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SCAVI. FESTIVAL DELLE COLLINE, STAGIONE 2019, TEATRO

Passare attraverso una mostra di arte contemporanea. Scendere al piano di sotto, attraversare un corridoio e arrivare in un salone svuotato. Al centro tante sedie di legno che formano dei cerchi intersecati tra loro. Scegliere un posto, una prospettiva, ed iniziare ad ascoltare frammenti.

Ricordi degli attori (fittizi o reali?) amalgamati con aneddoti e battute del film ‘Il deserto rosso’ che creano una performance silenziosamente ritmica. Attraverso il dialogo e tra i tre attori, seduti o in piedi tra il pubblico, la pallina dell’attenzione rimbalza continuamente, facendo si che lo spettatore debba seguire con la testa e con il corpo i movimenti dei performer nello spazio. Il rapporto tra noi e loro diventa amichevole, gli sguardi sono intimi e diretti e spesso ci si avvicina ad un dialogo confidenziale.

Quando Giovanni Fusco compone per ‘Il deserto rosso’, cerca di rispecchiare ed al contempo prolungare nella musica la nevrosi di Giuliana. Anche nello spettacolo il disagio psichico, inteso come condizione esistenziale, è centrale, come lo è l’immaginazione.

Daria Deflorian inizia parlando della famosa battuta pronunciata da Monica Vitti nel film: <<Mi fanno male i capelli>>. Da questo momento si è trasportati in narrazioni e ricordi su questo tema. Gli attori ricostruiscono una possibilità dell’incontro tra Amalia Rosselli, poetessa a cui è attribuita la celebre frase, e Monica Vitti. Veniamo così catapultati a Roma, in quel pomeriggio in cui le due donne si sono incontrate, per volere di Antonioni, con lo scopo di parlare del personaggio Giuliana. Durante la performance è impossibile rimanere con la mente lucida e presente. Non la si può tenere ferma. Vaga, guidata dai tanti indizi di storie che si avvicinano ad essere leggende.

Si indaga tra gli appunti, nelle ipotesi. Si parla della possibilità di un altro finale che il regista ferrarese aveva pensato per il suo primo film a colori: immagini di paesaggi industriali completamente ricoperti di neve. La quiete dopo la tempesta.

Si narrano i litigi tra Antonioni e Vitti, della loro umanità e fragilità,della fine del loro rapporto proprio durante le riprese del film, tentando di penetrare una realtà inconoscibile perché non è la propria.

Viene rappresentata la vittoria del Leone d’Oro ‘per il film più sorprendente della mostra’ nel 1964.

I nessi logici con cui è scritto questo testo teatrale-performativo sono irrazionali, in parte libere associazioni. Una scoperta archeologica continua nella psicologia e nell’opera di Antonioni.

Pensare drammaturgicamente ad un film significa immergercisi dentro, esserne totalmente assorbiti. Ed è ciò che accade assistendo a questo spettacolo: un’ora di ipnosi prodotta dalle parole e dai racconti che plasmano immagini, che creano fantasie. Uno scavo nell’opera d’arte, ma anche nella profondità degli attori, che si conclude con la contemplazione. I tre performer infatti mettono fine allo spettacolo uscendo dalla sala, aprendo una porta verso il cortile esterno. Vengono inebriati dalla luce naturale e dall’aria impregnata di pioggia e noi spettatori li seguiamo, purtroppo solo con il pensiero, rimanendo nel silenzio e nella riflessione.

Lo spettacolo tramonta così, in modo inaspettato, con lo sguardo proiettato verso l’esterno.

E’ difficile esprimere i contenuti della performance, insieme di racconti, trame, ricordi. Una cosa è certa: può essere paragonata ad una forma drammaturgica di archeologia subacquea. Ritrovamenti di relitti antichi formati da appunti e riflessioni cinematografiche, parti di qualcosa di più grande. Perché se viene trovata una statua logorata dal mare e dal tempo, significa che c’è la possibilità che là sotto, nell’oscurità, ci sia stata un’intera città.

Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, insieme a Francesco Alberici, creano questo progetto autonomo nel 2018, scavando all’interno del film di Antonioni ‘Il deserto rosso’ e focalizzandosi su Monica Vitti e sul suo personaggio marginato ed alienato dagli altri e dalla società in cui vive. ‘Scavi’ è quindi la sovrastruttura del lavoro creativo totale, la punta dell’iceberg.

In contemporanea un altro processo strettamente intrinseco a ‘Scavi’ produce ‘Quasi niente’, creazione incentrata prevalentemente su Giuliana e sulla sua interprete, Monica Vitti.

Daria Deflorian e Antonio Tagliarini collaborano dal 2008, dando vita a diversi progetti. Tra questi il Progetto Reality (premio Ubu 2012 a Deflorian come miglior attrice protagonista), Ce Ne Andiamo Per Non Dare Altre Preoccupazioni (premio Ubu 2014 come migliore novità italiana e Premio della critica 2016 come miglior spettacolo straniero in Quebec).

