Medea: una tragedia classica di Euripide molto nota per chi ha avuto occasione di confrontarsi con i testi classici. In questa rappresentazione alle Fonderie Limone la figura tanto ambivalente della protagonista mostra al pubblico la propria disperazione e sofferenza in un momento di introspezione accentuato dalla scelta scenografica del regista Leonardo Lidi: una stanza vuota con dei vetri in plexiglas che separa il pubblico dall’azione e permette di concentrarsi sulle emozioni provate dai personaggi.
Veri protagonisti di questa tragedia sono le donne oggetto di persecuzione per la loro disperazione, origine, conoscenze e capacità, oppure vittime della situazione perché usate per l’acquisizione di potere. Situazione purtroppo ancora attuale per le donne di oggi che se istruite o con idee critiche scomode vengono emarginate o prese poco sul serio. Lo spettacolo vuole farsi emblema della lotta femminile che dai tempi della classicità non è cambiata molto nella sua sostanza. Ma senza cadere in discorsi già più che affrontati e ripetuti, un’altra tematica molto importante è quella della patria, e quindi della donna migrante. Oggi è ben noto il problema dei profughi di guerra che vogliono giungere in Europa nella speranza di trovare condizioni di vita migliori. Molto spesso questo non accade, anzi chi scappa si ritrova come Medea senza una patria che le/li protegga e viene poi spesso irretito dalla criminalità. E se già per gli uomini sembra difficile adattarsi, per le donne la sfida è ancora maggiore.
Nonostante questa interpretazione moderna, nella rappresentazione non viene meno l’ambiguità del personaggio principale, per cui se da un lato il pubblico è portato a empatizzare per la sua condizione dall’altro inorridisce ai suoi intenti omicidi e atteggiamento che sfiora per molti aspetti la pazzia, grazie alla recitazione di Orietta Notari. Per quanto la tentazione di un’interpretazione in chiave femminista del mito sia forte, non bisogna dimenticare la vera motivazione che ha portato alle uccisioni nella tragedia. Medea uccide per vendetta nei confronti del marito con raccapricciante premeditazione. La sua è una vendetta egoistica dettata dall’orgoglio per un oltraggio subito: uccide la nuova moglie e i figli per privare il marito Giasone della sua progenie e quindi della sua dignità maschile.
Medea è giustificabile? Si tratta di un dilemma irrisolvibile, per cui è impossibile vederla riduttivamente come personaggio positivo o negativo. L’interpretazione dichiaratamente femminista su cui si incentra lo spettacolo non è sufficiente a giustificarne il gesto e sarebbe piuttosto riduttiva vista la complessità del personaggio. Ma allo stesso tempo, un’interpretazione apertamente femminista è necessaria in un momento storico come quello attuale in cui le donne, come ampiamente discusso in diversi ambiti anche fuori da quello teatrale, sono penalizzate su più fronti.
Colgo l’occasione per citare parole della stessa Medea che potrebbe pronunciare qualsasi donna oggi per le ragioni più diverse: “Soffro, lo capite che soffro?”.
