Venerdì 14 ottobre è la giornata che conclude l’intensa settimana di incontri, conferenze, workshop e laboratori di In Atelier. Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”. Rita Maria Fabris testimonia il ritorno al corpo nell’esperienza di Virgilio Sieni e della sua creazione Altissima Povertà per la città di Torino, in un racconto mitologico di nascita, passione e resurrezione attraverso cui una dimensione macrostorica si incarna nel tempo. Continua la lettura di Rita Maria Fabris racconta Altissima povertà
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Chiara Guidi, LA-VOCE-CHE-NON-C’E’. Performance conferenza nello spazio del”tra”
Per il seminario In Atelier, Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”, la sala piccola della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino ospita la performance che corona la lectio mattutina Tra voce e infanzia tenuta da Chiara Guidi presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale. Il contesto raccolto e intimo Continua la lettura di Chiara Guidi, LA-VOCE-CHE-NON-C’E’. Performance conferenza nello spazio del”tra”
Gli Omini
E’ martedì 10 ottobre, sono le 9.50 del mattino e in aula 7 a Palazzo Nuovo siamo in tanti. Aspettiamo gli Omini: questo il nome della compagnia teatrale, nata in Toscana nel 2006.
Francesco, Luca, Francesca e Giulia sono invece i nomi dei suoi componenti, di cui oggi qui a Torino sono presenti in tre. Sono giovani, persone intelligenti e di una straordinaria sensibilità, capaci di catturare, fin da subito, tutta la nostra attenzione, raccontandoci con sincerità e simpatia -durante il corso della mattinata- la loro storia, i loro progetti, il loro lavoro.
Raccolgono “materiale umano”-ci dicono-, poi, lo rielaborano e lo portano in scena: questo è, in estrema sintesi, quello che fanno. L’umanità, nella sua forma più diretta e travolgente è ciò che costituisce la linfa vitale dei loro spettacoli, l’elemento verso cui indirizzano tutte le loro energie. Un’umanità che riconoscono nella gente trovata per strada, nei bar, nei piccoli paesi, nelle bocciofile, in stazione, etc.
Il nome della compagnia non è quindi casuale. L’omino è, in dialetto toscano, un uomo qualsiasi, l’altra persona, noi stessi. Gli omini sono loro, ma siamo anche noi e gli altri. Quello che realizzano è, lo ricordiamo ancora una volta, un lavoro di indagine e di ricerca dell’umano, che si trova ovunque, anche laddove mai avremmo pensato ad un primo sguardo.
Ma come si svolge effettivamente il loro lavoro? Qual è il percorso che si nasconde dietro agli spettacoli che portano in scena?
A volte si parte da un canovaccio, da uno scheletro-guida -racconta Francesca-. Altre, lo si elabora strada facendo. Tre di loro si recano in un paese, o in un luogo specifico. Qui iniziano a guardarsi attorno, ad osservare. A questo punto si avvicinano, per una chiacchierata informale, agli individui che -ai loro occhi- sembra abbiano qualcosa di interessante, non tanto da raccontare, quanto piuttosto da comunicare. Poi li ascoltano, con semplicità. Muniti di telecamere, registratori, carta e penna, ne raccolgono i gesti e le parole.
“C’è un sacco di gente in giro che ha tantissima voglia di parlare, e che ha bisogno di essere ascoltata. Così, quando arriviamo noi, badabam, c’è chi ci vomita addosso una vita intera”-dice Francesco-.
Tutto questo si ripete per giorni, a volte addirittura settimane o mesi, alla fine dei quali si torna “a casa”. La prima fase, che viene definita “di indagine”, è conclusa. Il materiale raccolto viene consegnato a Giulia, la quale, all’interno della compagnia, ha il ruolo di dramaturg: scrive per la scena, pensando alla scena.
Tutti insieme s’impegnano infine in un difficile lavoro di interpretazione ed elevazione del materiale raccolto, sbobinato e riorganizzato. Così la realtà delle conversazioni e dei momenti vissuti viene trasformata in arte, in teatro. Passaggio necessario. Perché non sempre una conversazione è buona di per sé. Sta a loro, attraverso il teatro, cercare di trasmettere la spinta che hanno presentito dietro a quelle parole, il “non-detto”. La vivezza, per loro, qui è fondamentale. Il teatro dev’essere vivo e riuscire a toccare fin nella pancia lo spettatore seduto in poltrona, esattamente come hanno fatto con loro le persone incontrate per strada.