Macondo

Formiche operaie blu, rosse e verdi.

Perché il teatro? Qual è il suo scopo? E’ un anacronismo una stranezza oltre modo datata, che si regge come un vecchio monumento o che si ripete come un abitudine bislacca? Perché applaudiamo e a che cosa? Il palcoscenico ha un ruolo reale nella nostra vita? Che funzione può avere? A che cosa potrebbe rendersi utile? Che cosa potrebbe esplorare? Quali sono le sue qualità intrinseche?

Peter Brook

Le lecite domande che si pone uno dei padri del teatro di ricerca della seconda metà del novecento sono oltremodo appropriate quando, come lui, si tenta di trovare delle risposte attraverso la sperimentazione che porta alla scoperta o alla riscoperta di nuove o antiche prassi teatrali riviste con nuovi occhi.

Lo spettacolo Macondo ha qualcosa di antico nell’evocare i primordi di un teatro che affonda le sue radici nel mito. Carte di Archetipi vengono distribuite come premessa dello spettacolo, durante l’attesa fuori dallo spazio-scenico. Ma per attuarlo usa una prassi tecnologica contemporanea portando alle estreme conseguenze quello che Gadamer definisce come «l’immediatezza della comunanza di spettatore e attore […] immediatezza che è altrimenti ben di rado concessa alla nostra esperienza estremamente mediata». Nell’ immediatezza tra attore e spettatore di solito, per usare le parole di Annamaria Cascetta, «si rivelano possibilità potenziate di essere, che ci sovrastano e ci scuotono. E questo avviene in una situazione di interazione, di comunione in cui è richiesto un reciproco scoprirsi fino a suscitare il disagio di chi non fosse disposto al gioco».

Ma cosa accade quando l’attore viene completamente negato e lo spettatore perdendo completamente quello che è la sua caratteristica fondante diviene da “colui che guarda un’azione”  a “colui che compie un’azione” senza il quale il dramma/drama stesso non esisterebbe?

Chi non è disposto al gioco si sente a disagio, questo è un po’ la sensazione di quello che lo spettatore vive durante Macondo. Negli ultimi decenni del novecento sono stati molti gli spettacoli che hanno trovato soluzioni per coinvolgere lo spettatore in un ruolo attivo e cooperante senza il quale la rappresentazione non funzionerebbe.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di parlare dello spettacolo tornando alle domande poste da Brook nella citazione iniziale.

Perché applaudiamo e a che cosa serve?

Una volta ho letto da qualche parte che applaudiamo per tentare di trattenere, di afferrare, ciò che abbiamo appena visto, ma che è già sparito, quell’effimero che è lo stesso statuto ontologico di ogni spettacolo dal vivo. Ma nel caso di Macondo applaudiamo perché ce lo chiede una scritta che compare sullo schermo posto come parete di fondo della scena o perché ce lo dice una voce registrata che ci parla attraverso cuffie che vengono distribuite a tutti gli spettatori prima dell’ingresso in “teatro” che più che “luogo della visione” (theatron – per riprendere l’etimologia greca) in questo caso è il “luogo dell’ascolto”. Dove diventiamo più che altro pedine di uno schema prestabilito. Così in assenza degli attori, spettatori cuffia-comandati non interpretano ma ripetono azioni e parole imposte da un “volere supremo” invisibile e immaterico ma estremamente efficace perché ha il potere di guidare le nostre azioni incidendo sull’ambiente circostante, contro ogni nostra esplicita volontà (fermo restando il libero arbitrio di chi decide di non partecipare al gioco). Come le formiche blu, rosse o verdi che vediamo comparire di tanto in tanto sulle schermo in fondo alla scena cerchiamo di il compito che ci viene suggerito. Le cuffie hanno dei led che a seconda dei differenti ruolo a cui i vari  spettatori sono  chiamati  a rispondere  possono essere blu, rossi o verdi.

Che funzione può avere? A che cosa potrebbe rendersi utile?

Mi viene subito in mente il paragone con il potere persuasivo della pubblicità. Andrea Fontana nel suo libro “Storytelling di impresa” parla di “rete narrativa” da cui la nostra vita quotidiana sarebbe costantemente avvolta essa “filtra le nostre percezioni, stimola i nostri pensieri, evoca le nostre emozioni, eccita i nostri sensi, determinando risposte multisensoriali”. Come scrive Guariento riprendendo Fontana :

L’individuo fin dai primi anni di vita è homo narrans: egli crea descrizioni narrative per se stesso e per gli altri, o utilizza le narrazioni per prendere delle decisioni creando situazioni ‘come se’. Ma il periodo storico attuale è particolarmente caratterizzato da “assedio testuale”: la narrazione oggi è talmente pervasiva della vita che Fontana parla infine di “accerchiamento narrativo”. In questo accerchiamento, sono i mass-media a detenere una sempre maggiore egemonia: per essi, la narrazione sembra essere divenuto tema centrale.

