Domenica 16 ottobre 2022 la compagnia Anagoor ha portato in scena, al Teatro Astra di Torino, all’interno della programmazione del ventisettesimo Festival delle Colline Torinesi, Ecloga XI.
Il lavoro è un’ omaggio alla parola, alla poesia. Un’allusione diretta, senza mezzi termini, ad Andrea Zanzotto e alla sua opera IX Ecloghe pubblicata nel 1962, presso Arnoldo Mondadori Editore all’interno della Collana “Il Tornasole”. Non a caso, il titolo principale è seguito dal sottotitolo “un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto”, richiamo alla definizione che il poeta diede delle sue composizioni “un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Virgilio”
Il Festival delle Colline Torinesi, alla sua ventisettesima edizione, prova a fare i conti con la Storia, con lo spettacolo dell’affiatata compagnia fiorentina Sotterraneo, che consegna al pubblico una creazione originale a partire da una suggestione di Walter Benjamin: un angelo che vola con lo sguardo rivolto al passato, dando le spalle verso il futuro. Un angelo che vorrebbe fermarsi per riparare i disastri provocati dall’uomo, che invece è costretto a continuare la sua corsa spinto da una tempesta chiamata progresso.
La sala dell’Off Topic, piccola ma accogliente, ha al suo interno un’atmosfera fumosa. Sulle poltrone sono poggiate delle palette verdi e il pubblico si chiede a cosa mai potranno servire durante lo spettacolo. Si parla tra sconosciuti, ci si confronta.
Si spengono le luci in sala e al centro della scena appare un unico attore (il premio Ubu Giovanni Anzaldo) che ci viene presentato come Orlando da una semplice scritta alle sue spalle. E come l’Orlando di Virginia Woolf attraverserà le epoche, i costrutti sociali, la morale e la “decenza”, accompagnando con il suo monologo anche lo spettatore.
Nella sua prima apparizione il protagonista indossa una gorgiera, ad indicare che il suo personale racconto ha inizio nell’epoca elisabettiana. La sua riflessione su quel periodo è molto interessante: durante l’epoca elisabettiana, infatti, alle donne era proibito calcare le scene. Quindi i ruoli femminili venivano sempre interpretati da uomini, spesso fanciulli molto giovani, che dovevano sembrare più femminili possibili. Come trucco di scena si utilizzava una polvere a base di piombo per rendere il viso pallido e attraente per i canoni estetici dell’epoca. Un artificio tossico che veniva utilizzato dalla stessa Elisabetta I. Se anche lei lo utilizzava per apparire più attraente e femminile c’era davvero differenza tra la regina e gli attori?
Qui nasce la prima provocazione dello spettacolo: cosa è femminile e cosa no? Come cambiano i canoni di bellezza con il passare delle epoche? E soprattutto, che cosa è socialmente accettabile e cosa no? Del resto, come dice una famosa Drag Queen “Siamo nati nudi. Il resto è Drag.”
La sinergia “Teatro & Arte” apre la 27° edizione del Festival delle Colline Torinesi l’11 ottobre al Teatro Astra di Torino. L’immensa tela che appare distesa sul palcoscenico, a un primo sguardo di carattere avanguardistico, sarà infatti la vera protagonista dello spettacolo spagnolo, insieme all’azione ipnotica e dominante dello schermo dei sottotitoli. È grazie a quest’ultimo elemento in particolare che lo spettatore rifletterà su una quantità smisurata di temi, tra cui i binomi sogno/realtà, finto/autentico, artificio/natura, presente/passato, vita/morte.
Giovedì 30 giugno, nel suggestivo contesto della Fondazione Mertz, tra grandi spazi vuoti ed opere d’arte, il Festival delle colline torinesi ha presentato il programma della sua 27esima edizione, che si svolgerà dall’11 ottobre al 6 novembre 2022. Dalla scorsa edizione infatti, il festival è diventato un vero e proprio festival d’autunno, come ha rimarcato anche il direttore artistico Sergio Ariotti, durante la conferenza di presentazione
“- Ho quasi avuto la tentazione di dirglielo, ma non mi avrebbero creduto. – No, non si può comunicare a nessuno questa gioia piena dell’eccitazione vitale di sfidare il tempo in due, d’essere compagni nel dilatarlo, vivendolo il più intensamente possibile prima che scatti l’ora dell’ultima avventura”
Nata a Catania nel 1924 da una famiglia particolare, il padre era un famoso avvocato socialista siciliano, Peppino Sapienza, vedovo con 3 figli e la madre lombarda, Maria Giudice, anch’essa vedova con 7 figli, fu sindacalista e prima donna a dirigere la Camera del lavoro di Torino, dirigendo anche Il grido del popolo.