Per cui, nonostante questa apparente distinzione di ruoli, è facile capire come si tratti in realtà di un collettivo. Tra di loro c’è uno scambio e un confronto continuo di idee, di pensieri, di osservazioni: una fortissima passione per l’essere umano li lega in maniera profonda, portandoli a condividere quasi la totalità del loro tempo.
Quindi sul palcoscenico che cosa succede?
Gli Omini non lavorano per farci la morale, il loro teatro non vuole insegnare niente a nessuno. Loro, in maniera molto umile, cercano di rappresentare quello che hanno sentito, visto, vissuto. In realtà, il loro principale obiettivo- ci rivela Francesco- è quello di far scaturire la risata. “Perché la risata è vita ed è subito una risposta a quello che facciamo; al nostro lavoro.” -dice-. Una risata, tuttavia, insolita: sincera, ma allo stesso tempo mescolata ad una tristezza e ad un mal di stomaco infinito, con il quale lo spettatore si alza alla fine dei loro spettacoli. Che forse non sono altro che la rappresentazione del dualismo intrinseco all’esistenza: da un lato dolorosa ,contraddittoria, dall’altro meravigliosa. Così maledettamente e straordinariamente tragicomica.
Si potrebbe quindi parlare di una sorta di teatro terapeutico dalla direzione biunivoca. Se da un lato si ha, sul fronte degli attori, una sensibilizzazione all’ascolto in continua crescita, che diventa vero e proprio atteggiamento di vita; dall’altro abbiamo la “redenzione” di tutti quegli omini incontrati, il cui spirito viaggia ora più
leggero e meno appesantito, grazie ad una semplice chiacchierata.
Abbiamo passato insieme a loro due giorni intensi, durante i quali abbiamo avuto la possibilità di toccare con mano tutto ciò. Siamo stati mandati in strada -a gruppi di 5 persone- ad osservare, ascoltare, assorbire, lasciarci stupire, interpretare.
Abbiamo raccolto “materiale umano”; poi lo abbiamo messi in scena. Ne siamo usciti un pochino più ricchi, un pochino più umili e un pochino più umani.
Sono stati soltanto due giorni, è vero, ma sono bastati a farci crescere.
E per questo li ringraziamo di cuore.
Loro sono gli Omini.
Vengono dalla Toscana.
E sono delle belle persone.
Verranno a trovarci il 10 Novembre al Cubo Teatro, con “Ci scusiamo per il disagio”(h21, via Pallavicino 35).
E in questa occasione non possono che farci del bene, altro bene. Perché in fondo, come dicono loro: “Siamo tutti soli, siamo tutti diversi, siamo tutti Omini”.
Siateci.
Beatrice Decaroli
DONNE CHE SOGNARONO CAVALLI
” Mi interessa commuovere lo spettatore, non spiegargli delle cose” – Daniel Veronese
Uno spettacolo complesso ma maledettamente semplice quello andato in scena alle Fonderie Limone, a conclusione del Festival delle Colline Torinesi. “Un successo di pubblico e un livello contenutistico altissimo raggiunti in questa edizione con l’augurio di migliorarci ancora per il prossimo anno”, ha dichiarato Sergio Ariotti.
Una famiglia contemporanea ci racconta la Storia dei desaparecidos attraverso la propria storia fatta di intrecci, bugie e violenza. “Ho voluto usare il micro per parlare del macro” spiega in una formula il regista Roberto Rustioni durante la “Mezz’ora con…”
E direi che ci è riuscito benissimo. Lo spettacolo è claustrofobico, un allestimento minimale che osserviamo con occhio cinematografico e che ci fa entrare a casa di una delle tre coppie
protagoniste durante uno sfortunato pranzo di famiglia.