La narrazione sembra essere necessaria anche nello spettacolo Macondo che sembra non avere il coraggio di prendersi fino in fondo la responsabilità di questa “sperimentazione” giustificando la mancanza di attori e tecnici come un problema di malfunzionamento delle porte che hanno lasciato la “crew” fuori dallo spazio-teatro, vittime anche loro, paradossalmente , dell’egemonia della narrazione . Così gli spettatori, inizialmente seduti in attesa che qualcosa accada, sono costretti a fare loro qualcosa per dare senso al loro trovarsi riuniti.

Da questo punto di vista lo spettacolo sembrerebbe voler essere metafora  di  una società di massa schiava di un subdolo ma crudele e imprescindibile sistema di controllo, in realtà rimane più vicino a quello che sembra suggerirci Debord in La società dello spettacolo quando afferma:

La società che riposa sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso.

Che cosa potrebbe esplorare? Quali sono le sue qualità intrinseche?

C’è un potenziale nello spettacolo che a mio avviso non viene esplorato fino in fondo. Fermo restando che quello a cui assistiamo non è una rappresentazione drammatica ma è più simile a una rappresentazione rituale in cui viene creata una comunità ad hoc che potremmo chiamare la “comunità degli uditori”. Eppure per quanto molto più simile al rito non entra nemmeno pienamente in merito delle sue funzioni. Infatti in una rappresentazione rituale la comunità decide volontariamente di evocare un altro da sè per il superamento di una crisi. In questo caso invece la “comunità degli uditori” non invoca o meglio non evoca nessuno, il controllo da parte dell’altro da è data come premessa dello spettacolo. Questo fa sì che non possa mai esserci in nessun momento il superamento della crisi. Del resto mi viene anche da chiedere di quale crisi si tratti. L’impossibilità del dramma? Il puro godimento autoerotico di uno spettatore che guarda se stesso? Il puro masochismo di un regista-demiurgo?

Di certo in questa nuova comunità possiamo intravedere quel collegamento voluto e cercato alla città di Macondo di Cent’anni di Solutudini che come nel testo di Garcia Marquez è «isolata dal resto del mondo e immersa in un’ eternità enigmatica dove le tradizioni ed i riti magici sembrano contare tanto quanto la realtà comune, quella vera». Se l’intento dello spettacolo è quello di emulare la Macondo letteraria dove non esistono personaggi, ma voli pindarici che prendono forma e si tramutano in carne per muoversi in una realtà che, però, non è loro congeniale, mi viene da chiedere quanto l’effetto sia davvero quello desiderato.

Nel tentativo di superare quell’ “anacronismo” quel “vecchio monumento” di cui parla Brook riferendosi al Teatro sono d’accordo con Debord che spesso  “lo sviluppo diventa tutto” e “il fine niente”.

Che cos’è allora il teatro? (la domanda delle domande)

La risposta questa volta va allo stesso Brook quando afferma:

La forma teatrale non esiste per permettere a un gruppo di persone di raccontare, di dire, non è una forma di comunicazione attraverso la quale una persona possa spiegare qualcosa a un’altra […] Credo che il teatro sia una possibilità data all’uomo di accrescere durante un certo tempo l’intensità delle sue percezioni. E’ tutto qui, ma è enorme.

Credo che l’intento dello spettacolo possa essere stato questo ma l’effetto, vittima del bisogno giustificativo di una narrazione e di immagini ridondantemente didascaliche, sia stato quello che alla fine potremmo riassumere in un: “oso ma non troppo”.

Nina Margeri

Scritto e diretto da: Silvia Mercuriali

colonna sonora: Tommaso Perego

video designer: Susanne Dietzs

supporto drammaturgico: Gemma Brockis

art work: Peter Arnold

disegno luci: Kristina Hjelm

sound engineer: Michele Panegrossi

tradotto da Marina Mercuriali

Quasi niente, Qohélet ironico di Deflorian/Pagliarini

Quasi niente, ultimo lavoro di Daria Deflorian e Antonio Pagliari, in scena alla ventiquattresima edizione del Festival delle colline è un ritratto autoironico e colto dell’uomo occidentale contemporaneo.

L’origine, l’idea generativa è Deserto Rosso di Antonioni, ma affiora poco nei discorsi degli attori, lo spettacolo infatti conserva una sua autonomia.

Immaginiamoci – noi contemporanei – come fossimo un quadro impressionista. Immaginiamo che un Renoir ci abbia detto di osservarci alla distanza di un braccio. Ebbene, con Quasi niente, Deflorian/Tagliarini disobbediscono: prendono uno specchio e ce lo mettono di fronte, ma non seguendo le prescrizioni del Pierre-Auguste. No, lo mettono vicino, mostrandoci la nostra inadeguatezza nei confronti della vita, la nostra scomodità nell’abitare il mondo e ci regalano la possibilità di ridere di noi stessi attraverso una delle armi più potenti dell’essere umano: l’autoironia. Lo fanno in uno spettacolo raffinato, pieno di riferimenti colti: dalla Munro a David Foster Wallace, passando per Mark Fisher e Han Kang.

