viene suonata la canzone Sempre di Gabriella Ferri. Le attrici sono sensibilmente commosse, quasi consapevoli che non ci sarà mai un altro ruolo che le farà ritornare a essere quelle donne così fragili ma forti, così comuni ma eroiche. A fine spettacolo tutto il pubblico le richiama con applausi svariate volte dalle quinte e le attrici rientrano sempre ringraziando e riapplaudendo a loro volta il pubblico.
Un enorme letto, posto su un piano inclinato verso il pubblico, domina la scena. Gli spettatori osservano, o per meglio dire “spiano”, come guardando attraverso le veneziane della camera da letto, l’aspro scontro che si scatena fra i due protagonisti, Yona e Leviva, sposati da trent’anni. Imprigionati nella routine di una vita ormai consumata e monotona, che per Yona è diventata così insopportabile da spingerlo ad alzarsi, in piena notte, e a svegliare la moglie, scaraventandola a terra con tutto il materasso, chiedendole: “Perché sto con te Leviva?”. E mentre lei cerca di placarlo, di parlargli con calma, lui, insultandola, si veste e prepara la valigia, pronto ad andarsene, per staccarsi da quella vita che ormai gli si stringe addosso come una prigione. A questo punto l’iniziale calma di Leviva viene meno. Anche lei comincia a rispondere aspramente alle offese del marito, dando così inizio a uno scontro spietato, dove i due infieriscono l’uno sull’altro, sputandosi addosso i rancori, le frustrazioni, le delusioni , incolpandosi a vicenda di non avere avuto la vita che avevano sognato. Quella camera matrimoniale, simbolo di intimità e affetto, si trasforma così, sotto lo sguardo del pubblico, in una sorta di ring, dove la coppia si affronta con ironia e ferocia. Sarà l’arrivo di un terzo personaggio, Gunkel, l’indiscreto amico di Yona, straziato dal celibato e dalla sua vita desolata, a portare a una sorta di svolta nel conflitto. Infatti, dopo la sua comparsa, Yona mette fine al suo proposito di andarsene e si arrende alla realtà delle cose. Lui non può andare via, gli manca il coraggio di apportare un vero cambiamento, perché ciò che lo tiene ancorato a quella vita che ormai disprezza è la paura schiacciante di rimanere soli, “soli nel buio della notte”. Ed ecco quindi la rivelazione che si spiega davanti ai due, loro stanno insieme, e staranno ancora insieme, continuando ad andare avanti nel loro quotidiano lavoro di vivere, preferendo quella vita grigia e ormai spenta, piuttosto che affrontare la solitudine. Solitudine che alla fine giunge comunque, Yona muore, l’infarto lo spegne, in quel letto che ha dominato la scena.
Con un’ottima recitazione, gli attori hanno saputo esprimere appieno la triste realtà in cui vivono i loro personaggi. Carlo Cecchi, con una recitazione un po’ trascinata, con delle frasi biascicate e il passo strisciante, ha saputo mostrare l’angoscia e lo sfinimento interiore del personaggio di Yona. Accanto a lui Fulvia Carotenuto, con una voce squillante e decisa, ha interpretato e ha reso vivo il personaggio di Leviva. Buona anche la recitazione di Massimo Loreto nei panni di Gunkel.
La regia di Andrée Ruth Shammah, grazie al grande lavoro degli attori, ha saputo mettere in scena al meglio il testo di uno dei maggiori drammaturghi israeliani, Hanoch Levin, poco conosciuto e rappresentato in Italia. Un autore criticato da coloro che non apprezzano il suo approccio libero e sincero nel raffigurare i tabù, lo stile di vita e il modo di pensare della sua gente. Il suo modo di rappresentare con sincerità il mondo che vedeva, senza censure o perbenismo, gli ha permesso di rendere vivi, veri, i suoi personaggi. Di creare un testo che svela le ombre e le meschinità che si celano dietro a ognuno di noi, e che fa riflettere sulle pieghe amare della vita e sulle debolezze dell’animo umano.
Per la terza volta, il teatro Bellini di Napoli ha ospitato lo spettacolo Slava’s Snowshow con la regia di Viktor Kramer e Slava Polunin riuscendo ancora a far sognare grandi e piccini.
Con una scenografia semplice fatta di stelle, costumi buffi, trucco appariscente e trovate tecnico-artistiche geniali, Slava e i suoi clown accompagnano il pubblico in un viaggio poetico, malinconico ed emozionante, trasformando il teatro in un luogo sorprendete.
Ma chi è Slava?
Nato in una piccola città russa, trascorre l’infanzia a stretto contatto con la natura sviluppando una grande creatività. Inizia il suo percorso di clown a Salisburgo che lo porterà a studiare mimo e a cambiare la figura del clown del XXI secolo; una figura non più legata al circo ma libera e teatrale.