“Ho apprezzato molto la scenografia. Gli attori sono stati terribilmente credibili, mi son sentita coinvolta dalla storia grazie a loro. La disposizione del pubblico ha fatto accrescere la bellezza dello spettacolo a mio parere” leggo e condivido il pensiero di questa spettatrice da http://www.tipstheater.com/donne-che-sognarono-cavalli
Attraverso Lucera, giovane figlia di desaparecidos che tenta dolorosamente di ricostruire il passato della sua famiglia raccontandosi al pubblico e rompendo la quarta parete, scopriamo le vite conflittuali dei tre fratelli con un’azienda di famiglia fallita sulle spalle, donne diversissime tra loro riunite in unico luogo – ideale e fisico- un pony morto e alcool e fumo a condire le tensioni crescenti.
Momenti di chiacchiere futili si mescolano a violenti liti , sembra non succedere niente, ma tutto è successo e tutto succederà, confessioni che sfuggono, verità nascoste, tradimenti velati, un bambino che sta per nascere.
I quadri non seguono un ordine cronologico, sta allo spettatore ricostruirlo e questo ci porta alla citazione iniziale dell’autore del testo. Il pubblico è coinvolto emotivamente e deve essere attivo e attento durante tutto il disperato tentativo di riconciliazione familiare.
Un occhiolino di una delle attrici prima dell’inizio dello spettacolo e la vicinanza estrema alla scena mi portano direttamente dentro quella casa dove una strage per mano di Lucera si consuma lentamente durante tutto lo spettacolo e improvvisamente nel quadro finale quando la ragazza stermina la sua famiglia… scusate, quella che doveva a tutti i costi essere la sua famiglia.
di Daniel Veronese
regia Roberto Rustioni
adattamento Roberto Rustioni
con Valeria Angelozzi, Maria Pilar Perez Aspa, Michela Atzeni, Paolo Faroni, Fabrizio Lombardo, Valentino Mannias
assistente alla regia Soraya Secci
scene e costumi Sabrina Cuccu
assistente scenografo Sergio Mancosu
luci Matteo Zanda
foto Alessandro Cani
co-produzione Fattore K – Sardegna Teatro – Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di Fondazione Olinda Teatro La Cucina
SOCRATE IL SOPRAVVISSUTO / come le foglie
“Davvero tanto su cui riflettere”: ecco quello che ho pensato appena terminata la lunga serie di applausi per gli attori/performer dello spettacolo Socrate il sopravvissuto/come le foglie in scena alle Fonderie Limone la sera del 20 giugno.
Un proiettile, una classe, un professore, uno schermo, una storia. O meglio, tante storie.
C’era l’impossibilità del professore di raccontare la storia dell’umanità ad una classe liceale. Di spalle e con l’aiuto del microfono il professore di storia e filosofia prova a spiegare il suo tormento: fingere, recitare una parte davanti ai suoi ragazzi. Loro si sciolgono, ad uno ad uno, tra la sedia e il banco, vittime consenzienti dell’inganno. Ne manca solo uno, sempre, ad ogni lezione, non è mai in scena. Un proiettile…
Ma abbiamo detto che c’era anche uno schermo e qui troviamo il parallelo con Socrate. Lui nella sua palestra (in video), il professore nella sua classe (in scena). Storie che si intrecciano e si contaminano.
Un viaggio alla scoperta della figura dell’educatore, del suo potere e del suo dovere. Una profonda riflessione sul ruolo dell’insegnante e su quanto possa fare oggi un professore che non vuole limitarsi a terminare il programma annuale e far capire agli alunni che c’è molto di più di quanto vogliano far credere loro, ma si scontra con l’apatia, il sistema scolastico e se stesso.
E il proiettile?
Maggio, ottobre, giugno i momenti raccontati dal professore. Sembra non esserci via di fuga o soluzione. Ogni volta l’impossibilità di insegnare prevale. E allora i ragazzi si esibiscono, ora mettendo in scena la distruzione dei libri (completamente bagnati, accatastati malamente), ora mediante coreografie ritmate ed ossessive, fino ad un tentativo di dialogo e avvicinamento che ci porta alla storia di Socrate e dell’allievo Alcibiade – il momento di massima tensione, a mio parere. Un lungo confronto dialogico tra i due sull’esistenza umana, sulla crescita dell’individuo, sul sapere e sul potere.
Eppure, alla fine arriva il momento degli esami… e quello del proiettile. Quell’alunno sempre assente dalla classe del professore si presenta al suo esame orale e uccide tutti i suoi insegnanti, tranne uno.