Queste figure così ingombranti determinarono moltissimo la vita di Goliarda, soprattutto quella della madre. Scrive Angelo Pellegrino, attore, scrittore e marito di Goliarda:
“La nobile figura di rivoluzionaria della madre la caricò però di doveri morali e ideali che aggravarono buona parte della sua vita, anche per l’amore e l’ammirazione incondizionati che Goliarda le portò sempre, nonostante il poco affetto ricevuto, che mai Goliarda le rimproverò. La sapeva donna dedita a una causa ideale che non consentiva un amore borghese verso i propri figli. […] Tutto ciò le causò una sorta di buco nero affettivo che si portò dietro per buona parte della sua vita e contro il quale cerco di combattere con tutte le sue forze fino a quando non pervenne al più grande tentativo di suicidio, quello del 1964, perchè il primo fu puramente dimostrativo, come fa dire all’analista de Il filo di mezzogiorno”.
Fu quel tentativo di suicidio che la portò ad essere ricoverata in una clinica psichiatra, destino che anni prima era toccato anche alla madre; durante quel soggiorno in clinica fu sottoposta a numerosi elettroshock. Sarà il suo compagno Citto Maselli che la porterà via a forza dalla clinica. Ma rientrata a casa Goliarda non è più la stessa, non riconosce più nulla, non ricorda più nulla di sé né di ciò che la circonda, così Citto decide di farla seguire da uno psicoterapeuta. Il filo di mezzogiorno è un romanzo autobiografico che narra la relazione che Goliarda intrecciò con il suo analista in quelle 40 sedute che tutti i giorni venivano effettuate nel salotto della sua casa di Roma a mezzogiorno.
E veniamo allo spettacolo teatrale. Come dice la stessa Ippolita di Majo che trae dal romanzo l’adattamento per lo spettacolo e affianca come assistente alla regia Mario Martone:
“Nel filo di mezzogiorno quasi tutto accade nel presente continuo del mondo interno di Goliarda, secondo un modo di raccontare e un uso della dimensione temporale che assomiglia a quella del cinema. Il luogo dell’azione è il tempo dell’analisi, un tempo fatto di mondo interno, di vivi e di morti, di fantasmi, di desideri, di emozioni segrete e alle volte indicibili. […] Sul piano della scrittura questo si traduce nella compresenza di diversi registri temporali: c’è la presente dell’analisi e quello della regressione, ma c’è anche il tempo del racconto dell’analisi al lettore, il presente della scrittura del romanzo. Nell’adattare il testo alla scena, ho immaginato che l’azione si potesse svolgere in due zone del palcoscenico che sono due ‘zone’ del mondo interno di Goliarda.”
Una è lo spazio inconscio e onirico e l’altra è il mondo esterno. Così Martone raccoglie questo input e ci restituisce sul palcoscenico due “zone” che non sono altro che il raddoppiamento speculare dello stesso luogo in rappresentanza di quel presente continuo di cui parla Ippolita di Majo. Se in quegli anni la psicanalista Luciana Niassim Momigliano definì l’analisi come “due persone che parlano in una stanza”, Martone raddoppia il concetto restituendoci 2 persone che parlano in 2 stanze. Il risultato in un primo momento è spiazzante, poi disturbante e in fine molto cerebrale e farraginoso, a tratti persino fin troppo didascalico con il suono della “rottura” del vetro/specchio che separa l’asse su cui ruota l’immagine speculare e permette ai personaggi di sconfinare liberamente in quei due mondi interiori che professionalmente e terapeuticamente avrebbero dovuto restare separati. Così anche l’analisi di sdoppia e i ruoli di paziente e medico si invertono, a tratti confondono, fino al compimento di un vero e proprio transfert e contro transfer che anziché portare a una liberazione del paziente dall’analista porta a un’insana dipendenza dell’analista verso il suo paziente.