Deflorian segue con grande efficacia la lezione di Peter Brook: la scenografia è essenziale – pochi mobili, tra cui una poltrona, collocati ai margini della scena – saranno poi gli attori a portarli più al centro, nel momento in cui li menzionano –  alcuni inizialmente ribaltati.

 Lo spettacolo è in mano agli attori, davvero notevoli, che attraverso gesti e tempi comici perfetti creano il mondo scenico. Teatro nella sua accezione più pura.

I cinque attori interpretano cinque manifestazioni diverse dell’uomo contemporaneo: Monica Piseddu è una quarantenne depressa, Daria Deflorian una sessantenne ipocondriaca e ansiosa, Francesca Cuttica, una trentenne che si sente buona a nulla, Bruno Steinegger e Antonio Pagliarini, rispettivamente, un quarantenne e un sessantenne, l’uno oppresso dal lavoro, l’altro omosessuale in solitudine.

Quasi niente mostra tante manifestazioni della sofferenza, denunciando, senza reticenze e senza smancerie, che stare al mondo è difficile, che la vita è storta e che vani sono i nostri tentativi di raddrizzarla. Inadeguate si rivelano le strutture con cui cerchiamo di dare un senso, un ordine nostro vivere. L’unica arma è l’autoironia, nell’attesa di un nuovo dolore.

Quasi niente è lavoro di grande umanità, come tale molto coraggioso, perché denunciando, con pungente ironia, il non senso, l’impossibilità della cura definitiva, questo Qohélet teatrale dà i necessari anticorpi per resistere alla società del Think positive! che ci pretende sempre performanti e ci illude di poter cancellare totalmente la sofferenza. Ribadendo con grande intelligenza che i momenti più vitali sono proprio quelli dei piccoli grandi tormenti. Non rimane che amarsi e ridere insieme: Quasi niente, ma non è poco!

Giuseppe Rabita

STRANGE TALES

Il mondo multimediale di Violet Louise

All that we see or seem is but a dream within a dream

Un sogno delirante, nella musicalità intrinseca delle parole taglienti di Edgar Allan Poe, quello in cui ci si inabissa con lo spettacolo Strange Tales.
Prodotto dal Festival di Atene e Epidauro 2018, dove ha riscosso grande successo, la performance multimediale è diretta e interpretata dalla greca Violet Louise, anche traduttrice, autrice della musica e della drammaturgia visiva e sonora, affiancata nel ruolo di protagonista da Aglaia Pappas.

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il regno profondo. perché sei qui?

La ventiquattresima edizione del Festival delle Colline Torinesi si è aperta domenica 2 giugno 2019 alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Ad inaugurarla una delle compagnie della sezione “grandi ritorni”, la Socìetas, che, solcando la storia del teatro italiano fin dall’anno della sua fondazione nel 1981, ha anche segnato quella del Festival, contribuendo, come scrive Sergio Ariotti, «in modo determinante a definirne l’immagine in Italia e in Europa». Un grande omaggio ed un grande onore dunque avere sulla scena Chiara Guidi e Claudia Castellucci a stendere il tappeto rosso a quest’edizione, il cui tema dominante è “Fluctus. Declinazioni del viaggio”.  E proprio di un viaggio tratta lo spettacolo Il regno profondo. Perché sei qui?. Non di un viaggio nel senso letterale del termine, concreto, ma di un viaggio paralizzato, immobile, che paradossalmente attraversa in maniera trasversale la storia dell’intera umanità e la storia di ogni singolo individuo, posto davanti ad un primo, semplice interrogativo “perché sei qui?” e all’impossibilità di darvi una risposta.

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La Gioia sincera di Delbono cui non ho partecipato

Nella sezione Grandi ritorni del Festival delle colline, La Gioia di Pippo Delbono, un viaggio dalla depressione alla gioia s’intreccia al memorie della compagnia, che in questo viaggio sembra specchiarsi.

Piuttosto difficile, per un neofita come me,  scrivere di un viaggio cui non ho saputo partecipare. Lo scrivo con grande dispiacere, scegliendo le parole con cura, perché l’invito di Pippo Delbono e della sua compagnia era autentico e sincero.

Andiamo con ordine.

La Gioia nasce nel 2018: Bobò era il fulcro dello spettacolo.

Chi era Bobò?

Il suo nome era Vincenzo Cannavacciuolo, detto Bobò. Nato sordomuto e microcefalo, metà della sua vita l’aveva passata in manicomio, ad Anversa. Nel ’95 Pippo Delbono, da sempre vicino a un teatro sociale, – il suo lavoro fa parte di quella linea di teatro sperimentale, fiorita in Italia durante gli anni ’80 (penso al Teatro della Valdoca o Dario Manfredini), che sintetizza le pratiche del Living Theatre con poetica di Eugenio Barba – lo incontra e lo porta con sé. Da allora, Bobò è stato il protagonista di tutti i suoi spettacoli.