Linda Steur
Da Euripide
Traduzione Umberto Albini
Regia Leonardo Lidi
Dramaturg Riccardo Baudino
Con Orietta Notari, Nicola Pannelli, Valentina Picello, Lorenzo Bartoli, Alfonso De Vreese, Marta Malvestiti
Coinvolgente, appassionante, struggente, queste sono le parole che vestono perfettamente la pièce teatrale La ragazza sul divano, nata dalla penna del premio Nobel Jon Fosse e portata in teatro da Valerio Binasco. La scenografia è stata sapientemente studiata e disposta in modo da trasportarci, con gli stessi personaggi, nella quotidianità di una donna sola, colma di rimpianti e di rimorsi. Uno spettacolo per questo che permette allo spettatore di muoversi con uno sguardo, nella sottile linea del tempo, tra passato e presente. Il dolore, la paura, la solitudine, sentimenti forti e imponenti, i quali governano la scena senza timore alcuno, risuonando in ogni battuta e in ogni gesto. Il gesto teatrale accompagna perfettamente la drammaturgia, le scene che si susseguono mi appaiono dinamiche e connesse: sono rimasta catturata e assorta da un immenso dolore che ho in qualche modo compreso e che avrei, senza dubbio, voluto consolare. Si tocca la sensibilità dello spettatore, si instaura in esso un’importante consapevolezza, quella che ci permette di prendere atto che tutto passi, la gioventù, gli amori, perfino i legami più forti, tutto finisce e tutto ricomincia, in un circolo continuo, quello della vita, che in questo spettacolo ha le sonorità di You don’t own me di Lesley Gore:
You don’t own me
Don’t try to change me in any way
You don’t own me
Don’t tie me down ‘cause I’d never stay
I don’t tell you what to say
I don’t tell you what to do
So just let me be myself
That’s all I ask of you
I’m young and I love to be young
I’m free and I love to be free
To live my life the way I want
To say and do whatever I please
Il grido di una libertà perduta, storie di scelte sbagliate e anime ingombranti, la storia di una ragazza che tutta la vita ha passato “seduta sul divano”, senza essere capace di reagire alle difficoltà, la cui unica consolazione diventa la pittura dei suoi quadri: “se non stai attenta, si prendono tutto lo spazio, non perché siano belli o brutti ma perchè sono quadri”, tele macchiate di colori che colano come sangue dalle ferite, colori che escono dal loro confine incontrollati, senza senso, come la vita di questa donna a cui non è rimasto NIENTE. Niente è una delle parole chiave di questa pièce teatrale, cos’è il “niente”, cosa significa, perchè niente? Forse si riferisce ad un’anima persa che non sa più come ritrovarsi e che non ha più nessuno che possa aiutarla a farlo. “Tu non mi possiedi” dice la canzone “sono giovane e amo essere giovane, sono libera e amo essere libera, lasciami vivere come voglio”, parole che vibrano nel cuore dello spettatore con la stessa intensità che la voce dell’attrice principale, Pamela Villoresi, esprime nel suo urlo di disperazione finale. Una donna abbandonata e che abbandona, una donna a cui è rimasto un padre la quale unica costanza è stata l’assenza nella sua infanzia, una figura paterna ormai anziana e sola a cui lei stessa si appoggia, in quanto figlia, che seppur adulta, possiede ancora l’ingenua anima di una bambina, la cui innocenza si riflette nel bisogno di cura, nella ricerca di attenzione, nella volontà di riparare la propria anima rotta, ricominciando da capo, dal suo primo e significativo abbandono, quello del papà. La trasgressione che incoraggia la colonna sonora viene incarnata perfettamente dalla sorella della protagonista, la sua libertà si traduce nella nudità scenica, una nudità ricercata, necessaria? Forse no, ma la mancanza di senso, talvolta, regala attimi di normalità. Tanti sono infatti i momenti imbarazzanti interpretati nelle scene, tanto imbarazzanti da essere realistici, attimi che si sono colorati di uno humor sottile e familiare. Le interpretazioni degli attori evidenziano una coerenza tra un personaggio e l’altro, il file rouge della trama è scorrevole e seppur complesso nella costruzione, di facile comprensione, chiaro ed impattante. Un vinile su un vecchio giradischi suona, sopra di esso un piccolo vasetto con un fiore: scena finale, un’immagine delicata che esprime l’essenza di questo dramma musicale. L’armonia della vita è stata perfettamente rappresentata da un’armonica successione degli eventi, spingendo gli spettatori a riflettere sul proprio passato, sul proprio presente, sulle proprie scelte e soprattutto sul significato del “Niente”.
Quattro bizzarri personaggi accomunati da un infelice fil rouge danno vita a La signora del martedì nella sua prima replica torinese al Teatro Gobetti: sono anime sconfitte, poste ai margini della società a causa di errori personali, sventure o ingiustizie ricevute.