La messa in scena perciò ha due grandi centralità. Da una parte un testo che cerca di rimanere fedele al racconto di Goliarda, ma che risulta molto lungo e faticoso, difficile da seguire nonostante l’intensa e credibile interpretazione di una splendida Donatella Finocchiaro e un altrettanto bravo Roberto De Francesco. Dall’altra parte queste due stanze gemelle, che come godessero di vita propria si muovono, avanzano, indietreggiano, si innalzano e si abbassano. Cambi di luce repentini con altrettanti rapidi cambi di abiti per sottolineare un tempo che cambia.
Ma proprio in questo cambio ci saremmo aspettati un osare maggiore, un rompere maggiormente quella linearità temporale che in realtà rimane. Perché se è vero che durante l’analisi i ricordi di Goliarda riaffiorano in maniera disordinata rispetto alla cronologia della sua vita, le sedute con il suo psicoterapeuta rimangono su un asse temporale lineare in cui vediamo chiaramente nel personaggio dello psicoterapeuta il suo arco di trasformazione cronologico che si risolve in un crescendo prima di interesse professionale e poi sempre più privato e personale verso Goliarda. La linea temporale lineare la vediamo anche in Goliarda se non in quello che racconta nei suoi dress-code. Dapprima in camicia da notte rannicchiata su di sé come un debole animaletto ferito e man mano sempre con maggiore cura e attenzione ai suoi abiti che di volta in volta, andando avanti nel processo di guarigione, verranno impreziositi da accessori a sottolineare un ritrovato tentativo di prendersi cura di sé.
Ma se la matassa da dipanare è Goliarda e le due stanze sono due zone della sua psiche, una in relazione con se stessa e l’altra in relazione con l’esterno, ci si sarebbe aspettato un maggiore spiazzamento, forse si sarebbe potuto sfruttare meglio questo “doppio” in maniera maggiormente onirica.
Sono andata a vedere lo spettacolo perché amo Goliarda Sapienza. Perché se decidi di fare uno spettacolo su di lei è perché hai avuto nella vita la fortuna di “incrociare” la sua esistenza anche solo con una frase e ne sei rimasto folgorato. Perché è questo l’effetto che fa Goliarda, lei è perturbante, sconvolgente, ti scuote dentro fin nelle viscere e ti tocca così nel profondo che la tua vita non può più essere la stessa dopo. Ma il suo capolavoro più grande resta la sua vita, fatta di grandi contraddizioni, grandi vette e terribili cadute, grandi ricchezze e feroci povertà, libertà e prigionia, misticismo e scetticismo, vitalità e oblio, ma sempre, sempre, mossa dalla passione, una passione carnale, incapace com’era di abbandonarsi totalmente all’amore a cui non era stata abituata.
Quello che mi aspettavo di trovare quindi era uno spettacolo d’amore, uno spettacolo nato dall’amore per Goliarda che potesse suscitare nello spettatore un altrettanto reverenziale sentimento. Ma qualcosa è andato storto.
Ce lo dimostra un programma di sala che troviamo all’ingresso del teatro, 16 pagine che spiegano il progetto dello spettacolo, come se lo spettacolo da solo non fosse “sufficiente”, come se ci fosse un’inconscia consapevolezza che il “processo” che ha portato a quel risultato possa essere più interessante del prodotto finito. La promessa d’amore per Goliarda, che sicuramente traspare dalle parole di Ippolita di Majo, viene però tradita in scena.
Perché in definitiva questo è uno spettacolo sull’amore, ma è come se quelle due stanze apparentemente identiche ci raccontassero di due “amori” distinti e separati che rimangono tali anche quando sentiamo l’infrangersi di quel vetro immaginario che le separava. Da una parte abbiamo l’amore di Ippolita di Majo per Goliarda e dall’altra quella di Martone per la psicoanalisi, o meglio per la relazione psicoanalitica. Lui stesso racconta nelle note di regia un episodio personale riguardante una seduta dal suo analista e scrive che è stato forse quel ricordo che gli ha fatto scaturire l’idea di sdoppiare la stanza di Goliarda: “…non lo so, se sia stato questo episodio. Quello che so e che ho amato molto il mio analista [..] e che alla sua memoria dedico oggi questo spettacolo”.