Tanto su cui riflettere, appunto.
di Simone Derai e Patrizia Vercesi
regia Simone Derai
dal romanzo Il Sopravvissuto di Antonio Scurati
con innesti liberamente ispirati a Platone e a Cees Nooteboom
con Marco Menegoni, Iohanna Benvegna, Marco Ciccullo, Matteo D’Amore, Piero Ramella, Francesca Scapinello, Margherita Sartor, Massimo Simonetto, Mariagioia Ubaldi
maschere Silvia Bragagnolo e Simone Derai
costumi Serena Bussolaro e Simone Derai
musiche e sound design Mauro Martinuz
video Simone Derai e Giulio Favotto
con Domenico Santonicola (Socrate), Piero Ramella (Alcibiade), Francesco Berton, Marco Ciccullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro, Massimo Simonetto
riprese aeree Tommy Ilai e Camilla Marcon
concept ed editing Simone Derai e Giulio Favotto
direzione della fotografia e post produzione Giulio Favotto / Otium
regia Simone Derai
produzione Anagoor
co-produzione Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies
progetto realizzato con il sostegno del bando ORA! Linguaggio contemporanei produzioni innovative della Compagina di san Paolo
L’INSONNE: MEMORIE DAL SOTTOSUOLO
Il tempo si lacera […] Le stagioni hanno perduto il loro significato. Domani, ieri, che vogliono dire queste parole? Non c’è che il presente […] Tutto ciò è adesso. Non è stato, non sarà. È. Sempre. Tutto insieme. Perchè le cose vivono in me e non nel tempo. E in me tutto è presente.
Con un’eco quasi bergsoniana cala il sipario sullo spettacolo che Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli hanno liberamente tratto da Ieri, romanzo della scrittrice ungherese Agota Kristof.
Partire dalla battuta finale è quantomai appropriato: questa è infatti una storia di riemersione…
Tobias nasce in un villaggio senza nome e trascorre la sua infanzia all’ombra della madre, la prostituta del paese. Un giorno, quando tra i tanti uomini che frequentano la casa individua suo padre, prende un coltello e glielo affonda nella schiena con l’intento di uccidere anche la madre, stesa sotto di lui. Tobias è allora costretto alla fuga. Cambia identità: diventa Sandor e lavora in una fabbrica di orologi. La sua giornata è un susseguirsi di gesti vuoti, l’unica cosa che pare confortarlo è la scrittura. Scrive e si rifugia nell’ ossessionante attesa di Line, una donna appartentente al passato e affidata all’immaginazione. Un giorno però Line arriva. I due si riconoscono e si amano di un amore impossibile. Potrebbe essere l’inizio di un futuro diverso, ma il passato grava sui due amanti con il suo limite di invalicabilità. Line infatti ha un terribile segreto: è la sorellastra di Tobias… ma non lo sa.
La narrazione della storia non è lineare, ma costruita su continui dislivelli. Il tempo permea di sè l’intera vicenda, senza tuttavia mai lasciarsi delimitare. I contorni sfumano in suggestioni oniriche, la percezione sfugge, tutto si fa dilatato, confuso. Passato e futuro sono entrambi destinati a confluire nel presente sotto forma di ricordo e immaginazione.
La commistione dei livelli temporali è resa con straordinaria efficacia dall’organizzazione dello spazio scenico e dalla modulazione della luce.
Al centro del palcoscenico un cubo, le cui pareti consistono in pannelli semitrasperenti. All’interno del cubo una stanza con un letto e un tavolo, all’esterno il vuoto. I due attori padroneggiano indistintamente entrambi gli spazi. Questa contrapposizione interno-esterno permette l’alternanza di scene agite e scene narrate e si presta meravigliosamente alla resa scenica di un viaggio tutto giocato sull’accavallarsi di temporalità differenti.
La luce è altrettanto fondamentale, perchè diventa la guida di questo viaggio. Dietro al cubo un faro mobile si sposta di continuo creando suggestivi effetti d’ombra. Seguire il fascio di questa luce è come seguire la memoria nel suo impietoso scandagliare. Le zone illuminate sono le zone del ricordo, l’oscurità invece pertiene all’oblio.
