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SU ALDA MERINI – DUE SPETTACOLI A CONFRONTO

Galeotte furono le rose rosse e le sigarette.

“I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.”

(Alda Merini)

“Non è facile accostarsi a un Mito” si legge nella nota dello spettacolo Alda Merini. Una storia diversa, in programma al TPE di Torino. Sebbene comprenda il motivo per cui ci si possa accostare a una donna “scomodamente immensa” come la Merini come a un mito, quest’associazione lascia qualche dubbio, proprio perché come scrive lei stessa di sé

E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che è stato quando strisciavi per terra e non volevi le ali” – (Alda Merini)

È in quello strisciare “per terra” che nasce la poesia e la donna Alda Merini, piuttosto che dalle “altezze” del mito. Mitizzarla sarebbe come snaturarla, con il rischio, come è accaduto, di renderla icona bidimensionale, perdendo quella dimensione carnale che è stata per lei motivo di vita, nel vero senso della parola.

Alda Merini. Una storia diversa e Alda. Diario di una diversa sono due spettacoli omaggio alla poetessa milanese scomparsa nel 2009 che per dodici anni ha vissuto in manicomio, in un periodo in cui si praticava ancora l’elettroshock.  I due spettacoli parlano della stessa storia, usano gli stessi riferimenti testuali e hanno persino (o quasi) lo stesso titolo ma sono paradossalmente agli antipodi.

Perché?

Alda. Diario di una diversa andato in scena al Gobetti di Torino è uno spettacolo compiuto, che striscia nella polvere ma che sa innalzarsi su vette altissime senza perdere mai il peso dei corpi, capaci di ripiombare rovinosamente a terra anche dopo aver raggiunto altezze considerevoli, proprio come lei.

Alda Merini. Una storia diversa è fondamentalmente un reading, una voce senza corpo, uno spettacolo persino forse stucchevole con momenti di ridondante e didascalica banalità.

“Rosse rosse” dice l’attrice indicando con la mano delle rose rosse per terra sul palco. “E fumavo, fumavo” legge l’attrice mentre con le dita mima il gesto del fumare. Fino ad arrivare alla scomparsa definitiva di un corpo già inconsistente, per dare spazio a immagini statiche che si alternano sulla parete di fondo sulle note di brani ben noti che fanno l’occhiolino a un facile sentimentalismo.

Rose rosse per terra, un baule e un leggio. L’eco di una voce.

Così si può riassumere lo spettacolo Alda Merini. Una storia diversa con una frase che non è una frase, proprio perché lo spettacolo non è uno spettacolo. Il motivo per cui non possiamo definire “frase” la successione di parole sopracitate è per l’assenza della parte fondamentale di ogni preposizione: il verbo. L’assenza del verbo implica la mancanza di un’azione e di conseguenza di un “senso”, così che le parole private della possibilità di organizzarsi attorno ad esso rimangono un mero elenco. Ed è esattamente quello che accade durante lo spettacolo, la mancanza di “azione” che si limita allo spostamento dell’attrice da un luogo deputato a un altro (il leggio, le rose rosse e il baule) dove principalmente vengono letti brani e poesie scritti dalla stessa Merini pongono una scelta stilistica che si concentra principalmente sulla parola piuttosto che sul corpo. Anche nel breve monologo centrale, durante il quale le parole, seppur non lette, vengono comunque declamate, non assistiamo a una vera e propria interpretazione. L’attrice nonostante pronunci parole in prima persona, così come sono state scritte dalla Merini, non ci dà mai l’impressione di trovarci davanti a un personaggio ma al massimo a un narratore che ci sta leggendo una favola.

In Alda. Diario di una diversa si apre il sipario e vediamo tutto il palco ricoperto di sabbia, con un cumulo sullo sfondo a sinistra a formare una piccola sommità. Adagiati alla base e sul pendio di questa piccola vetta dei corpi inanimati, quattro donne e un uomo, appaiono come “cose” dimenticate. Troviamo due sedie sparse e un praticabile sulla destra, dal lato opposto della piccola altura, anche queste conficcate nella sabbia. Una donna avanza dal fondo verso una sedia in proscenio con indosso un cappotto e un abito che si intravede, come a volerci restituirci vagamente il sentore di un’epoca. Indossa scarpe scure con dei tacchetti bassi che affondano nella sabbia. Un corpo ingombrante, la fatica dello spostamento verso la sedia a causa della sabbia ma, seppur differente nelle sembianze, appare, dapprima con pudicizia e poi sempre più sfacciatamente, il personaggio di Alda Merini che lascia le pagine dei suoi scritti per prendere nuovamente vita in tutta la sua carnalità, come carnali saranno i suoi ricordi che in quei corpi adagiati troveranno presto nuova vita.