Fantasmi della memoria e un oscuro passato vengono risvegliati nel corso della commedia-thriller rivelando contraddizioni e forti passioni celate. Chi paga rapporti sessuali all’insegna della propria indipendenza, chi ricatta per ossessione, chi si trasforma continuamente per affermare la propria identità, chi tradisce, uccide o si toglie la vita per amore.
L’autore Massimo Carlotto ha scontato anni di carcere per un omicidio che non ha commesso. La drammaturgia attinge dal suo vissuto e descrive alcuni angoli bui della società contemporanea. Affronta il tema della persecuzione attuata dalla stampa, disposta ad alterare la realtà dei fatti pur di servire un prodotto ben confezionato e accattivante ai lettori ingordi. Una caccia alle streghe sempre alla ricerca di un colpevole, anche a costo di trascurare la verità e rovinare l’esistenza degli interessati.
Ogni martedì alle 15:00 una donna sfuggente (Giuliana De Sio) varca la soglia della Pensione Lisbona per concedersi un’ora di piaceri carnali. Quest’abitudine è diventata negli anni un rituale necessario, Nanà reitera le medesime azioni con sistematica meticolosità. Si mostra risoluta e autorevole, ma nel secondo atto la sua marmorea corazza di ghiaccio andrà in frantumi. Ella compra sessanta minuti di sesso alla settimana per fuggire la realtà della propria vita, l’algida insensibilità è una maschera dietro cui si nasconde. Al contrario Bonamente, attore porno in declino, agogna disperatamente fama e celebrità. Non riuscendo mai a concretizzare tali aspirazioni, ripiega sul mestiere di gigolò. Egli vive ormai da quindici anni nella pensione Lisbona, è l’unico inquilino. L’alberghetto decadente è gestito dalla signora Alfredo, un travestito che si occupa del prezioso cliente come fosse il proprio bambino. La proprietaria si rifugia nell’edificio per poter indossare liberamente abiti da donna. In strada porta indumenti maschili al fine di non sconvolgere i passanti, non rinuncia però alle scarpe col tacco, così da rammentare agli sguardi giudicanti la loro colpa nel costringerla a vestirsi diversamente da come vorrebbe. L’ingresso di un ambiguo vecchio avvezzo all’alcol (Alessandro Haber) rompe la monotona quotidianità dell’albergo riesumando antichi scheletri a lungo tenuti sottochiave. Egli si presenta come un nuovo affittuario senza malizia, ma presto svela di essere un machiavellico giornalista di cronaca la cui psicosi viene somatizzata nella perdita dell’uso delle gambe.
Lo spettacolo è un adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Massimo Carlotto. Il drammaturgo nel trasporre il testo ha lavorato a contatto diretto con gli attori e tale collaborazione ha generato delle modifiche nei personaggi. Ad esempio la costrizione sulla sedia a rotelle della figura del giornalista è una scelta che nasce dall’attuale limitazione fisica dell’interprete Haber.
Nonostante l’utilizzo dei microfoni ad archetto, il testo pronunciato come un torbido fiume di parole è spesso di difficile comprensione. La prima parte si sviluppa come una breve commedia; a seguire invece gli avvenimenti tendono verso un clima cupo e sofferto. Inaspettatamente all’apice drammatico il registro vira verso una marcata comicità che potrebbe risultare stonata agli occhi dello spettatore. Per quanto riguarda i movimenti scenici e i cambi di stato degli attori, talvolta questi appaiono macchinosi e poco fluidi.
A proposito dell’arco narrativo dei soggetti invece, lo sviluppo è facilmente intuibile fin dal loro primo ingresso. In alcune interviste De Sio parla di Nanà come un carattere dal profilo totalmente tragico; Haber spiega che nel romanzo il giornalista è dipinto con le caratteristiche di un sadico crudele, agisce solo per nuocere al prossimo. Egli in quanto artista cerca di dargli una luce diversa nell’opera teatrale, indagando la sua fragilità e disperazione date da un affetto mai ricambiato. La figura del travestito è un ruolo che rischia facilmente di essere appiattito in una macchietta, ma Paolo Sassanelli ci sorprendecon piacevole freschezza e spontaneità.