Impossibile non cogliere il riferimento alla psicanalisi. Non tanto perché il vissuto di Tobias richiama il più classico dei complessi, quello edipico, quanto perchè è lo stesso spettacolo ad assumere – fin dall’inizio – le sembianze di una seduta psicanalitica. Il tutto costruito con grande intelligenza. Non c’è l’assurda pretesa di psicanalizzare un personaggio della finzione, ma la volontà di mostrare un percorso di riemersione nel suo fluire disordinato.
La fantasia dei drammaturghi ha valorizzato la sapiente tessitura del romanzo. Il testo viene rispettato nei suoi snodi principali e nell’uso di una prosa asciutta, messa in risalto da una recitazione mai sopra le righe.
Ad essere riproposti con fedeltà anche i richiami autobiografici che costellano l’opera. La Kristof condivide con i suoi personaggi un destino fatto di fuga dalla patria e ossessione per la scrittura. Scrivere rappresenta per entrambi il tentativo di raccontare la propria storia.
Per Tobias la funzione salvifica della scrittura si carica di un valore aggiunto. È la forza che alimenta l’attesa della donna amata.
In fondo, amare e scrivere altro non sono che due facce della stessa medaglia, perchè fermano il tempo.
Cecilia Nicolotti
L’INSONNE
di Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
regia Claudio Autelli
liberamente tratto da Ieri di Agota Kristof
drammaturgia Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
con Alice Conti e Francesco Villano
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
luci Simone De Angelis
suono Fabio Cinicola
responsabile tecnico Giuliano Bottacin
assistenti alla regia Piera Mungiguerra e Andrea Sangalli
voce registrata Paola Tintinelli
co-produzione Lab121, CRT Milano
spettacolo vincitore In-Box 2015
selezione Visionari Kilowatt Festival 2015
presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo
Fotografia della Mafia
Alla Fabbrica delle “E” di Torino è andato in scena in prima assoluta La donna che cammina sulle ferite dei suoi sogni, uno spettacolo della compagnia Viartisti.
Questo è il primo della stagione del ciclo di Teatroimpegnocivile.
Il lavoro presenta l’incredibile vita di una donna, Letizia Battaglia, che ha voluto raccontare attraverso i suoi reportage a Palermo, in quasi vent’anni, la guerra delle mafie, esprimendola con immagini molto forti e vere.
Scena aperta, scatoloni che fanno da scenografia, fondale nero che si illumina fin da subito con le parole di Letizia: le sue foto che ci accompagnano per tutto lo spettacolo.
Le due attrici in scena, Serena Barone e Gloria Liberati, incarnano l’anima di Letizia, a volte in prima persona a volte in terza, ci raccontano che cosa è stato vivere vedendosi portare via l’istruzione, che cosa ha significato stare in casa, essere donna ma in realtà esserlo solo nella propria casa e solo dopo essersi sposata. Un matrimonio infelice che porta Letizia ad allontanarsi, a Milano. Ma a Letizia non piace Milano, vuole la sua terra anche se succedono cose spaventose. Tornata a Palermo inizia a lavorare come giornalista di cronaca. Le sta stretto dover scrivere, Letizia non è una donna di molte parole. Poi finalmente può raccontare attraverso 1, 2, 500, 1000 e ancora di più foto quello che vede.
Il testo, inedito, scritto da Riccardo Liberati e Pietra Selva, che cura anche la regia, usa parole che servono per spiegare i contenuti di quelle immagini forti. Servono per raccontarci chi è sempre stata dietro la macchina fotografica a scattare. E a un certo punto l’attore chiede al pubblico dove sia Letizia, e si scusa perchè loro stanno usando tante parole, e lei invece è stata capace di non usarne nessuna, perchè le immagini dicono molto di più e il loro compito è quello di sbalordirci e di non farci dire una parola.
Molto suggestive anche le proiezioni che accompagnano tutto lo spettacolo: fotografie che hanno testimoniato venti anni di guerre.
Qualche piccolo inconveniente tecnico legato al suono non è stato in realtà un problema. Perchè le immagini create dagli attori parlavano in maniera fortissima.
Letizia Battaglia ieri sera era presente in sala. Alla fine dello spettacolo è stata chiamata sul palco: visivamente commossa ha ringraziato la compagnia, l’autore Riccardo Liberati e la regista Pietra Selva. Il tutto senza dire una parola e facendoci capire ancora una volta che le azioni e le immagini sono più forte di qualsiasi altra cosa.