La bellezza di un corpo che manifesta la qualità della danza rende ancora più sublime questo confine tra realtà e finzione non solo inteso come soglia tra gli interpreti e gli spettatori ma come soglia tra il dentro e il fuori della donna, dell’amante, della madre, della poetessa Alda Merini.

Sulle sabbie del tempo i ricordi prendono corpo e la stessa spaventosa meraviglia della vita rifiorisce attraverso il gioco del teatro. Così cornici e altalene calano dal soffitto, sedute capovolte svelano nuovi utilizzi, cambi di abiti a vista, cambi di peso, ciò che è leggero appare pesante e viceversa, il fremito di una magia come stupore infantile che prende campo e il baratro di una solitudine che non ci abbandona mai. Su tutto e dentro tutto nuvole di sabbia, montagne da scalare, mani che tastano e afferrano la vita con violenza, trucco sbavato che accarezza.

La sigaretta non è un gesto mimato distrattamente tra una parola e l’altra è fuoco che arde e brucia è fumo tra le dita che va a confondersi con le nuvole di polvere diventando un tutt’uno. Le rose rosse non sono macchie per terra da indicare ma un mazzo dal gambo lungo di metallo che come giavellotti vengono lanciati e conficcati nella sabbia ad ogni passo che Pier compie per avvicinarsi ad Alda, come dardi piantati nel cuore.

La sigaretta non è un gesto mimato distrattamente tra una parola e l’altra è fuoco che arde e brucia è fumo tra le dita che va a confondersi con le nuvole di polvere diventando un tutt’uno. Le rose rosse non sono macchie per terra da indicare ma un mazzo dal gambo lungo di metallo che come giavellotti vengono lanciati e conficcati nella sabbia ad ogni passo che Pier compie per avvicinarsi ad Alda, come dardi piantati nel cuore.

In entrambi gli spettacoli gli spettatori erano entusiasti ma mentre in uno parlavano della bravura degli interpreti, della perfomance e sì anche di Alda Merini, nell’altro parlavano dei manicomi e della legge Basaglia e questo mi ha portato nuovamente a interrogarmi su che cos’è Teatro? Che cosa è Arte? Quale funzione deve assolvere uno spettacolo? Sempre che debba assolvere necessariamente funzioni diverse dal mero estetismo. Può anche uno spettacolo non riuscito sollevare riflessioni e porre accenti su aspetti che se no sarebbero forse dimenticati? Possiamo accettare per un fine più alto che anche l’approssimazione e la mancanza di profondità, di cura, di “bellezza”, possano svolgere una loro funzione educativa o morale? O è stata proprio questa accondiscendenza, questa tolleranza di un “all’incirca”, “quasi”, “ma va bene così perché tanto quello che conta è il cuore” l’inizio di una deriva inarrestabile?

In onestà non ho una risposta ma, nonostante mi senta un po’ “idiota”, continuo fermamente a credere che “la bellezza salverà il mondo”.

Nina Margeri

Alda Merini. Una storia diversa

scritto e diretto da Ivana Ferri – con Lucilla Giagnoni – voce fuori scena Michele Di Mauro – musiche di Don Backy, Lucio Dalla, Gianluca Misiti – luci e scene Lucio Diana – montaggio video Gianni De Matteis – coordinamento tecnico Massimiliano Bressan – organizzazione Roberta Savian – produzione Tangram Teatro Torino – con il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Piemonte

Alda. Diario di una diversa

Da Alda Merini adattamento teatrale di “L’altra verità. Diario di una diversa di Alda Merini – Drammaturgia e regia Giorgio Gallione – con Milva Marigliano – e con i danzatori di Deos Danse Ensemble Opera Studio: Luca Alberti, Angela Babuin, Eleonora Chiocchini, Noemi Valente, Francesca Zaccaria – Coreografia Giovanni Di Ciccio – Scene Marcello Chiarenza – Costumi Francesca Marsella – Luci Aldo Mantovani

GHIACCIO – FILIPPO DINI

“Fondamentalmente io sono un pezzo di ghiaccio”, apre così lo spettacolo il personaggio di Ralph, interpretato da Filippo Dini. Il ghiaccio in questa pièce è ovunque: si viene avvolti da un’atmosfera gelida, immobile, già dall’ingresso in platea del pubblico, quando le luci di sala sono spente e si vede solo grazie a un’illuminazione di ghiaccio che arriva dalle luci di scena.