Inframezzato anche da assoli in cui ogni personaggio canta un classico della musica italiana, lo spettacolo risulta in fin dei conti un pastiche di registri poco armonico. Ne sono un ulteriore segnale i finali di entrambi gli atti che si discostano dal realismo di cui è permeato il resto del lavoro. Nanà nella sua vulnerabilità si libera dagli affanni della vita e danzando crea un’onirica immagine poetica: “Il tango è molto meglio della vita perché se sbagli un passo puoi comunque andare avanti a ballare senza dover rimediare”.
Ariel Ciravegna Thedy
Autore Massimo Carlotto Con Giuliana De Sio, Alessandro Haber, Paolo Sassanelli, Riccardo Festa, Samuele Fragiacomo Regia Pierpaolo Sepe Scene Francesco Ghisu Costumi Katarina Vukcevic Produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo, Goldenart Production, Teatro della Toscana
Come un Giano bifronte questo spettacolo del Teatro Stabile di Torino mostra due facce della stessa medaglia che si prestano a molteplici interpretazioni. Abbiamo modernità e antichità che si mescolano nella tragedia storica di Shakespeare, reinterpretata sia in qualità di attore che di regista da Valter Malosti in una visione comica e disincantata, in cui l’Eros non può essere vincitore sulla ragione e il rigore del contesto storico per quanto possa essere passionale e contraddittorio.
I temi ricorrenti nella produzione di Federico García Lorca sono l’amore, il desiderio e le ossessioni; essi sono presenti anche nel suo dramma teatrale Nozze di sangue, ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto in Andalusia nel 1928. Lluís Pasqual, considerato uno dei massimi esperti di Lorca, propone questo testo dal 30 gennaio all’11 febbraio al Teatro Carignano. Il regista dà modo di far vivere usi e costumi dell’epoca e le emozioni di un amore materno profondo.
Alla propaganda della bellezza, soprattutto in Italia, siamo esposti fin da piccoli: ci svezzano a pane e bello; e se non è dannoso, ci induce quantomeno a un’errata postura nell’accostarci a oggetti che vanno tutti sotto un unico cappello: “arte”. Così finiamo per osservare un quadro di Giotto, un’icona bizantina e una pittura romantica con le stesse lenti della bellezza, spesso unita a un altro concetto, ugualmente utilizzato a sproposito, logoro: il concetto di “genio”.
Le icone bizantine, infatti, non sono fatte per la loro bellezza o per leggervi la bravura dell’artista – peraltro, in questo contesto, perlopiù sconosciuto – ma sono uno strumento di preghiera; strumento, come un tavolo, una sedia, un cucchiaio, una forchetta.
È bene tenerlo a mente, perché a forza di interpellare la bellezza, si rischia di perdere una visione della l’arte che dovrebbe rimanere per lo più poliedrica e totipotente.
E il teatro, tra le sue varie funzioni, ha quello di documento, documento storico, ci può aiutare nell’esercizio della memoria; e così come le Stolpersteine (le pietre di inciampo) dell’artista tedesco Gunter Demnig o Shoah di Claude Lanzmann si emancipano dalla loro natura artistica e diventano documento storico, così anche L’istruttoria di Peter Weiss, recitato al Teatro Gobetti dal 23 al 28 gennaio dagli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile di Torino diretti da Leonardo Lidi, testo questo che utilizza i mezzi del teatro per diventare uno strumento del ricordo.
È bene ricordare che non siamo di fronte a una drammaturgia, il testo infatti non forza i confini del dramma, ma si pone in un altro spazio nettamente diverso e separato da un testo drammaturgico. Siamo di fronte a un Oratorio, strutturato in 11 canti (il pensiero va a Dante) composti a partire dagli appunti stilati da Weiss durante le sedute dei processi penali contro un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz, che si tennero a Francoforte sul Meno tra il 10 dicembre 1963 e il 20 agosto 1965. Questo fu il primo processo voluto dal governo tedesco per giudicare le responsabilità del nazismo nella tragedia dell’olocausto. Nelle 183 giornate di processo vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali sopravvissuti al campo di sterminio.