Elisa Mina
di Riccardo Liberati e Pietra Selva
regia Pietra Selva
con Serena Barone, Gloria Liberati, Alberto Valente
collaborazione artistica e video Riccardo Liberati
consulenza video Eleonora Diana
allestimento Carmelo Giammello
luci Eleonora Diana
produzione Viartisti Teatro
in collaborazione con Festival delle Colline Torinesi
Hearing
La funzione del linguaggio non è quella d’informare, ma di evocare Jacques Lacan
A un primo sguardo, Hearing sembra raccontare la condizione delle donne in Iran attraverso gli anni. La scena si apre sul dormitorio femminile di un collegio in cui due giovani ragazze vengono interrogate da una donna più matura, incaricata di mantenere l’ordine. Una relazione anonima ha denunciato che una delle due ragazze ha introdotto di nascosto nel dormitorio un ragazzo per trascorrere con lui la notte di capodanno.
La scenografia è un semplice fascio di luce che illumina dall’alto le protagoniste e che restituisce, con acuta semplicità, l’atmosfera oppressiva del dormitorio-fortezza. Il sapiente uso delle pause e la recitazione quasi cinematografica delle giovani attrici fanno dimenticare subito la fastidiosa necessità di riferirsi ai sopratitoli per comprendere il dialogo.
La ragazza che ha involontariamente fatto partire la denuncia non ha visto un ragazzo nella stanza della compagna, ne ha solo sentito la voce. E su quest’ambiguità, sull’insicurezza di una voce solo sentita (o immaginata?) si apre la seconda parte dello spettacolo. Con l’ausilio di una Gopro, Amir Reza trascina con maestria lo spettatore in un viaggio onirico a tratti spaventoso, spesso commovente, sicuramente d’impatto. Una delle giovani ragazze esce di scena e vi rientra pochi secondi dopo, quindici anni più grande. L’impianto realistico della prima parte dello spettacolo viene così decostruito e ciò che conta adesso è l’happening: ciò che avviene qui e ora, sulle scale del teatro Astra che vediamo grazie alla Gopro, nella confusione dello spettatore che rimane catturato in un salto temporale. Alla destrutturazione del set corrisponde una destrutturazione del linguaggio, che intreccia passato e presente in un rimpallo serrato di ricordi, ammissioni, confronti. La memoria che qui viene rappresentata non può che essere restituita in questa maniera perché è la sua stessa essenza ad essere frammentata.
“Gli spettatori rimangono confusi da questa seconda parte”, ci dice Amir Reza. Ma è proprio questo l’intento della regia: mettere in scena la confusione che si prova quando, arrivati all’età adulta, ci si volta a guardare la propria infanzia. Il percorso di crescita e gli anni trascorsi ritornano alla memoria come un tunnel buio, difficile da ricostruire, dal quale si esce “adulti, normali”. Per Amir Reza, Hearing è un viaggio personale per illuminare, almeno in parte, questo tunnel. Ecco perché non è e non vuole essere (solo) un’opera di denuncia sociale. Hearing non vuole lanciare un messaggio, ma restituire l’esperienza frammentata nella memoria di un percorso a tratti inconsapevole, quello della crescita e del passaggio all’età adulta, che è comune a tutti noi. Hearing non racconta solo la difficile situazione delle donne in Iran, ma anche un’esperienza universale, che travalica i confini lingustici, spaziali e temporali.