A Febbraio, a 82 anni, Bobò muore. È questa assenza forte, presente, a dare nuovo senso e nuova forma allo spettacolo. È lo stesso Delbono, a dire all’inizio:

“Dopo Bobò rinasce lo spettacolo che è come prima e che è tutto diverso.”

Si comincia. Un clown giardiniere innaffia dei fiori finti che sono sempre di più. Il linguaggio dunque è quello dei clown, circense, l’atmosfera è onirica e come nei sogni è sconnessa: a contrappuntarla è lo stesso Delbono, ora in scena, ora dalla platea, leggendo. Un ulteriore contrappunto è dato dal fatto che, oltre ai pezzi dal vivo alcuni di Delbono pezzi sono registrati. A far andare avanti lo spettacolo sono i ricordi.

La prima storia è quella di Nelson, il barbone che innaffia i fiori. Quando l’ho conosciuto, Nelson, dice Delbono, prendeva un sacco di medicine e io non ne prendevo nessuna, ora Nelson è guarito e io prendo un sacco di medicine.

Sembra questa la chiave di lettura dello spettacolo: l’assenza di Bobò, coincide con la perdita della felicità e, pare d’intuire, anche creativa.

I binari in cui si muove questa infelicità e pazzia sono molteplici: si avverte la presenza di La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, poi le citazioni esplicite: Pirandello, Shakespeare Beckett, Totò ed Erri de Luca.

Lo spettacolo va avanti per flash: momenti narrativi intervallati a momenti onirici e deliranti di grande impatto scenico: una donna si toglie delle rose dal petto e li lancia, il tutto in un’atmosfera disco, con luce stroboscopica e musica classica. Un ragazzo disabile canta in playback Maledetta Primavera vestito da donna; un boscaiolo folle in cura dallo sciamano che diventa sciamano; un momento in cui si evocano i morti in mare, con una scena che omaggia la Venere degli stracci.

In tutto lo spettacolo si avverte la forte presenza di Bobò: prima attraverso la rievocazione di Pippo Delbono che ne rifà i gesti, poi attraverso la sua stessa voce registrata.

Il finale, di grande impatto visivo, con la scena piena di fiori, a cura del fiorista normanno Thierry Boutemy. I performer circensi, che hanno costellato lo spettacolo, girano in circolo, in un finale che sembra guardare a Fellini.

Si tratta di un lavoro sincero, che parte da un dolore autentico, che però arriva a una gioia soltanto detta e non sperimentata.

Nonostante il vuoto la tristezza sia autentica, non ne sono stato toccato non sono rimasto coinvolto e non sono riuscito a superare il cinismo che contraddistingue la nostra epoca. Credo che lo spettacolo non sia supportato da una drammaturgia sufficientemente adeguata a permettere al dolore e alla depressione di risuonare. Mi viene in mente un vecchio romanzo di Tobias Wolff, in cui, a un certo punto, Robert Frost parla dell’importanza della forma, facendo riferimento al dolore di Achille per la morte di Patroclo: il lamento di Achille attraversa i secoli e mantiene la sua intensità perché è espresso in esametri dattilici. Senza la forma sarebbe stato un, pur sincero, grido mozzo. Penso sia questo uno dei limiti di La gioia.

C’è un’altra ragione che ha ostacolato la mia calorosa partecipazione. Lo spettacolo era una festa commemorativa pensata per chi segue e ama la compagnia da tempo:  per esempio, non sono riuscito ad apprezzare i suoni della voce di Bobò, non avendo avuto la fortuna di conoscerlo.

Dunque pur nei suoi limiti, mi sento di consigliarne la visione a chi ha amato Bobò e vuole partecipare a questa festa in suo onore. Ricordiamo: lo spettacolo andrà in scena al Piccolo Teatro di Milano, dal 4 al 9 Giugno.

Giuseppe Rabita

FDCT23 – AIACE

In conclusione al Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 22 giugno alle Lavanderie a Vapore di Collegno Aiace, testo classico di Sofocle rivisitato da Linda Dalisi e interpretato dall’attore ivoriano Abraham Kouadio Narcisse (Aiace), da Michelangelo Dalisi (Odisseo) e dall’attrice francese Estelle Franco (Dea Atena e Tecmessa).

Dopo la morte di Achille, al nono anno della guerra di Troia, le sue armi vengono ereditate da Odisseo. Aiace, il guerriero più forte tra gli Achei, secondo, un tempo, solo al Pelìde, in seguito a questa decisione, perde il senno. Preso dall’ira e ispirato da Atena, la protettrice di Odisseo, uccide tutto il bestiame greco, convinto che siano i suoi compagni, ma l’indomani, resosi conto dell’errore e della follia decide di salvare il proprio onore, davanti agli dei e ai Greci, suicidandosi. 