I modi per attivare questo dispositivo della memoria non sono univoci. In Italia ricordiamo due modalità in cui è stato fatto. Nel ’67 Virginio Puecher per il Piccolo Teatro portò questo testo in spazi molto grandi: palazzetti dello sport, palazzi delle esposizioni, usando massicciamente le tecnologie e ibridando materiali eterogenei. Il risultato è quello del corpo di un performer che si dà ma viene continuamente negato annullato, oppresso dai media. Per esempio, vediamo i volti attraverso lo schermo dal momento che danno le spalle al pubblico, pezzi di documentari si alternano al testo di Weiss. (Usiamo la parola performer per la difficoltà qui di adoperare parole come attore o messa in scena; nel tempo che viviamo lo spettacolo tende a fagocitare ogni aspetto, soprattutto a teatro).
In aggiunta l’impianto scenografico di matrice costruttivista di Josef Svoboda, che crea un setting da studio televisivo, evitando un unico punto focale, accentua lo straniamento, lo spettatore è costretto, pungolato, ad assistere alla testimonianza. Il teatro si pone come strumento efficace di documentazione e memoria perché è un documento incarnato nel presente, opera un corto-circuito tra passato e presente, fa rivivere la storia. Inchioda lo spettatore alla vergogna.
Un’altra via percorribile è quella che sceglie il Collettivo di Parma nell’84 con la regia di Gigi Dall’Aglio.
Un’esecuzione intima, quasi un rito, altrettanto ustorio: in un ambiente nero, lo spettatore è costretto a sostare in piedi in diversi spazi, per tutta la durata del primo canto. Gli oggetti che vediamo possiedono un grande potere evocativo, come nel secondo canto: mentre si racconta dell’espoliazione delle vittime, un uomo e una donna con le loro valigie sono portati al centro e fatti spogliare, le loro valigie vuotate, e gli oggetti disposti con cura davanti a loro. Sul finale, il piccolo spazio scenico è inondato di fumo e forti luci, per cercare di evocare l’orrore delle camere a gas.
Questo rito laico è in repertorio e viene riproposto a Parma ogni anno.
Il lavoro curato da LeonardoLidi a cui abbiamo assistito adotta invece un’impronta estremamente minimale. Nel voler portare a teatro il racconto delle vittime e dei carnefici di Auschwitz l’intento di Lidi, assieme agli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile, sembra quello di voler spogliare di ogni orpello il rito della recita, lasciando la nuda testimonianza unica vera protagonista. Scrive infatti Lidi nel programma di sala che “l’importante non fosse creare un vero e proprio spettacolo, ma un momento di sincera condivisione sociale assieme alle persone venute per ascoltare ma anche per partecipare ad una giornata di grande importanza”. È per creare un’atmosfera di condivisione, dunque, che il pubblico entra in sala trovando già presenti gli interpreti sparpagliati per la platea, quasi come entrassero in una piazza, e che le luci rimangono accese fino agli ultimissimi istanti della performance. Il pubblico vede gli interpreti, gli interpreti vedono il pubblico. Sul palco l’impianto scenico è asettico, composto unicamente da una struttura a gradoni bianchi. I performer, in giacca nera e camicia bianca (eccezion fatta per i carnefici, in sola camicia bianca), una volta presa posizione su di essi restano quasi esclusivamente fermi sul posto, alzandosi solo per parlare. Il movimento più presente è quello dei microfoni, passati di mano in mano per far parlare i vari testimoni. La testimonianza viene trasmessa in maniera diretta, pronunciando il testo senza particolare inflessione, senza lasciar trasparire alcun sentimento di troppo. Sarebbe stato fin troppo facile lasciarsi andare ad un’interpretazione emotiva del testo, lasciarsi trasportare dall’orrore delle immagini da esso evocate. Troppo spesso le opere che trattano questo argomento tendono a scadere nel sentimentalismo, nella