Lo spettacolo è anarchico come anarchici sono tutti i clown che si muovono sul palco e tra il pubblico. Tutto è possibile: può piovere, nevicare, ci si può trovare incatenati in una gigantesca ragnatela o in mezzo a una bufera, si possono smarrire oggetti o trovarsi in una spa.
Quello che fa Slava è spostare la quarta parete, quella parete immaginaria, che divide il pubblico dagli attori, creando un muro protettivo tra il teatro Bellini, luogo per due ore fantastico e il resto del mondo.
Il grammelot, con intercalari partenopei, è l’unico momento in cui il clown interrompe una musica narrativa, sempre presente. Una musica che accompagna movimenti precisi e silenziosi, ritmati e ben incastrati nello spazio scenico, ricordando il lavoro pantomimico portato avanti da due dei grandi artisti che lo hanno ispirato: Charlie Chaplin e Marcel Marceau.
La tenerezza, la semplicità e la fisicità di Slava coinvolgono tutto il pubblico. Il clown con la sua tragicommedia e travolgenza conquista tutti: dai più piccoli ai più grandi. Un pubblico in balia della follia dei clowns, un pubblico che deve sapersi divertire lasciandosi andare, dimenticandosi della propria età e che forse deve avere un po’ di pazienza.
Sembra non esserci una narrazione in Slava’s Snowshow per cui la forza dello spettacolo non va trovata nella storia, ma nelle emozioni, nelle sensazioni e nello stupore che le trovate artistiche e la presenza fisica dei clown, suscitano. Tutto è fuori dalle convenzioni e per un attimo non si comprende se si è pagato un biglietto per uno spettacolo teatrale o circense, se si è adulti o bambini o se si è fuori luogo, perché non si sono portati i nipotini a seguito. Ma una cosa è certa, l’esperimento di Slava riesce solo se ci si ricorda che si è stati bambini, tutti.
La tournée, per chi non volesse perderla, approderà a Bergamo e a Bologna rispettivamente a febbraio e a marzo.
È consigliato portare il bambino che è in ogni adulto; magari senza essere passati prima dal parrucchiere e non indossando quella giacca di camoscio che tanto ci piace.
Il MINI SPECIAL side-show delle sorelle Alvarez, accompagnate dal venerato Bosis, viene portato in scena da Cinzia Cigna e Giorgia Goldini ogni martedì sera al Teatro della Caduta di Torino in via Buniva 24, con l’accompagnamento musicale di Niccolò Bosio alla fisarmonica, Cecile Delzant al violino e Ariel Verosto Pascaud, al flauto traverso, chitarra e pianoforte.
Lo spettacolo replica ogni settimana dal 12 Gennaio 2016 a questa parte, ponendosi come un insolito ed improbabile esempio di quel mondo “andato”, dal gusto teatrale retrò, un po’ esotico e un po’ bizzarro, a tratti grottesco, che le sorelle Alvarez, attrici, impresarie, medium, cantanti, danzatrici, addomesticatrici di serpenti ed infinite conoscitrici dell’animo umano, portano avanti da ormai più di un anno.
Si rivolgono al pubblico come a volerlo risvegliare da un sonno spirituale, catapultandolo però al tempo stesso in un universo surreale quasi magico, fatto di trucchi, riti, profezie ed evocazioni, inframezzati da canti e balli.
Ci sono poi una serie di artisti che, inoltrandosi nello spettacolo, vengono presentati dalle Alvarez: chi canta una canzone provocatoria seduto al centro del palco con la chitarra in mano, chi recita un monologo comico, chi prescinde da ogni canone interpretativo lasciandosi andare completamente al flusso delle emozioni, chi porta in scena uno spezzone dello spettacolo teatrale della propria compagnia e, ancora chi, direttamente dalla platea, sale sul palco improvvisando qualcosa. Non mancano quindi gli interventi del pubblico, che molto familiarmente partecipa in modo attivo alla finzione-condivisione che si è creata nel corso della serata.
Quello in cui si realizza il MINI SPECIAL side-show, insomma, è un ambiente che coinvolge, sia in ambito spettacolare, sia per quanto concerne il teatro in tutte le sue forme, un piccolo covo nascosto nelle vie di Vanchiglia che raccoglie artisti emergenti senza pregiudizi, ne crea qualcosa di originale e straordinario pur mantenendo quel sapore semplice e confidenziale tipico degli ambienti culturali alternativi, un rifugio artistico per chi non trova voce altrove, una tana che crea l’Atmosfera con la A maiuscola, quella capace di una matura esperienza teatrale nonché conoscitiva.
Per questo e per mille altri motivi si può dire che lo spettacolo abbia riscosso un notevole successo, e laddove il pubblico gradisce, il fantomatico cappello che serve a sostenere le spese del teatro, facilmente, si riempie.