di Giulia Trivero
HEARING
(Prima nazionale presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo nell’ambito di Scene d’Europa)
di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani
assistente alla regia Mohammad Reza Hosseinzadeh
con Mona Ahmadi, Ainaz Azarhoush, Elham Korda, Mahin Sadri
video e direzione tecnica Ali Shirkhodaei
musiche Ankido Darash e Kasraa Paashaaie
suono Ankido Darash
luci Saba Kasmei
scena Amir Reza Koohestani assistito da Golnaz Bashiri
costumi e oggetti di scena Negar Nemati
secondo assistente Mohammad Khaksari
direzione di scena Mohammad Reza Najafi
assistente ai costumi Negar Bagheri
direttori di produzione Mohammad Reza Hosseinzadeh e Pierre Reis
tour manager Pierre Reis
produzione Mehr Theatre Group
coproduzione La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, BOZAR – Centre for Fine Arts Brussels
versione originale con sopratitoli in italiano
traduzione Laura Bevione per il Festival delle Colline Torinesi
Una Monica al bacio
di Matteo Tamborrino
«Nacqui nei ’70 e giunsi in anni cupi,/ libero lo spirto mio com’è quello dei lupi./ Da subito in fattezze de masculo/ sentii smover, de drentro,/ l’intensa femminina forza,/ la scorza,/ ch’el tempo avrebbe trasmutato/ in delicata movenza,/ in gentile essenza de bambino/ che l’ambigua carta porta,/ ma ancor senza difesa,/ alfin non resta che la resa;/ lo pensiero dello sbaglio,/ il nascondiglio,/ la lacrima sul ciglio,/ al voler sentire che forte preme/ lo desiderio de svelar/ il sommovimento,/ lo stordimento, de scoprir la direzione/ c’agli altri par sbagliata» (da L. Fontana, Monica Bacio. Frammenti per un monologo)
Abbiamo sentito parlare spesso, negli ultimi mesi, di questa bionda squinternata Monica, e ora, finalmente, l’abbiamo conosciuta.
La creatura teatrale di Lorenzo Fontana – ispirata a un personaggio del drammaturgo canadese Michel Marc Bouchard – è nata da un articolato percorso creativo e ha avuto il suo debutto ufficiale al Teatro Astra di Torino: «Negli anni – spiega Fontana nelle note di regia – [Monica] è diventata il mio alter ego. Quando ho iniziato a scrivere questa storia, fortemente autobiografica, ho capito subito che mi serviva un tramite per raccontarla e mi è sembrato che la Bacio fosse lì apposta. Ho scritto il lamento di Monica perché credo che sia importante riconoscere il diritto di crescere diventando quello che sentiamo di essere davvero, nel modo più autentico possibile. Quando siamo piccoli c’è sempre qualcuno che pensa di sapere cosa sia giusto per noi, ma quello che è giusto per noi già lo sappiamo, abbiamo solo bisogno di essere accompagnati nel nostro viaggio di costruzione dell’identità».
Il lamento, ovvero le lacrime, di Monica Bacio è un esempio di ottima scrittura scenica. Un prodotto, anzi no, un’opera preziosa, rara, vera. I versi accarezzano l’orecchio e giocano con la mente. È la potenza della lingua, dell’italiano nella sua proteiforme beltà, da far andare in “brodo di giuggiole” file intere di letterati. Non è mai la parola stantìa e polverosa delle rappresentazioni da m(a)us(ol)eo. È la parola musicale di un teatro poetico, ma poetico per davvero. E non solo perché in rima.
Ovviamente nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza un buon cast. In scena il collaudatissimo trio Fontana-Manescalchi-Judica Cordiglia. La pièce ripercorre varie fasi di crescita del protagonista, dall’infanzia all’età adulta, passando per l’adolescenza. Quadri che dipingono situazioni, emozioni, pensieri: la sfilata casalinga in tacchi alti, la partita di calcio, il giardinetto della foia, il bagno turco. La Creante/Manescalchi dà sostanza e azione ai Memoires di Monica/Fontana; a punzecchiare la narrazione intervengono la voce e le mani (e a un certo punto anche il corpo) di Giancarlo Judica Cordiglia, per lo più nei panni (o meglio nei volti) dei genitori.
Di fronte allo spettatore uno svettante cono fucsia adorno di toppe e finti seni, due cespugli, un pallone, una panchina, una parrucca luminescente. Il tutto racchiuso da un buio quasi onirico, da chiar di luna. Quella stessa Luna cacciatrice, con cerchietto e arco, che comparare all’inizio dello spettacolo. La scena, a dire il vero, ci coglie impreparati: forse – stando a quanto Monica aveva lasciato intendere su Internet – ci saremmo aspettati più kitsch, più esuberanza, più ostentazione. E invece no. Il gioco è sempre leggero, mai violento o invasivo. L’incanto delle ombre, poi, è particolarmente evocativo. Si scherza sì, ma sempre con eleganza. E con il sottofondo di Mina. Non c’è mai la risata sguaiata da spogliatoio. Anche l’allegra falloforìa che a un certo punto invade il palco non è volgare. Perché dietro c’è sempre la storia di “Monica”, che non si piange addosso, ma ci aiuta a riflettere.