Prima del compiersi del gesto estremo si susseguono una serie di riflessioni sulla condizione umana: dalla follia alla soggiogazione dagli dei; dall’onore al rispetto delle tradizioni; dal ricordo dell’infanzia al rispetto dei padri. 

Il supporto visivo tramite tre proiettori che, letteralmente, proiettano su teli illusioni, sogni, speranze, paure, sangue nel mare ecc…, è particolarmente efficace poiché dà spazio all’interiorità e ai sentimenti dei protagonisti e trova il culmine nel finale, con l’ultima proiezione: Aiace, suicida, si trasforma in centauro.

Aiace prima di tutto, racconta una storia di estraneità, che è culturale, ideologica, temporale, personale. Questo elemento esiste su due differenti piani. Uno è radicato nel testo sofocleo stesso e viene arricchito in seconda istanza dalla presenza in scena di tre attori, provenienti da Costa d’Avorio, Francia e Italia, che parlano lingue diverse. Quello che potrebbe essere un punto di contatto, la lingua, sembra essere, invece, una barriera insormontabile: Aiace, ormai impazzito, non riesce nemmeno più a spiegarsi. Non riesce a esprimere i motivi per cui dovrebbe meritare le armi e Odisseo, dall’alto della sua condizione di forza e della sua arroganza, si rivolge direttamente al pubblico per sottolineare questa mancanza linguistica (Aiace/Abraham sta parlando nella sua lingua madre). Un’estraneità che si risolve in incomunicabilità, ma anche in estraneità da se stessi. La dea Atena infatti annebbia la mente di Aiace che non si riconosce più e tutte le certezze che aveva acquisito in vita scompaiono all’improvviso, lasciando spazio solo al dubbio, al rimorso, al disonore e alla consapevolezza di non poter cambiare in alcun modo il proprio triste destino.

Odisseo sembra solamente uno scaltro arrivista, ma quando entra in contatto con la sua dea protettrice compatisce la sorte del povero Aiace: «Nonostante mi sia nemico, ho pietà per quell’infelice, per la tremenda sciagura cui si trova aggiogato: nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia». Ritiene infatti che la debolezza e l’errore siano condizioni che possono diventare di chiunque.

Il ruolo dei proiettori diventa particolarmente rilevante in unione alla musica e alla danza, poiché serve a sottolineare come le paure e i sogni delle persone, pur lontane per cultura o stato sociale, possano essere gli stessi. Aiace si sente inadeguato, deriso e disorientato in un mondo che non riconosce più, privo di tradizione ed onore, e sogna solo di poter tornare bambino e di potersi tuffare nel mare a gareggiare ancora con Achille. L’energia/L’empatia che viene trasmessa dall’esibizione deve far scattare l’allarme, accendere una lampadina: tutti possiamo essere Tecmessa, Atena, Odisseo e Aiace; tutti si possono trovare nelle stesse loro situazioni, ed è bene ricordarsi di non giudicare troppo in fretta, di andare oltre ai pregiudizi e a puntare subito il dito, che sia un amico, il tuo vicino di casa, uno straniero.

Il Festival delle Colline Torinesi arriva qui, con Aiace, alla conclusione della 23esima edizione riaffermando l’importanza delle arti e del teatro. Parafrasando una frase attribuita a Francis Scott Fitzgerald: «Questa è la parte più bella di tutto il teatro [orig. di tutta la letteratura]: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni».

di Linda Dalisi e Matteo Luoni

regia Linda Dalisi

con Abraham Kouadio Narcisse, Michelangelo Dalisi, Estelle Franco

scene Giuseppe Stellato

costumi Graziella Pepe

suono e musiche Marco Messina

luci Simone De Angelis

movimenti Francesco Manetti

assistente alle scene Domenico Riso 

aiuto regia Francesca Giolivo

production Brunella Giolivo

management Michele Mele

produzione stabilemobile

in collaborazione con l’Asilo – exasilofilangieri.it

FDCT23 – MACBETTU La zona d’ombra – Dove gli uomini si fanno lupi

Per la ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 17 e 18 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri, Macbettu, versione in limba sarda con sovratitoli in italiano del capolavoro di Shakespeare, diretto da Alessandro Serra e interpretato dalla compagnia Teatropersona.

Lo spettacolo è stato il vincitore del prestigiosissimo premio UBU 2017 e del Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro).

 

Macbettu non si discosta per trama e contenuti dal testo originale, bensì lo amplia con i carnevali sardi: le maschere che rappresentano la foresta che avanza, nel finale, sono simili alle maschere dei Mamuthones e degli Issohadores del Carnevale di Mamoiada. La Sardegna è un luogo sacro e arcaico, dove gli antichi culti pagani sopravvivono ancora oggi in una maniera più vera e sentita rispetto ad altre località ed è lo scenario ideale per rappresentare una tragedia che fa della solennità e della ritualità dei movimenti e di una lingua dal sapore antico e impenetrabile il proprio codice di lettura.