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LE SEDIE. DELL’URGENZA DI DIRSI AMATI

“[…] il discorso amoroso è oggi d’ una estrema solitudine. Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; […]”

Frammenti di un discorso amoroso – Roland Barthes  (Traduzione di Renzo Guidieri)

Per i non patentati è più semplice prendere un treno per Milano e poi una metro che ti apre le porte dell’ascensore a pochi metri dal Teatro Carcano, piuttosto che far partire la questua tra gli appassionati e, nei casi più disperati, estenderla anche ai meno interessati al fatto teatrale, purché guidatori disposti a condurti da Torino alle Fonderie Limone (e in quei giorni organizzativi è tutto un “dai, ma sarà bellissimo… La noia? A teatro? Ma non si è mai sentita… è più facile che un cammello passi da una cruna di un ago che… e poi passa quel maledetto cammello che bisogna cancellare lo sventurato dall’agendina dei possibili accompagnatori per spettacoli futuri).
Dunque Le sedie di Eugene Ionesco con la regia di Valerio Binasco, prodotto dal Teatro Stabile di Torino che ha fatto il suo debutto proprio alle Fonderie Limone di Moncalieri lo abbiamo visto comodamente nella sua tappa meneghina.

 Adesso che si tratta di un ottimo lavoro, possiamo dirlo con cognizione di causa e anzi, vi invitiamo a rincorrerlo nelle prossime tappe: il 5 aprile all’Ermanno Fabbri di Vignola, poi dal 7 al 10 aprile allo Storchi di Modena, e infine, dal 28 aprile al 1 maggio al Dante Alighieri di Ravenna. A cuor leggero potrete portarvi i vostri amici non habitué: non si annoieranno! 

Ph. Luigi De Palma


All’ingresso in sala il sipario è aperto. Ci accoglie la scena post-apocalittica dell’acclamato premio Ubu Nicolas Bovery: le rovine un palazzo, forse reduce di un bombardamento (?) (difficile non pensare alla guerra, così presente in questi giorni), in cui si sente il peso degli anni, dei secoli. Sul lato destro del palco una catasta di sedie, a sinistra sulla parete di fondo una finestra che si illuminerà durante lo spettacolo, ricordando i quadri di Mark Rothko.

Ph. Luigi De Palma

Il testo l’abbiamo letto in treno. La trama è presto detta.
Due coniugi, anzianissimi, si sono amati per tutta la vita (una vita piena anche di macerie, occasioni mancate, lutti) preparano la casa per ospitare tutte le autorità. Il vecchio infatti ha un messaggio sul senso ultimo dell’esistere che ha consegnato ad un oratore che lo dovrà dire in pubblico, l’oratore però è sordomuto. Debutta nel 1952: lo stesso anno di Aspettando Godot; ma se Beckett ci ingabbia in una realtà autistica in cui perfino l’incontro con l’alterità è negato, Ionesco pur nell’urlo della vacuità del senso, lascia spazio per l’altro. Ed  proprio sulla relazione amorosa che insiste la regia di Binasco, che come al solito è un amante del testo molto fedele, ma sempre amante, mai marito! La sua è infatti una regia che viaggia sui binari di Ionesco, ma che non teme autorialità nella scrittura scenica.
Questi due clown-clochard molto felliniani (vestiti molto sapientemente da Alessio Rosati) mentre preparano la casa per questa conferenza, e poi arrivano le immaginarie autorità, mentre aspettano l’oratore, si amano, danno testimonianza del loro amore, così logoro, lercio eppure ancora in vita, nutrito dalla fantasia e dal potere del racconto: un racconto di routine, che si dicono e ridicono da anni, ma che suona sempre nuovo agli orecchi degli amanti. 

[…] È una musica troppo vecchia ormai… Parliamo d’altro…
Gioia mia, io non me ne stanco mai… È la tua vita, e mi appassiona. 
La conosci a menadito.
Per me è come se dimenticassi sempre tutto… Ho lo spirito nuovo tutte le sere… Ma si, vedi, lo faccio apposta, prendo delle purghe… ridivento nuova per te, mio tesoro, tutte le sere… 

Tutto è ben saldo in questo lavoro e la recitazione di Michele di Mauro e Federica Fracassi è tutta agita per sottrazione, lirica e tenera, attenta a tenere in vita quel gioco fragilissimo che è il teatro (cos’altro è ? se non un “facciamo finta che…” giocato molto seriamente). Si fa fatica a trattenere qualche lacrima. E se tutti ci aspettiamo l’oratore, questo non arriva nell’edizione di Binasco, ma una luce lo cerca tra il pubblico. 