Il lavoro di vivere è una commedia “crudele e beffarda” di Hanoch Levin, autore israeliano, molto rappresentato in Europa. Andrée Ruth Shammah traduce e adatta il testo dall’ebraico, definito da diversi critici di alta complessità. A completare l’opera, che è stata in programmazione al Teatro Gobetti di Torino dal 17 al 22 gennaio 2017, sono Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto.
Il lavoro di vivere ha bisogno di soli tre attori per portare in scena una scatenata crisi coniugale, che si realizza sul palcoscenico nel quale campeggia al centro un bianco letto matrimoniale. Ma ascoltando con attenzione il lungo monologo di Yona (Carlo Cecchi) si scopre che è in gioco qualcosa di più e di diverso del suo matrimonio con Leviva (Fulvia Carotenuto).
Sono vite insoddisfatte. Due amanti incapaci di amare. Si sentono scaduti, abituati ormai alla decadenza del corpo e dei sentimenti.
Yona è un cinquantenne in crisi di mezz’età. Una notte si alza dal letto e s’interroga su chi dorma al suo fianco. Leviva è una donna concreta e leale, innamorata, forse, fin da minacciare il suicidio pur di non essere lasciata dal marito. Al culmine del litigio spunta un visitatore, un amico: Gunkel. L’uomo, in cerca solo di un’aspirina nel bel mezzo della notte, non lascia l’abitazione prima di aver dimostrato che è la paura della solitudine ad aver inchiodato i due coniugi per trent’anni l’uno all’altra. Se ne va lasciando una forte amarezza in quella stanza da letto che assomiglia sempre di più ad un ring.
Le commedie di Levin descrivono battaglie quotidiane della piccola gente, collocando l’azione in uno spazio ristretto. Questo testo in particolare riesce ad esprimere in modo non banale la durezza di una vera e propria lotta verbale, crudele ed ironica allo stesso tempo.
Il teatro di questo autore chiude le porte agli eroi e accoglie i cosiddetti “perdenti”, vestendoli di una vena poetica che li avvolge e li rende memorabili.
Martedì 10 Gennaio 2017 debutta al Teatro Carignano di Torino “Natale in Casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, con laregia di Antonio Latella.
La tragicommedia è stata scritta nel 1931 e De Filippo la porta in scena con la sua compagnia fino agli anni Settanta, apportando continue modifiche. Attraverso la figura del protagonista Luca Cupiello, che cerca di riunire la famiglia ispirandosi all’ideale del presepe, che diventa per lui quasi un’ossessione, l’autore vuole mettere in evidenza l’impossibilità di ricreare il nucleo familiare, ormai sfasciato, solo durante una ricorrenza annuale come il Natale.
Antonio Latella supera il naturalismo della rappresentazione di De Filippo, rivolgendosi al pubblico attraverso simboli e invitandolo a immaginare il contesto in cui si svolge la storia. Il sipario si apre rivelando una disposizione lineare e simmetrica degli attori, con al centro il protagonista, Luca Cupiello, interpretato da Francesco Manetti, vestito di bianco, diversamente dagli altri personaggi che indossano abiti di tonalità scure e con gli occhi coperti da una mascherina. Al segnale del bastone di Luca, immagine della malattia incombente, tutti i personaggi iniziano a camminare verso il proscenio mentre dietro di loro viene calata una grande stella cometa, che rimanda al presepe tanto amato dal protagonista, e unico oggetto della scenografia presente nel primo atto. Latella utilizza pochi oggetti di scena, ma fortemente simbolici. Infatti ad ogni personaggio nel corso del secondo atto verrà attribuito un “pupazzo” raffigurante un animale che lo rappresenta (ad esempio Nicolino ha un maiale che rimanda ai suoi comportamenti rudi verso la moglie Ninuccia), ad eccezione di Concetta, moglie di Luca, che traina un carro grande quanto il peso delle vicende familiari che ricadono tutte sulle sue spalle. Nel terzo atto invece l’oggetto predominante è una grande culla, all’interno della quale si trova Luca ormai in fin di vita, circondato dai familiari disposti a formare il presepe, che richiama il tanto agognato sogno familiare del protagonista, che a quanto pare può realizzarsi solo in prossimità della morte. È chiaro dunque che Latella riduca la scenografia lavorando su immagini metaforiche che diventano macroscopiche.
Tornando al primo atto, dopo il posizionamento della stella cometa, gli attori, sempre su segnale del bastone di Luca, iniziano a recitare coralmente e fedelmente le didascalie mentre vediamo Luca che muove la mano come se stesse scrivendo: Latella sembra così voler sottolineare la fedeltà al testo eduardiano immettendo eccessi di teatralità, ad esempio quando gli attori pronunciano, all’interno delle battute, anche gli accenti (gravi, acuti o circonflessi) accompagnandoli con movimenti che ricordano passi di danza. Inoltre Luca “scrive” l’opera mentre si sta compiendo quasi per ricordare al pubblico la presenza dell’autore, poiché la storia dello spettacolo è un patrimonio di confronto che non deve essere dimenticato tanto che, nel secondo atto, risuona costantemente la voce di Eduardo De Filippo “mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”, per rammentare la sua presenza persistente, mentre gli attori si guardano spaesati attorno, come per cercarlo.