riproposizione patetica degli eventi, andando così a minare il messaggio di fondo: “è accaduto. Può accadere ancora. Non dobbiamo lasciare che accada”. In questo senso Lidi e gli allievi dello Stabile operano invece un rigoroso esercizio di sottrazione, e le poche emozioni che traspaiono dai volti dei performer sappiamo essere autentiche, uno scorcio nei loro pensieri che ci è dato vedere quasi per sbaglio, non simulate o evocate per la scena. Lo stesso non si può dire di alcuni individui del pubblico, che forse perché illuminati per tutto il tempo e dunque presi nell’insieme tendono talvolta a dimostrare platealmente con ampi movimenti della testa il proprio sdegno per gli eventi descritti. Questo lavoro porta all’estreme conseguenze l’atto del vedere insito nel teatro sin dal suo etimo, mentre guardiamo, da una parte il racconto è talmente insostenibile che dobbiamo abbassare lo sguardo, dall’altra è una mano che ci fa alzare la testa e ci riporta al dovere della memoria. Il dolore dell’olocausto, che poi è dolore dell’umanità tutta perché è il fallimento per antonomasia dell’umanità, traspare in tutta la sua violenza dalle semplici parole, dalla pulizia con cui vengono enunciate. In un terreno d’indagine in cui ogni cosa, anche dare e ricevere applausi, rischia di apparire irrispettoso o non adatto, un approccio come quello qui messo in atto mostra una qualità di giudizio lodevole da parte di Lidi e degli interpreti. Tutto è sottratto per lasciare posto all’evidenza di ciò che è stato. “È fondamentale” scrive sempre Lidi nel foglio di sala “evitare il più possibile il rischio inopportuno di spettacolarizzazione del dolore, una trappola frequente che dovremmo combattere proprio a fianco delle nuove generazioni”.
E se qualcuno ahimè quest’anno volesse mettere in discussione la legittimità di ricordare la shoah, bisogna ricordare che la memoria della shoah è di tutti, come scrive Anna Foa: “In questo terribile conflitto, in cui due estremismi opposti si combattono nel dolore delle vittime di entrambe le parti, ora l’importante è fermare l’operazione bellica che sta distruggendo Gaza e che sempre più precisa come suo obiettivo l’annessione dei territori occupati a formare una grande Israele. Vedremo risorgere, con tutti i suoi limiti, ma anche con le sue aperture e le sue speranze, l’antica Israele dei suoi padri fondatori, e vedremo i palestinesi disfarsi degli estremisti e lavorare alla creazione di uno stato che viva in pace coi suoi vicini? Per quanto difficile sia, distruggere la memoria del maggiore genocidio del Novecento, oppure anche soltanto lasciarla come patrimonio solo degli ebrei, sottraendola all’umanità intera, non può certo aiutare a raggiungere questo obiettivo.”
È importante che a realizzare questo lavoro siano degli attori in formazione: tra le prerogative di un attore non è secondaria quella di porsi come custode della storia. In un presente in cui la memoria tout-court tende a essere merce rara, gli attori possono esserne il veicolo.
di Peter Weiss con gli allievi della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino (in ordine alfabetico) Alessandro Ambrosi, Francesco Bottin, Cecilia Bramati Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Hana Daneri Alice Fazzi, Matteo Federici, Iacopo Ferro Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo Diego Pleuteri, Emma Francesca Savoldi Andrea Tartaglia, Nicolò Tomassini, Maria Trenta regia Leonardo Lidi regista assistente Francesca Bracchino scene Fabio Carpene Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale
Dal 19 dicembre 2023 all’1 Gennaio 2024, al Teatro Gobetti, è andato in scena lo spettacolo Arlecchino Furioso. La compagnia Stivalaccio Teatro, che si occupa di teatro popolare, teatro per ragazzi e arte di strada, in questa occasione ci riporta indietro nel tempo seguendo la tradizione della Commedia dell’Arte.