Quando il mondo va rotoli, sta per finire, non resta che farsi testimoni e narratori (sordomuti) dell’amore, di quel discorso amoroso, sempre incomprensibile, ma sempre attuale, urgente. Urgentissimo. 

Detto questo, possiamo anche fare il salto nel vuoto. 

Buio.

di Eugène Ionesco
traduzione Gian Renzo Morteo
con Federica Fracassi e Michele Di Mauro
regia Valerio Binasco
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
musiche Paolo Spaccamonti
assistente regia Giordana Faggiano
assistente scene Nathalie Deana 


Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Giuseppe Rabita

LA MERDA – CRISTIAN CERESOLI E SILVIA GALLERANO

Al Teatro Colosseo di Torino, venerdì 25 marzo è andato in scena La merda, di Cristian Ceresoli con Silvia Gallerano, in occasione del suo 10° anniversario. Ad attendere il pubblico in sala troviamo già l’attrice a centro palco, seduta su un alto sgabello nero, lei è piccola e nuda: impugna un microfono, e ciondolandosi canticchia una canzoncina, di quelle che allontanano la paura quando c’inoltriamo nel buio, di quelle che scacciano cattive presenze. Questa volta però non è una filastrocca per bambini, bensì l’inno d’Italia. Nel buio della scena si staglia solo il suo corpo di donna, e, all’apice di questa massa bianca, il cerchio rosso delle labbra: una grande bocca, un buco nero che minaccia di tritare e ingurgitare la platea e tutt’intorno.

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LA TEMPESTA – ALESSANDRO SERRA

Dal 15 marzo fino al 3 aprile è in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri La tempesta, seconda regia e adattamento di Alessandro Serra di un’opera shakesperiana dopo Macbettu, spettacolo prodotto dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, dal Teatro di Roma – Teatro Nazionale, da ERT – Teatro Nazionale, Sardegna Teatro, in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia e Compagnia Teatropersona.

La tempesta, opera di commiato dalle scene del drammaturgo e poeta di Stratford-Upon-Avon, racconta di Prospero, duca di Milano spodestato, che con l’utilizzo della sua arte magica e con l’aiuto del fidato Ariel, spirito dell’aria, inscena una tempesta ai danni della nave su cui viaggiano il fratello Antonio, attuale duca di Milano, Alonso, re di Napoli, il loro seguito e il resto dell’equipaggio facendoli naufragare sull’isola in cui vivono l’esiliato Prospero, sua figlia Miranda e Caliban, figlio della strega Sicorax, dove i naufraghi vengono messi alla prova.

Il testo tratta e rinnova alcuni temi classici dell’opera di Shakespeare come la magia, la natura, il potere che «tutti cercano di usurpare, consolidare e innalzare» e il teatro, anche nelle sue accezioni più simboliche e metafisiche. Serra incentra il suo lavoro precipuamente su queste tematiche, costruendo una drammaturgia di immagini sceniche composte attraverso l’utilizzo di luci, nebbia, oggetti, suoni e costumi avvalendosi della simbologia dei mezzi teatrali a partire da quelli più immediati, corpo e voce, ad altri più elaborati: nella scena iniziale della tempesta, Ariel danza in armonia insieme ad un grande telo, simbolo delle acque del mar Mediterraneo, per far naufragare la nave di Alonso.

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L’EMOZIONE DEL PUDORE – MASSIMILIANO CIVICA

Giovedì 24 marzo, Massimiliano Civica ha presentato a Fertili Terreni Teatri presso San Pietro in Vincoli la prima di tre lezioni-spettacolo, L’emozione del pudore: un itinerario attraverso i personaggi di Orson Welles, Nina Simone, Rino Gaetano, Ettore Petrolini e altre comparse strappate al mondo delle performing arts. L’impressione è quella di trovarsi in una terra di confine: è una lezione questa a cui assistiamo o uno spettacolo? Quello che vediamo è Orson Welles o solo un personaggio di finzione, un burattino nelle mani di Civica? L’ ambiguità tiene viva la scena e svela una porzione del mistero del teatro, che, forse, può ridursi a una semplice linea di confine…