Da segnalare sono sicuramente due aspetti: in primo luogo l’uso sapiente delle luci, statiche per quasi tutto lo spettacolo e che mettono così in risalto l’intensità delle azioni e dei sentimenti, che diventano poi intermittenti e artificiose a metà del secondo atto, dove la tensione accumulata a causa del triangolo amoroso che vede protagonisti Nicolino, Ninuccia e Vittorio, esplode in una danza frenetica durante la quale risuonano versi di animali come in una “giungla” di conflitti familiari. Nel finale le luci tornano a creare un’atmosfera cupa, che rimanda all’incombenza della morte, e forti chiaroscuri che rendono la scena come un dipinto. In secondo luogo, gli attori sono molto abili a passare dall’italiano delle didascalie al dialetto napoletano delle battute e dei dialoghi repentinamente, in particolare possiamo mettere in evidenza la bravura di Monica Piseddu, che interpreta Concetta.
È rilevante il cambiamento apportato da Latella al finale: il figlio Tommasino uccide, soffocandolo con un cuscino, Luca, con l’approvazione di tutti i presenti, ponendo così fine alle sue sofferenze. Da un lato questo può essere considerato un gesto di amore e pietà nei confronti del padre, nonostante per tutta la vicenda Tommasino si sia dimostrato ingrato e scansafatiche, dall’altro potrebbe anche essere uno spunto del regista per esortare le nuove generazioni a fare tesoro dell’insegnamento della tradizione ma, al contempo, a superarla, rinnovando e sperimentando, facendo così rinascere il teatro.
Alice Del Mutolo Stefania Pero
NATALE IN CASA CUPIELLO di Eduardo De Filippo regia Antonio Latella con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone,
Emilio Vacca, Alessandra Borgia drammaturga del progetto Linda Dalisi scene Simone Mannino, Simona D’Amico costumi Fabio Sonnino – luci Simone De Angelis – musiche Franco Visioli
Teatro di Roma
Niente di più attuale del testo di Hanoch Levin portato in scena da Andrèe Ruth Shammah, considerato negli anni della sua stesura “scomodo”, il quale affronta una crisi esistenziale tra le mura domestiche avuta dal protagonista Yona Popoch, interpretato da Carlo Cecchi. Una crisi, più di mezza età che coniugale, che porterà a riflessioni filosofiche e a considerazioni sulla vita e sulla morte, quasi preannunciata nelle battute iniziali dal dolore al petto di Yona che si manifesta più volte durante lo spettacolo.
Sipario aperto, letto matrimoniale ben in vista grazie al pavimento inclinato, si spengono le luci ed entra la coppia. Lui, beffardo e duro tanto da definire la moglie un“culo”, lei, Leviva (Fulvia Carotenuto), onesta, come spesso si definisce, e incredula alla reazione improvvisa del marito nel cuore della notte il quale, preso dai pensieri e, apparentemente, dal timore che la moglie lo tradisca, la butta giù dal letto insieme al materasso. Battute comiche si alternano a scene patetiche in cui viene messa a nudo la tristezza e la sofferenza dei personaggi, l’incapacità di comprendere a fondo questa loro vita e ti trovare una scappatoia. I personaggi, infatti, trascorrono più tempo a parlare, a lamentarsi e a insultarsi che ad agire. Leviva minaccia il suicidio ma tenterà sempre e solo di convincere il marito a restare e a invecchiare accanto a lei; Yona proverà ad andarsene di casa per rifarsi una nuova vita senza la moglie, ma nel momento decisivo ecco che sopraggiunge un loro amico, Gunkel (Massimo Loreto), un uomo solo, senza moglie, invidioso di loro. Sarà poi la solitudine di quest’ultimo e la sua infelicità a far cambiare idea a Yona, più che per amore verso la moglie per paura di morire solo. Gli atteggiamenti si invertono: Yona più remissivo, Leviva più audace. E’ lei ora a prendersi beffa del marito, servendosi dello stesso sarcasmo riservatole prima, chiedendo anche sostegno al pubblico, anime dell’aldilà che osservano la loro vita, tra cui si cela anche lo spirito della madre del suo compagno “che se la ride”. Rottura della quarta parete, dunque, così che il pubblico è costretto a vedere la finzione sotto una nuova luce e a guardare meno passivamente, forse un richiamo a Brecht, ben noto per rompere deliberatamente la quarta parete, per incoraggiare il suo pubblico a pensare in modo più critico ciò che stava guardando. Lo spazio del palcoscenico è dominato da Cecchi, quasi mai fermo, il quale trascina il pubblico nel suo sogno di libertà, ma è la voce di Fulvia Carotenuto a prevalere maggiormente, ad attirare l’attenzione del pubblico ed a riportarci con i piedi per terra. Intanto il tempo scorre. Il lavoro di vivere è un testo conflittuale, una commedia crudele e ironica, con battute pungenti. Niente è lasciato al caso come il rumore delle gocce d’acqua: durante l’arco dello spettacolo è possibile udire lo scarico del gabinetto che perde, goccia dopo goccia, come a scandire i secondi che passano, forse un altro modo per farci intuire che Yona ha i minuti contanti.
Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli; quando sono fedeli non sono belle (Carl Bertrand)
di Matteo Tamborrino
Questo estemporaneo avvio dedicato alle bellesinfidèles, ci permette in realtà di riflettere su quanto imprescindibile sia il nesso tra traduttologia, filologia e cultura teatrale. Si tratta di una relazione a tre che travalica le mere contingenze della messinscena (per capirci, l’annosa questione: “Quale edizione del testo scelgo? Come lo traduco o rappresento?”), e che riguarda invece (e soprattutto) una condivisione di metodo, di approccio teorico e dunque di spirito.
Ripartiamo perciò da qui, dallo spirito. Da quella che i filosofi chiamano essenza. Siri Nergaard, docente di Lingua e letteratura norvegese all’Università di Firenze e di Teoria della traduzione presso la Scuola di studi superiori dell’Università di Bologna, ha pubblicato ormai 23 anni fa un’illuminante antologia dal titolo La teoria della traduzione nella storia (seguita poi dal volume, sempre edito per Bompiani, Teorie contemporanee della traduzione), che ripercorre – da Cicerone a Derrida – i maggiori contributi in merito alla questione della “trasposizione di codici e linguaggi”, un tema da cui registi e attori non possono prescindere.
Lettera o spirito? Erompiamo così dalla selva di richiami accademici e giungiamo lesti a ciò che più ci compete. Natale in casa Cupiello, per la regia di Antonio Latella, calca il palco del Teatro Carignano – con il suo nutritissimo e meritevole ensemble di interpreti – tra il 10 e il 22 gennaio, destando – come prevedibile – reazioni alterne. Come costruire una relazione ottimale con un pubblico che, almeno in parte, si turba al solo pensiero di veder “stravolto” (sull’opinabilità poi di tale assunto torneremo) il divin Eduardo? «Non possiamo adeguarci supinamente alla domanda» è la risposta perentoria di Francesco Villano. «Noi dobbiamo imitare l’essenza di Eduardo, non scimmiottarne la forma attorica. Dobbiamo insomma trovare nuove forme per rendere viva, ancora viva, la sua natura di rivoluzionario, la sua parola d’autore». È il rispetto per lo spirito dunque la legge che governa la traduzione e la trad-azione (nel senso di trasposizione teatrale) di un classico, specie se si tratta di un attore-regista-autore come era l’erede di Scarpetta.
Tormentato fu il lavoro di Eduardo su questo dramma, riscritto e meditato a partire dal 1931, anno di debutto con i fratelli nella compagnia del Teatro Umoristico, fino alla fine degli anni ‘70, con propaggini radiofoniche e televisive. Parimente tormentata risulta la cornice scenografica all’interno della quale si articola questo pregevole lavoro, che sembra contaminare l’umbratile genio pittorico di Bosch, Caravaggio e Füssli,. Dalla cieca fissità iniziale degli attori, esposti in proscenio e gravati da un’ingombrante cometa di vaporosità simile a un enorme corallo dorato, l’azione esplode poi in un trionfo bestiale di fisicità, tra il gioviale e l’effimero. Ad avvolgere l’intero allestimento, una luce funerea, un coacervo baroccheggiante di tensione geometrica e sensualità animalesca. La scena in cui Ninuccia/Valentina Acca viene rimbalzata come un testimone tra Nicola/Francesco Villano e Vittorio/Giuseppe Lanino racchiude in sé tale dialettica.
In un universo contraddittorio che alterna carnalità e mistica, cartapesta e simboli, in cui la tradizione è profanata in maniera irrevocabile, diventando mortifera consuetudine, Nicola è il più outsider di tutti: «Quello di Nicolino è un mondo frustrante, fatto di denaro e bottoni», spiega Villano parlando del proprio personaggio. «Il suo disagio nasce dal non riuscire a esprimere dei sentimenti, che pure egli prova. Non è cattivo, ma non conosce altri linguaggi. È questa situazione di umiliazione a condurlo poi verso il grido finale. Verrà infatti estromesso dai riti dei Cupiello». Villano è dunque un villain atipico: «Quella di Antonio è una regia “orizzontale”: ci offre degli spunti, dei suggerimenti sulla genesi dei nostri caratteri. Poi tocca a noi. Nel mio caso, sapevo di dover dar voce a un uomo innamorato sì, ma che in fondo non ha alcuno strumento per esprimerlo». È il vate del mercimonio, è il Buffalmacco che compra i capponi: «Parla di cibo, sempre: vuol comprarsi la benevolenza della famiglia».