Quindi due “amori” che vorrebbero incontrarsi e che coesistono ne Il filo di mezzogiorno forse in questo sdoppiamento restano separati, laddove il romanzo invece li amalgama in maniera struggente e poetica.
“E poi c’è una cosa che mi rassicura, una cosa che ho sperimentato molte volte nella vita: so che quelli di voi che si sono annoiati di seguire questo mio sproloquio avranno già distolto lo sguardo. Si resta sempre in pochi.”
(Lettera Aperta – Goliarda Sapienza)
Nina Margeri
di Goliarda Sapienza
adattamento Ippolita di Majo
regia Mario Martone
con Donatella Finocchiaro, Roberto De Francesco
scene Carmine Guarino
costumi Ortensia De Francesco
luci Cesare Accetta
aiuto regia Ippolita di Majo
assistente alla regia Sharon Amato
assistente scene Mauro Rea
assistente costumi e sarta Federica Del Gaudio
direttore di scena Teresa Cibelli
capo macchinista Enzo Palmieri
macchinista e attrezzista Domenico Riso
datore luci Francesco Adinolfi
fonico Paolo Vitale
elettricista Angelo Grieco
amministratrice di compagnia Chiara Cucca
foto di scena Mario Spada
Il filo di mezzogiorno è pubblicato da La nave di Teseo
“Saper dosare la banalità e il paradosso: è tutta qui l’arte del frammento.” (Emil Cioran)
scampolo [scàm-po-lo] s.m.
1 Parte residua di una pezza di tessuto, generalmente venduta sottocosto: uno s. di stoffa, di tela, di seta, di velluto.
2 estens., fig. Avanzo, residuo, rimasuglio, piccola quantità di qualcosa: ho parecchi scampoli di carta da parati inutilizzabili; negli scampoli di tempo riordino i miei appunti || scherz., spreg. Uno scampolo d’uomo, di donna, alludendo alla corporatura mingherlina SIN. ritaglio ‖ dim. scampolétto; scampolìno; scampolùccio
Quando ho “incontrato” Massimiliano Civica per la prima volta, durante il seminario tenuto il 23 marzo all’interno del progetto Lavorare con gli attori organizzato dai professori Maria Paola Pierini e Armando Petrini, mi è venuto in mente un libro che tengo sdraiato in orizzontale nella mia libreria, sopra un’ordinata fila di altri libri tenuti in posizione verticale. Quella posizione inusuale, non perché la mia libreria sia perfettamente ordinata, tutt’altro, ma perché nella mia mente, che ha un suo modo unico e particolare di archiviare e catalogare le cose, quel libro in quella precaria posizione orizzontale, in bilico tra libri che hanno altezze differenti, che sporge più di altri, mi ricorda che dovrà essere il prossimo ad essere letto, almeno così vorrebbe la mia parte razionale.
Ma di recente ho calcolato che nella mia vita (fino a questo momento) ho fatto 12 traslochi in 8 città differenti e che questo libro mi accompagna da almeno 6 traslochi. E vi assicuro che in questo lasso di tempo ne ho letti di libri, anche se sempre con un senso di oppressione che ora mi appare più chiara. Perché sullo scaffale di una qualche improvvisata libreria, di (a volte) altrettante improvvisate abitazioni, di una città più o meno sperduta del mondo, lui era sempre lì, in bilico, con il suo sporgente, egocentrico, esibizionismo che mi ricordava che “doveva essere lui” il prossimo ad essere letto.
Vi chiederete cosa c’entri tutto questo con Massimiliano Civica.
Lo spettacolo che sono andata a vedere dopo aver ascoltato il seminario a Palazzo Nuovo e aver partecipato al laboratorio teatrale per attori tenuto dallo stesso Civica, è stato proprio Scampoli: uno spettacolo conferenza che racconta di teatro e quindi di vita. Civica con la sua “lezione/spettacolo” si cuce, attraverso “scampoli” di racconti/ricordi, una veste che gli calza a pennello. Restituendoci, attraverso lampi di ritratti di altri uomini di teatro, il suo personale ritratto di “uomo” di teatro, offrendoci una magistrale testimonianza di cosa sia il Teatro. Durante lo spettacolo veniamo perciò presi da episodi più o meno inediti di grandi personalità che se non hanno necessariamente tracciato una rotta nella vita di Civica, hanno almeno lasciato un segno, tanto da renderlo quello che oggi è. Compresa un’inaspettata prof. di Italiano del liceo in combutta con un sempiterno Dante Alighieri. Nella scelta del titolo c’è l’essenza dello spettacolo, come una cosa di poco conto possa in realtà essere così preziosa da determinare un’intera esistenza.