E quindi, Monica, tra una copertina di Vogue e il nuovo spot di Pasta Diluvio, continua a “lamentarti”!
IL LAMENTO, OVVERO LE LACRIME, DI MONICA BACIO-
(Prima Nazionale – 16/6/2016, Teatro Astra – Torino)
di Lorenzo Fontana
regia Lorenzo Fontana
con Olivia Manescalchi, Giancarlo Judica Cordiglia e Lorenzo Fontana
scene Paolo Bertuzzi
costumi Viola Verra
light designer Cristian Zucaro
sound designer Luca Vicinelli
direzione tecnica Alberto Giolitti
presentato in collaborazione con Fondazione Teatro Piemonte Europa nell’ambito di Scene d’Europa
Verità nascosta da una farfalla
Ieri è andato in scena 1983 BUTTERFLY, spettacolo della “Piccola Compagnia della Magnolia” in prima assoluta al Festival delle colline.
Il lavoro narra la storia di Bernard Boursicot e Shi Pei Pu, persone realmente vissute, in maniera molto intima, raccontando e mettendo in scena pagine del diario di Boursicot.
Un giovane contabile francese, in viaggio per lavoro nella Pechino del 1962 incontra un cantante d’opera, Shi Pei Pu, che si è appena esibito nella “Madame Butterfly”. Nonostante si dica che i cinesi odino la Butterfly come opera perché vi ritrovano l’oppressione dell’uomo occidentale sulla donna orientale, Bernard trova che in Shi ci sia qualcosa di speciale.
Tra i due nasce un sentimento, Shi gli racconta che in realtà è una donna, avranno un figlio insieme. Andranno a vivere in Francia tutti e tre.
Bernard inizierà a passare documenti francesi alla Cina per poter proteggre la sua famiglia.
Qualcosa smuove l’apparente felicità che c’è in questa sorta di famiglia. Un’accusa di controspionaggio. Una rivelazione che sconvolge tutto.
Lo spettacolo è realizzato da due soli attori.
I due si scambiano i ruoli di sesso, Davide Giglio interpreta Shi, Giorgia Cerutti interpreta Bernard. Devo ammettere che per la prima parte dello spettacolo la cosa mi ha turbato. Mi chiedevo il perchè di questa scelta. Ma, a un certo punto, sono le stesse parole del diario di Bernard a spiegarci che la sessualità non ha importanza. A fronte di ciò, ritengo che gli attori abbiano giocato molto bene su questo aspetto e abbiano saputo sfruttarla per una resa scenica ancora più di impatto.
Non ho apprezzato molto però l’uso dei microfoni. Mi sembra che servissero puramente per amplificare la voce e non per creare effetti particolari. E’ vero, i due attori hanno camuffato la voce per tutta la durata dello spettacolo, però sono ancor dell’idea che in teatro la parola debba arrivare senza mezzi intermediari.
Altro protagonista è lo schermo : stretto e a tutta altezza, ci mostra i fatti, ci porta da un luogo all’altro, da un anno all’altro, permettendo così alla compagnia di usare una scena molto essenziale e pulita. Un pavimento bianco, un bancone rosso, sei candele : tre a un capo del bancone e tre dalla parte opposta.
La storia di per sé è molto cruda, ma racchiude un non so che di poetico. Negli anni passati era già stata portata alla luce e i protagonisti resi immortali da un film . Ma grazie al teatro si è potuto rinnovare questa poesia e libertà delle proprie scelte che porta a un destino triste e infelice.
Elisa Mina
di Giorgia Cerruti
regia Giorgia Cerruti
assistente alla regia Cleonice Fecit
con Davide Giglio e Giorgia Cerruti
scene e luci Lucio Diana
costumi Gaia Paciello – atelier Pcm
musiche Giorgia Cerruti – Cleonice Fecit
organizzazione Giulia Randone
produzione Piccola Compagnia della Magnolia, Festival delle Colline Torinesi