Tradurre è tradire. Tradire (tradĕre) è consegnare. Offrire cioè in una lingua d’arrivo un certo contenuto, che possa sortire un effetto paragonabile all’originale in un pubblico diverso (per idioma e cultura) rispetto a quello per il quale l’opera era stata pensata. Tradurre è dunque l’utopia esperantista, la capacità di saper parlare a tutti, in una “lingua ideale” (cfr. Cicerone, Libellus de optimo genere oratorum), e in ogni tempo. Per rendere immortali delle parole, dei valori, e non le persone che se ne fanno temporanei vettori. Eduardo fu un Grand’attore, ma ora è tempo di farlo Grand’autore, di prender coscienza della sua dipartita (e, con lui, dei suoi mugolii, dei suoi silenzi, della sua inimitabile e inimitata maschera facciale).
“Cominciamo da capo tutto” è il loop disarmante che inquieta gli attori. L’Eduardo promiscuo, l’Eduardo attore s’intende, è morto il 31 ottobre 1984. Dal 1° novembre, rifarlo fu impossibile. Non si tratta di arte, ma di biologia. E se non è ancora morto va almeno debellato, consegnato alla storia (che Amleto, Edipo o anche solo il timido Pietro Rosi ce ne diano la forza!). E in tale “inattuabilità del lutto” ha avuto di certo un ruolo fondamentale (sembra assurdo dirlo) l’enorme quantità di materiale audiovisivo a nostra disposizione. Che ha continuato a renderlo vivo ai nostri occhi. Perfino Carlo Cecchi, che pure mastica De Filippo ad ogni sua nuova prova teatrale, ha saputo recuperarlo concretamente non prima del Sik Sik del 2000.
È l’altro Eduardo, quello dei copioni, a dover diventare classico, tradizione, “presepio”. Come?
Il testo è rispettato con estrema fedeltà dal regista, ma – per così dire – sovra-costruito. «Da diverso tempo – racconta Annibale Pavone, direttore artistico e parte del coro – Latella conduce uno strenuo lavoro sui testi. Nel caso di Cupiello ha scelto di scavare in profondità, fino al non-detto, penetrando nelle tonicità della scrittura e nelle didascalie» (sempre così abbondanti, peraltro, nei testi dell’autore, il che denota una sua particolare cura nei confronti dell’attore). «Dopo le prime letture, ha definito quella partitura che avete potuto ascoltare», così straniante, così brechtiana: gli accenti gravi, acuti e circonflessi flettono gli attori, nel corso del primo atto, come se fossero tesi da un filo invisibile, intenti a giocare a “sacco pieno-sacco vuoto”. Nel frattempo, il protagonista redige un impercettibile brogliaccio. La fatica e la concentrazione degli attori raggiungono anche gli spettatori più lontani: «I primi quaranta minuti – continua Pavone – prevedono solo movimenti minimi e solo da parte di chi si è già tolto la benda. Per gli altri è un lungo lavoro d’ascolto, che non ammette distrazioni. La cecità ci confonde, ma ciò che deve essere esibito è in primis il testo di Eduardo». È come un’enorme mente, che silenziosa e buia, legge. Altri ostacoli si avvertono poi sul cammino: gli animali del presepe portati a zonzo per il palco (e che diventano opprimenti doppi), o il carretto funebre spinto dall’eccellente Concetta di Monica Piseddu.
Che cosa significa tuttavia confrontarsi con un mostro sacro? L’abbiamo chiesto a Francesco Manetti, l’efficace paterfamilias in giacca albina (che interpreta però anche la parte dello scrittore in fieri): «Credo che Latella si sia rivolto a me perché ho la fortuna di non avere nulla in comune con l’Eduardo attore. Per età, per provenienza (io sono fiorentino), per storia artistica e biografica. Mi sono approcciato a Luca Cupiello come ad un qualsiasi altro personaggio, ‘come se fosse – e cito Latella – un Checov’. L’intento di Antonio era di creare un padre fuori luogo, incapace di gestire quella famiglia. C’è stata poi da parte sua una richiesta precisa: che il napoletano fosseletto e non detto. Il che sarebbe invece venuto automatico dopo mesi di repliche». Ma d’altronde, compito degli attori non è illudere, “camuffare”. Sul tema, interviene di nuovo Villano: «Il teatro post-drammatico non lascia spazio all’immedesimazione. Il teatro è un gioco: un po’ lo fai, un po’ lo racconti, ma bisogna essere onesti con il pubblico, senza ingannarlo». L’attore persiste, insomma, sulla superficie del personaggio.