Ci sono vari modi per “incontrare” dei maestri nella vita, uno di questi può essere un libro. Accostare Civica che, nonostante il breve tempo in cui ci siamo “incontrati”, ha lasciato un segno in me, con l’autore di un libro che, nonostante non l’abbia “ancora” letto, ha lasciato così tanto in me da diventare un modello per interpretare la “realtà”, mi sembrava “poetico” nel vero senso della parola. Come un libro che non ho letto possa avermi suggerito in qualche modo una strada, sarebbe troppo lungo da spiegare, ma forse si capirà meglio quando dirò che il libro in questione è La tentazione di esistere di Emil Cioran.
Nella copertina del libro si legge qualcosa che ho immediatamente rivisto in Civica:
“Maestro attuale di quell’arte del «pensare contro se stessi» che si era già dispiegata in Nietzsche, Baudelaire e Dostoevskij, questo scrittore rumeno […] appartiene per vocazione alla schiera dei condannati alla lucidità. Che la lucidità sia una condanna, oltre che un dono, nessuno sa mostrarcelo, con altrettanta precisione, con altrettanta inventiva, quasi da camuffato romanziere. E si tratta di una lucidità macerata dal tempo, dall’eredità di tutta la nostra cultura. Se «c’è un “odore” del tempo», e così anche «della storia», Cioran è, fra gli animali metafisici, il più addestrato nel riconoscerlo, nell’inseguirlo…”.
Solo per capire cos’altro di Cioran ho rivisto in Civica basta aprire l’indice e rivedere nei titoli di alcuni paragrafi del libro il cristallizzarsi di alcuni concetti espressi da Civica:
Su una civiltà esausta – Lettere su alcune impasses – Frequentando i mistici – Rabbie e rassegnazioni.
Durante il laboratorio teatrale tenuto da Civica, siamo stati invitati a piccoli gruppi a oltrepassare una linea immaginaria, che da quel momento avremo convenzionalmente ritenuto come la soglia che divideva lo spazio tra platea e palco. In altre parole siamo stati invitati a dividerci tra guardanti e guardati, tra spettatori e attori, senza accorgerci in realtà di lui che, rimanendo sulla soglia, da buon maieuta, osservava entrambi i gruppi facendoci diventare tutti “attori”, più o meno consapevoli.
Alla richiesta di far ridere il compagno in scena, tutti, anche i più “allenati” all’arte scenica, sono andati in crisi e non è stata roba da poco riuscire a risolvere l’impasse. Ci sono volute oltre 3 ore passate insieme e l’indicazione di rompere quella quarta parete, quel tabù dell’essere guardato, per riuscire a tirare fuori in maniera “sincera” il lato comico che è umanamente in ogni essere umano. Mettendoci a nostro agio Civica ci ha chiesto di raccontare un episodio comico della nostra vita che di solito raccontiamo agli amici al bar. Il risultato è stato esilarante e gli esiti più riusciti sono emersi proprio da quelle persone che non ti saresti mai aspettato.
Perché come dice Cioran: “Agire è una cosa; sapere di agire è un’altra”.
Il Teatro come insegna Civica è nella vita di tutti i giorni, in quella naturale e sincera vocazione dell’uomo di raccontare storie nel suo modo “unico” di farlo.
“Così si può essere coscienti della propria azione, oppure agire senza coscienza, senza non solo sapere quello che si fa, ma anche senza sapere che si sta agendo […] Com’è difficile dissolversi nell’essere” (Emil Cioran – La Tentazione di esistere).
Nina Margeri
Scampoli di e con Massimiliano Civica
STAGIONE TEATRALE 21/22 “OVER THE RAINBOW” – Fertili Terreni
Dal 15 marzo fino al 3 aprile è in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri La tempesta, seconda regia e adattamento di Alessandro Serra di un’opera shakesperiana dopo Macbettu, spettacolo prodotto dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, dal Teatro di Roma – Teatro Nazionale, da ERT – Teatro Nazionale, Sardegna Teatro, in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia e Compagnia Teatropersona.