 

La mancanza quasi totale di scenografia e l’assenza di attrici è un omaggio al teatro elisabettiano di Shakespeare. Ciò però non rende meno efficaci le ottime prove degli attori, sia a livello dei singoli – come per quanto riguarda Lady Macbettu, interpretata da un dionisiaco e barbuto Fulvio Accogli – sia a livello corale.

Non è la prima volta che il Macbeth viene rivisitato e ambientato in un’altra cultura. Ne è un esempio il film del 1957 di Akira Kurosawa Il trono di sangue che compie un adattamento in territorio nipponico.

Sono state molteplici negli anni le versioni cinematografiche del capolavoro shakespeariano, ma la versione di Roman Polanski – proiettata al cinema Massimo in preparazione allo spettacolo sardo – è di particolare rilievo perché approfondisce il lato dionisiaco (e demoniaco) delle streghe e di Lady Macbeth. In questo senso compie un’operazione simile anche Alessandro Serra, che caratterizza le Sorelle e soprattutto Lady Macbettu, tutte interpretate da uomini, facendo loro perdere  sembianze umane e femminee in favore di un’aura diabolica. Fulvio Accogli è ottimo nel rappresentare la sensualità del personaggio, specie nella scena del suicidio durante la quale è completamente nudo (o nuda) sul palco, esprimendo una inquietante e peculiare femminilità.

In questo senso Macbettu incontra il Festival delle Colline Torinesi: il viaggio dell’identità tramite la rievocazione elisabettiana e l’annullamento di genere, e la Sardegna come luogo lontano, nel tempo e nello spazio, e straniero dove inscenare temi universali che accomunano tutti gli esseri umani, in una ricerca radicale dell’uomo, sino alla zona d’ombra, la più oscura e bestiale.

 

La zona d’ombra, ovvero il luogo in cui si svolge la vicenda. Un’ombra visibile – lo spettacolo si apre e si chiude entro lunghi momenti di oscurità lacerata dalle streghe, all’inizio, e da suoni metallici che rappresentano il cuore morente di Macbettu, al termine – ma soprattutto un’ombra dell’anima.

Quella che le Sorelle Fatali pronunciano a Macbettu e Banquo potrebbe anche non essere una vera e propria profezia, quanto un dubbio, un’insinuazione proposta e in seguito raccolta dal Conte di Cawdor, che poi si avvererà. Un’ombra che si impossessa anche della consorte che sostiene e inneggia a ogni assassinio (accumulato simbolicamente pietra su pietra come un piccolo nuraghe)  utile per la scalata verso il potere. La zona d’ombra che è il regno del soprannaturale, della vita dopo la morte che si interseca con quella dei vivi con l’apparizione del fantasma di Banquo; ma anche la bestialità dell’essere umano che trova il proprio culmine nella scena, che richiama la maga Circe e i film Porcile (1969) e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini, in cui i due coniugi danno da mangiare alle guardie del corpo di Re Duncan che lottano tra di loro come maiali e cinghiali, mettendo a dura prova gli spettatori.

Una bestialità che si incarna nell’essere umano e lo porta, giù nella zona d’ombra, a compiere le nefandezze più gravi, che possono essere ben spiegate dalle parole di Cesare Pavese: «Non conosci la strada del sangue. Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d’un tocco leggero, t’inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire farsi lupo […]».

Dialogo tra due cacciatori tratto dal racconto L’uomo lupo da Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese

Riccardo Ezzu

Macbettu 

regia Alessandro Serra

tratto da Macbeth di William Shakespeare

con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino

traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni

collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini

musiche, pietre sonore Pinuccio Sciola

composizioni pietre sonore Marcellino Garau

scene, luci, costumi Alessandro Serra

produzione Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona

con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna

Premio Miglior Spettacolo UBU 2017,  Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro)