Checché se ne dica, comunque lo si voglia definire, il Natale latelliano – come già l’Arlecchino – rappresenta una svolta notevole – deogratias – in questa impasse storico-teatrale di inizio millennio, che troppo spesso si avventura su sentieri manieristici. E di tale neo-manierismo (dal gelo del 1985 in avanti) lo spettacolo in questione è acme e nemesi. Un Cupiello dunque filologicamente deferente. Non stravolto, né calpestato. Semplicemente ri-formato. Ne tradisce (qui intendi “sovverte”) l’estetica, ma ne tradisce (“consegna”) il senso. Perché solo con una “bella (eccezion fatta per alcune lungaggini finali) infedele” questo testo può finalmente essere attraversato, capito e restituito alla propria grandezza (parafraso qui Manetti): «Per accettare un’eredità bisogna preventivamente constatare che il padre sia morto».
Plauso (non di rito) a tutti gli interpreti, “artefici magici” di un esempio incantevole di attore-testimone-interlocutore-restitutore. Di un attore, insomma, traduttore. Trad-attori.
Gli insoddisfatti si diano pace.
NATALE IN CASA CUPIELLO di Eduardo De Filippo regia Antonio Latella drammaturgia Linda Dalisi con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia scene Simone Mannino, Simona D’Amico costumi Fabio Sonnino luci Simone De Angelis musiche Franco Visioli prodottoda Teatro di Roma – Teatro Nazionale
“La ricerca della felicità è un diritto. E non ci sono gabbie, confini, o oceani che possano fermare il desiderio di vivere la propria vita.”
Dopo il debutto un anno fa al Teatro Gobetti e una tournée di successo, Strani Oggi torna a casa, al Teatro BellARTE di Torino.
Partendo da cinquanta interviste a italiani che vivono all’estero e a stranieri che cercano di costruirsi un futuro in Italia, la compagnia Tedacà porta in scena le storie di Miriam, Joseph, Nicola, Sofia e Giacomo, cinque giovani che si sono dovuti scontrare con la parola “crisi”. Tutto ruota intorno alle loro aspettative e ai loro sogni, ma anche ai loro timori. Quanto è difficile abbandonare le certezze, le abitudini, la famiglia, per inseguire qualcosa che non sai nemmeno dove cercare? Lasciare il tuo paese per fare fortuna, senza la certezza di trovarla. Ma ormai sei arrivato a pensare che dovunque è meglio di qui.
Gli attori sono già in scena mentre il pubblico prende posto. Di spalle, seduti su delle sedie colorate, che fanno parte dei pochi oggetti di scena. Poi le luci si spengono, il silenzio scende, e le storie accadono.
Lo spettacolo si apre col monologo conclusivo di Strani Ieri, portato in scena dalla compagnia nel 2011. Si comincia quindi con le storie dei padri, spesso emigrati dal Sud Italia, che hanno investito sui loro figli forze e speranze di possibilità migliori delle loro. E questo non può che rendere ancora più difficile per i protagonisti la scelta di partire, consapevoli di voler andare altrove per non fare il lavoro dei loro genitori.
Ma più si avanza, più le storie personali diventano fonti per riflessioni universali. Perché qualcuno può viaggiare in cerca di opportunità e qualcun altro no? E così lo sguardo si allarga e noi possiamo vedere la figura del migrante in tutte le sue sfumature.
Ciò che più rapisce però è il contesto in cui queste storie si svolgono. Pochissima scenografia, ben studiata e utile allo scopo. Una miriade di colori. E tanta, tanta musica, dalla classica alla dance. Una musica che porta con sé movimento, a volte molto dinamico ma sempre magistralmente controllato. La quarta parete viene quasi del tutto abbattuta; perché i personaggi parlano a noi per parlare di noi.
La dimensione reale e quella immaginaria si mescolano; passato e presente, ricordi e speranze si uniscono nel qui e ora.
Un torrente inarrestabile di parole e di voci interrotte solo per dare spazio alle note musicali, o a silenzi che parlano ancora più forte. La struttura delle battute in alcuni momenti lascia ampi margini di improvvisazione, che rendono lo spettacolo sempre diverso, ma che sono sempre riportati negli argini di quel torrente impetuoso. I cinque attori si muovono e si incastrano in questo caos perfettamente organizzato.
Una parola per descriverlo: sorprendente. Ogni momento ha qualcosa di nuovo e di assolutamente inaspettato. La componente ironica è molto forte, ma quando necessario è capace di lasciare spazio a momenti di riflessione profondi e forti che inchiodano lo spettatore alla sedia. Un po’ come si sentono i protagonisti. Inchiodati. Perché ormai nel loro paese hanno messo radici, e le radici sono importanti. Ma come dice Giacomo: “Noi non abbiamo le radici. Abbiamo le gambe”.