La tempesta, opera di commiato dalle scene del drammaturgo e poeta di Stratford-Upon-Avon, racconta di Prospero, duca di Milano spodestato, che con l’utilizzo della sua arte magica e con l’aiuto del fidato Ariel, spirito dell’aria, inscena una tempesta ai danni della nave su cui viaggiano il fratello Antonio, attuale duca di Milano, Alonso, re di Napoli, il loro seguito e il resto dell’equipaggio facendoli naufragare sull’isola in cui vivono l’esiliato Prospero, sua figlia Miranda e Caliban, figlio della strega Sicorax, dove i naufraghi vengono messi alla prova.
Il testo tratta e rinnova alcuni temi classici dell’opera di Shakespeare come la magia, la natura, il potere che «tutti cercano di usurpare, consolidare e innalzare» e il teatro, anche nelle sue accezioni più simboliche e metafisiche. Serra incentra il suo lavoro precipuamente su queste tematiche, costruendo una drammaturgia di immagini sceniche composte attraverso l’utilizzo di luci, nebbia, oggetti, suoni e costumi avvalendosi della simbologia dei mezzi teatrali a partire da quelli più immediati, corpo e voce, ad altri più elaborati: nella scena iniziale della tempesta, Ariel danza in armonia insieme ad un grande telo, simbolo delle acque del mar Mediterraneo, per far naufragare la nave di Alonso.
“Parole, parole, parole,parole, parole soltanto parole, parole tra noi”
(Parole Parole – Fierro, Chiosso, Del re)
Le parole diventano flusso di coscienza, denso come magma che lentamente investe e rapidamente brucia senza lasciare niente.
Lo spazio scenico è completamente aperto, non c’è un palco, non ci sono quinte, la macchina teatrale è a vista. Per terra un enorme cerata bianca crea un quadrato che lascia fuori un perimetro non troppo grande che conduce alla parete di fondo e alle pareti laterali dove sono ubicate le porte delle uscite di sicurezza, sia a destra che a sinistra. Sul quadrato bianco pende dalle traverse superiori un secondo quadrato fatto di luci al neon, linee parallele come trattini bianchi e freddi. Pile di sedie colorate fuori nel perimetro esterno, un carrello appendiabiti con dei vestiti e un pulpito bianco su rotelle anche quelli fuori dal quadrato bianco. Il pubblico in sala sta ancora parlando e quando le due attrici entrano da dietro le scalinate, dove sono seduti gli spettatori, l’assenza del cambio di luci disorienta un po’ e ci vogliono alcuni istanti prima di rendersi conto che lo spettacolo è già cominciato. Del resto l’energia con cui entrano le due attrici forse non è del tutto efficace e si vede che devono far ricorso ad una parte di “mestiere” per tenere su un momento che sarebbe dovuto partire probabilmente con maggiore mordente.
Aprire la scena con un conflitto in atto non è mai semplice. Si capisce subito che sarà uno spettacolo impegnativo per le due attrici visto che è previsto un atto unico di più di un’ora e mezza. Dal punto di vista drammaturgico il conflitto iniziale fa presagire una parabola evolutiva che porterà inevitabilmente alla frattura definitiva di un già così fragile equilibrio tra due sorelle, queste due donne in bilico tra l’accettazione di sé e l’accettazione dell’altra, capaci di definirsi solo come alterità dall’altra. La scena più che un ring, come molti l’hanno definita, appare piuttosto come un foglio bianco che attende di essere riempito.
Perché questo, in fondo, è uno spettacolo sull’attesa. Si attende di comprendere le ragioni del conflitto, si attende di vedere quando e come si raggiungerà il culmine del contrasto tra le due sorelle, si attende di vedere a cosa servono e come verranno usati gli oggetti che sono a vista fuori dal foglio bianco ma evidentemente in relazione con la scena, si attende che tutte le sedie colorate vengano disposte all’interno dello spazio bianco. Quando poi all’interno della diatriba verbale tra le due donne entrano in gioco visioni di conflitti geopolitici, l’estinzione delle api con accenni a problemi ecologici, ecco che si attende di capire dove si voglia andare a parare e quando si capisce che non si vuole andare a parare da nessuna parte a quel punto, si attende che tutto finisca.