FDTC-23 DICKINSON’S WALK

“Muovo passi meccanici su una strada senza fili” questo è il leitmotiv che accompagna la passeggiata di chi assiste a The Dickinson’ s walk. Un leitmotiv scelto sia per dare un po’ di respiro alla poesia ma anche perché è la perfetta descrizione della performance. Sulla carta lo spettacolo appare semplice, non serve altro che un’ attrice, un paio di auricolari e una leggera propensione alla passeggiata. Ma queste cose per fortuna non restano su carta e la semplice promenade alla quale lo spettatore attivo si presta perde subito la sua fisicità per diventare una passeggiata interiore. Sono certa che a qualcuno sia capitato di perdersi per le strade della sua città e dei suoi pensieri lasciandosi guidare dalla musica nelle orecchie, ma in questo caso non è la musica a muovere i nostri passi bensì la poesia. L’ accesso al nostro io interiore viene aperto dalla voce di Roberta Bosetti che ti entra letteralmente in testa con il semplice escamotage di un paio di cuffiette. La seguiamo sulle strade di una città che pensavamo di conoscere ma che forse, per fretta, disattenzione o solo per abitudine, non abbiamo mai visto davvero. Rassicurante come la voce della mamma, ci guida nel paradosso del fuori attraverso le poesie di Emily Dickinson che descrivono un mondo intero al quale lei, rinchiusa nella sua stanza, ha avuto accesso solo con l’immaginazione.
È una solitudine condivisa che parte dal soggettivo per arrivare all’universale, ogni spettatore vive la scenografia della città cucendoĺa sulle proprie misure, cogliendo sulla propria pelle gli appuntamenti musicali accidentali, il suono di un clacson o la risata in un bar, condividendo la sua singola esperienza con altre venti persone che, stimolate dalle poesie, creano il loro spettacolo generandone un altro per chi lo incontra inconsapevolmente anche solo passando per strada. Continuando a camminare attraverso un paesaggio che ha perso il nome proprio per assumere a pieno titolo il nome comune e condiviso di Città, la compagnia Cuocolo/Bosetti apre le porte di casa e ci permette di entrare in una stanza che potrebbe essere di ognuno di noi, anche della Dickinson, perché è l’esplicitazione fisica di quel salottino privato che risiede in ognuno, che ha la sicurezza e l’accoglienza di una casa che però non ha pareti, ha solo una finestra dalla quale immaginare il mondo.

Empire

Empire di Milo Rau, l’ultimo capitolo della trilogia sull’Europa dopo The Civil Wars e The Dark Ages, è uno dei titoli di maggior rilievo della 23° edizione del Festival delle Colline Torinesi. Il regista svizzero, fondatore dell’International Institute of Political Murder, ha dichiarato in un’intervista a Le Temps, nel 2016, di considerarsi un reporter engagé. Forse anche in virtù della nozione di “campo” appresa da Pierre Bourdieu e della necessità di immergersi in una realtà per comprenderla.

Non ci viene consegnata la “scoperta” di nessuna verità. I poli magnetici attraverso cui si avvolge lo spettacolo sono la parola Empire e la parola Tragoedia: l’Europa è il continente in cui sempre nuove e sottili forme di imperialismo si intrecciano ad un passato antichissimo radicato in miti feroci. Solo pochi giorni fa la vicenda della nave Aquarius ci ha posto, per l’ennesima volta, di fronte a questi temi. Con Milo Rau lo spettatore è lasciato a trarre i propri giudizi, a prendere posizioni proprie nelle riflessioni riguardanti una situazione geopolitica estremamente complessa. In scena i quattro attori sono anche quattro esseri umani che hanno vissuto in prima persona l’esperienza dell’esilio, della migrazione, della fuga e della ricerca di un “rifugio”.

Ramo Ali, Rami Khalaf, Akillas Karazissis e Maia Morgenstern sono i testimoni dei racconti evocati in una cucina-casa, rivelata all’inizio dello spettacolo dietro la facciata di un edificio diroccato. La scenografia di Anton Lukas concretizza e addensa i significati delle parole dei personaggi, parole dette in curdo, arabo, romeno e greco, le lingue originali, le lingue madri di questi racconti che necessitano non solo dei significati ma anche dei significanti che passano attraverso i suoni. Come quando Maia Morgestern-Medea e Akillas Karazissis-Giasone dialogano, rispettivamente in romeno e greco. Questo dialogo può avvenire, come avviene, perché qui è permesso, che Ramo Ali parli curdo sul palcoscenico. Il discreto tema musicale di Eleni Karaindrou accompagna le narrazioni composte e asciutte degli attori: non si tratta di un teatro che cerca l’immedesimazione del pubblico nei personaggi. L’immedesimazione è impossibile e se non lo fosse impedirebbe, per dirla con Brecht, di sviluppare una riflessione a riguardo.

La presenza viva degli attori in scena e i volti in primo piano sullo schermo in bianco e nero che li sovrasta abitano lo spazio scenico armonizzandosi tra loro. Gli indispensabili sovratitoli si trovano a metà del nostro campo visivo. Sul lato destro del palco il tecnico Aymrik Pech cura dal vivo il dialogo tra i diversi media. Lo schermo trasmette le foto di alcuni dei dodicimila uomini assassinati dal regime di Bashar El Assad e le immagini di un attentato a Qāmishlī, ma lo sguardo non rimane incatenato all’orrore, come con i telegiornali, nelle cene in famiglia, quando non si riesce a pensare. Lo sguardo rimane mobile e attento e può innescare movimenti interiori. In questo, forse, risiede la funzione trasformativa dell’arte, in cui il regista bernese crede e che evoca anche nell’intreccio di ricordi familiari e professionali, come la collaborazione della Morgestern con Theo Angelopoulos e Mel Gibson.

La drammaturgia, allora, è una tessitura di realtà e finzione capace di restituirci una qualche verità. E poi? E poi inizia la tragedia.