Ideazione e drammaturgia: Simone Schinocca, Livio Taddeo
Con: Valentina Aicardi, Francesca Cassottana, Andrea Fazzari, Federico Giani, Mauro Parrinello
Regia: Simone Schinocca
Assistente alla regia:Claudia Cotza
Scene: Sara Brigatti
Costumi: Agostino Porchietto
Musiche e arrangiamenti: Maurizio Lobina e Giorgio Mirto
Dove la musica si fa corpo e ogni spasmo di fibra muscolare si riverbera nell’aria e nella memoria come una nota dolce, ecco lì sta l’essenza di ‘In Chopin’.
Il Balletto Teatro di Torino nella sua tourneé ha toccato anche il Teatro Giacometti di Novi Ligure, il 24 gennaio2017, portando la sua poetica davanti a un pubblico, se non numerosissimo, attento e coinvolto.
Uno spettacolo che parla di amore, quello firmato dal giovane coreografo Marco De Alteriis, ma anche di relazioni in senso più ampio, di desiderio di scoprire gli altri e prima ancora se stessi, di solitudine. E lo fa in maniera delicata, attraverso immagini più che narrazioni, lasciando come vero protagonista un corpo che si sostituisce alla parola, planando nello spazio etereo creato da quel compositore che, citando Daniel Barenboim, sa “piangere e ridere allo stesso tempo, nei grandi come nei piccoli pezzi”.
In scena si entra con una rottura: lontano dall’immaginario di chiunque si approcci a vedere un brano danzato di Chopin, lo spettatore è accolto da una sedia, pesante, moderna, verde, illuminata da un cono di luce che circoscrive lo spazio limitandolo alle figure disegnate dalla danzatrice che vi è seduta. Un raffinato virtuosismo del coreografo israeliano Itzik Galili, su musica di John Cage, che unito al talento dell’unica performer porta in scena tutte le contraddizioni e le metamorfosi dell’essere femminile. Al centro dello spettacolo brilla un altro pezzo firmato dal prestigioso coreografo: ‘Fragile’. Un passo a due intimo, essenziale, astratto, che richiama le incertezze e le paure dell’uomo, superabili grazie al contatto e alla forza insita nella donna.
Lo spettacolo è un susseguirsi di quadri diversi che vedono l’alternarsi di passi a due, assoli e pezzi danzati da tutti e cinque i danzatori della compagnia: Wilma Puentes Linares, Julia Rauch, Viola Scaglione, Axier Iriarte, Agustin Martinez.
L’uso sapiente di luci, ombre e fumo crea immagini evocative, che distanziano del tutto l’azione coreutica dalla realtà, confinandola in una dimensione onirica, di non-luogo. Ogni dipinto alla fine si chiude in se stesso con un buio che mette termine alla suggestione, in attesa della successiva: come se si venisse svegliati ogni volta, strappati da un sogno e con la frustrazione di averlo già perso, mentre si applaude.
Unico filo conduttore resta quindi l’indagine profonda di questi rapporti tra anime, più che tra persone. Anime che si cercano e si fuggono, che si stringono in abbracci per poi lasciarsi cadere, o che si aggrappano con uno sguardo, senza toccarsi mai. Come le mani dei danzatori, che, morbide e se vogliamo ‘secondarie’ nella partitura coreografica tracciata da De Alteriis, attirano su di loro l’attenzione nei momenti di contatto.
La centralità del corpo, con uno stile dichiarato fatto di movimenti ampi, frequenti passaggi a terra e prese, richiede una preparazione tecnica, fisica e di ascolto dell’altro, che tutti i danzatori dimostrano largamente di possedere, portando in secondo piano a volte il concept, per lasciarsi ammirare in passaggi di palpabile bellezza.
Un tema non nuovo, in sintesi, con musiche non nuove, che forse proprio per questo mettono in risalto il principale merito di De Alteriis e del BTT: quello di riuscire a tratti a creare una ‘musica visiva’. Una melodia suonata dal movimento, che non vuole limitarsi ad accompagnare le note, ma pretende di coincidere con esse.
Suggestioni a discapito della narrazione insomma; corpo a discapito di un’espressività facciale ricercata che però, quando c’è, è autentica. Il tutto unito ad un interessante scelta dei costumi che, se da un lato sottolinea gli stacchi tra i quadri, dall’altro ne amplifica il senso emotivo, come nell’apoteosi del colore rosso in ‘Maestoso’, coreografia che vede in scena l’intera compagnia e che chiude lo spettacolo.
Chiara Borghini
Balletto Teatro di Torino
Coreografia MARCO DE ALTERIIS
Musiche FREDERIC CHOPIN
Costumi MARIA TERESA GRILLI
Luci DAVIDE RIGODANZA
Incursioni musicali CONCETTA CUCCHIARELLI
Il blog degli studenti di teatro del D@ms di torino