Lo spettacolo senza dubbio denota la bravura delle due attrici ma questo forse è uno di quegli spettacoli più interessanti da interpretare che belli da vedere. Eppure c’è molto potenziale (“bello da vedere”) che rimane insondato. Gli oggetti di scena poco utilizzati in alcuni casi quasi per nulla esplorati, messi lì a giustificare un contesto che viene ampiamente spiegato con le parole. L’unico interessante movimento che compie una delle sorelle, disporre in maniera ordinata le file di sedie colorate all’interno di quella chiazza bianca, viene giustificata ribadendo la necessità di allestire la sala per una conferenza che si svolgerà di lì a poco. Così non appena la mente prova a fare dei panegirici immaginativi riguardo a quel colore (quello delle sedie) che comincia finalmente ad animare quel foglio bianco, le parole castrano ogni possibilità creativa, obbligandoti con una perentoria spiegazione a prendere quell’azione per quello che è, vincolandoti ad immagini incastonate su montature precostituite, riportandoci su percorsi rigidamente prestabiliti, su binari difficili da scardinare. Ma la natura di quello spazio, quei colori che prepotentemente riempiono il bianco della scena sono mille volte più evocative di quelle infinite, inarrestabili parole che continuano a pronunciare senza sosta le due attrici. Perché il teatro è azione che accade qui ed ora.
Le parole lontane dall’essere evocative sono descrittive, non evocano veri vissuti ma foto in banco e nero, realtà filtrate da un mondo emotivo confuso e non risolto. Niente è lasciato all’immaginazione, tutto è giustificato. Ci si sarebbe aspettato qualcosa di più da un coreografo come Pascal Rambert soprattutto avendo a disposizione uno spazio con un potenziale così interessante, con tutti quegli oggetti che rimangono sterili e inutilizzati, con due attrici dalla grande energia che rimane compressa e anche quella mai pienamente utilizzata. Il vero problema è che in scena non accade nulla, tutto quello che ci viene raccontato è già accaduto e noi non assistiamo a nulla, il conflitto rimane verbale, l’energia implode entro ognuna di loro anziché esplodere l’una sull’altra come ci saremmo aspettati.
L’autore non sembra credere abbastanza al dramma familiare come materia sufficiente per la messa in scena e il racconto diventa il resoconto di una famiglia radical chic usato come pretesto per accennare a parlare di geopolitica, inquinamento, escatologia della parola, insomma di tanto altro, di troppo altro.
E nonostante tutta quella energia sprigionata a tratti ma non vissuta, tutti quegli oggetti che vengono solo spostati da un punto a un altro ma non utilizzati, di tutta questa materia quello che resta è ancora quel foglio bianco.
Così ora che lo spettacolo è finito, lontano da quel forzato orientamento dato dalle parole, posso ritornare con la mente alle sedie colorate disposte su quel foglio bianco che come i chiodini conficcati nei fori di una lavagnetta bianca come quella con cui giocano i bambini, le due donne/bambine in scena avrebbero potuto disegnare, con la stessa disarmante semplicità dei bambini, il loro vissuto interiore. Allora penso che il dramma familiare sarebbe stato più che sufficiente, se gli fosse stata data la possibilità di “essere” nel qui ed ora della scena.
Nina Margeri
Testo, messa in scena e spazio scenico di Pascal Rambert
Con Sara Bertelà e Anna Della Rosa
Traduzione italiana di Chiara Elefante
Produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts
La migliore commedia è, forse, quella che riesce con i suoi toni leggeri e buffoneschi a scavare dentro i suoi soggetti, toccando argomenti ben più profondi di quanto si potrebbe pensare ad una prima occhiata superficiale. È la commedia che riesce ad inquadrare e raccontare una realtà in ogni sua sfaccettatura, spesso e volentieri mettendone a nudo gli aspetti più oscuri, mostrando i sentimenti complessi e amari che si celano dietro una risata. Nel nostro paese possiamo dire di vantare una tradizione secolare di questo tipo di tragica comicità, una tradizione che affonda le sue radici nel popolare, e che ha trovato accoglienza in tutto il mondo, proprio per l’universalità dei temi trattati.