“Sono dinamici e creativi i giovani di Stivalaccio Teatro, e anche coraggiosi nel dedicare le loro energie a un genere di nobile tradizione e di alta specializzazione qual è la Commedia dell’Arte, che li porta a confrontarsi con interpreti giganteschi e insuperabili”.
Questo ciò che viene detto della compagnia in occasione del Premio ANCT – Associazione Nazionale Critici Teatro 2023, che gli viene assegnato proprio al Teatro Gobetti.
E’ con questo indovinello uscito direttamente dalla penna di Lewis Carroll, che si apreWonderland al Teatro Gobetti. Con le luci di sala ancora accese e con la divisione tra pubblico e performer non ancora netta, entriamo gradualmente all’interno della narrazione, attraverso giochi di parole che iniziano ad ingarbugliarsi.
Sul palco non c’è nessuna Alice, siamo noi che cadiamo direttamente nella tana del Bianconiglio e ci ritroviamo in un mondo senza senso, in uno spettacolo che non ha una trama, ma dei semplici episodi che dobbiamo “riconoscere, piuttosto che comprendere”, come lo stesso Collettivo Effe tiene a precisare.
La mia passione per il lavoro di Gabriele Vacis dura dal 2016, da due lezioni folgoranti, di cui ricordo ogni dettaglio. Ricordo come entrò nell’aula, attraversando il grande spazio vuoto in silenzio, fino a raggiungere l’unica sedia della stanza, in mano l’Amleto tradotto da Cesare Garboli. Noi seduti per terra, attorno a lui. Ricordo come ci mostrava le casse armoniche naturali del corpo umano, facendosi passare la voce dal naso, al diaframma e anche dietro nelle spalle. Me lo ricordo illustrarci la differenza tra tono, volume e ritmo, aggiungendo: «e state attenti alla manomissione delle parole. Nei talk show, quando dicono abbassate i toni si riferiscono al volume » e così poi ci dimostra come si può tenere una nota acutissima a un volume bassissimo. Me lo ricordo citare Aldo Busi – con la veletta – che dice: «La letteratura è ritmo». Me lo ricordo mentre ci fa ascoltare l’Aria dalle Variazioni Goldberg suonata da Glenn Gould, prima negli anni’50, velocissima, e poi più lenta, nell’incisione degli anni ’80. «Glenn Gould» ci dice Vacis «incanta il tempo, quando leggete ad alta voce, avete la possibilità di incantare il tempo». Me lo ricordo mentre tira fuori Il piccolo principe e parla dei lagami che si possono creare tra chi legge e chi ascolta; me lo ricordo mentre legge l’incipit de Il profumo, di Süskind, e dice: “La lingua è un’orchestra”. Me lo ricordo, il secondo giorno, quando ci ha preparati alla lettura ad alta voce, mostrandoci come si abita lo spazio e il tempo, come si sta in relazione con lo sguardo. Mi ricordo l’emozione, dopo quella lezione, di come abbiamo applaudito con le lacrime agli occhi, mentre lasciava l’aula. Due lezioni intensissime che non bastavano a contenere il lavoro di una vita; volevo saperne di più. Così l’ho cercato, e l’ho seguito il più possibile. La prima cosa che ho imparato è che il suo teatro si declina solo al plurale, dagli esordi con Laboratorio Teatro Settimo, addirittura le regie dei primi lavori sono regie collettive. E se qualcosa ho capito del modo in cui lavora Vacis, un mistero per me rimaneva il processo creativo del suo sodale che lo accompagna dalla prima ora, Roberto Tarasco. Tarasco si occupa di Scenofonia. Volevo saperne di più, e gli ho proposto di fare una chiacchierata assieme, mentre i PEM si preparano alla ripresa di Antigone e i suoi fratelli, che ha debuttato lo scorso anno alle fonderie Limone. Tarasco è energico, le frasi sempre vitali, ama raccontare, ma prima centra il cuore della questione, senza troppi giri di parole.