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FAVOLA PERSONALE. GLI AMORI DIFFICILI ALL’HOTEL OVIDIO

Palermo, 5 marzo 2022.  Quando arriviamo nel capoluogo siciliano, il cielo è pulito, anche se qualche nuvola tenta, senza tuttavia riuscirvi, di guastarlo.
Dopo un breve pellegrinaggio ad almeno due degli oratori del Serpotta: quello di Santa Cita e del Rosario di san Domenico e a un paio di pasticcerie (Ruvolo e Antico Caffè Spinnato), ci dirigiamo verso il Teatro Biondo. Assisteremo alla penultima replica palermitana di Favola Personale, spettacolo di Giuliano Scarpinato. Lo spettacolo la prossima settimana giungerà a Napoli, al Teatro San Ferdinando con repliche da martedì, 8 marzo fino a domenica, 13 marzo 2022. Vi invitiamo dunque ad assistervi e a discuterne attraverso i nostri canali social (Facebook e Instagram).

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BREVI INTERVISTE CON UOMINI SCHIFOSI

Il drammaturgo e regista Daniel Veronese, maestro del teatro argentino, porta in scena le Brevi interviste con uomini schifosi con sguardo feroce e molto humor,  uno zibaldone di perversioni e meschinità, che ritraggono il maschio contemporaneo come un essere debole, che ricorre al cinismo se non alla violenza come principale modalità relazionale con l’altro sesso. Attraverso una rosa di racconti traccia una propria linea drammaturgica che racconta di uomini incapaci di avere relazioni armoniche con le donne e ci invita a osservarli da vicino.

Daniel Veronese traspone queste voci, scritte da Wallace in forma di monologo al maschile, in dialoghi tra un uomo e una donna. In scena però chiama a interpretarli due uomini, Lino Musella e Paolo Mazzarelli che si alternano nei due ruoli maschile e femminile, in una dialettica che mette in luce tutte le fragilità, le gelosie, il desiderio di possesso, la violenza, il cinismo insiti nei rapporti affettivi.

Con umorismo feroce e impietoso, il maschio contemporaneo è ritratto come un essere incapace di costruire relazioni con le donne.  Assisteremo all’uomo che insulta la moglie che lo sta lasciando; all’uomo che vanta la propria infallibilità nel riconoscere la donna che ci sta senza fare storie; a quello che usa una propria deformazione per portarsi a letto quante più donne gli riesce, insomma una galleria impietosa di mostri.

Brevi interviste con uomini schifosi non può non suscitare serie riflessioni sul rapporto uomo-donna. In effetti è lo stesso attore Lino Musella ad affermare in un’intervista:

Azionano domande che il pubblico deve completare, su un tema come il sessismo, ma non solo. Ci sono questioni di genere, dinamiche di relazione, rapporti cannibali.

Foto di Marco Ghidelli

Nonostante i due attori collaborino ormai da anni come coppia, in questo spettacolo non hanno forse trovato la loro piena sinergia apparendo talvolta “sbilanciati”. Scelta interessante quella di alternare i ruoli di genere e non renderli statici ma non completamente riuscita. Da un lato Lino Musella incarna e indaga perfettamente, attraverso i vari ruoli, la mostruosità umana conferendo anche sfumature diverse non solo in base agli episodi ma anche nell’alternanza maschile/femminile. Mazzarelli al contrario, nonostante l’indiscutibile capacità attoriale, sembra quasi trattenersi e non voler cedere a tale mostruosità rimanendo sulla difensiva (se così si può definire la non immedesimazione completa nel testo) e non lasciando spazio a troppe nuances tra maschile e femminile.

Lo spazio scenografico è essenziale, l’unico movimento geometrico è costituito da una diversa disposizione dei tavolini e dai due attori che a secondo del ruolo e della dialettica fra di loro, stanno uno seduto e l’altro in piedi, o entrambi seduti. Anche i costumi sono ridotti al minimo: t-shirt, jeans e a piedi scalzi.

Il risultato finale è comico e disturbante allo stesso tempo. Una rappresentazione cinica ma attuale dell’uomo moderno che suscita il riso nella sua drammatica veridicità.

Irene Merendelli

Di David Foster Wallace

Regia e drammaturgia Daniel Veronese
Traduzione Aldo Miguel Grompone e Gaia Silvestrini
Con Lino Musella e Paolo Mazzarelli
Disegno luci Marciano Rizzo
Direzione tecnica Marciano Rizzo Gianluca Tomasella
Fonica e video Marcello Abucci
Realizzazione video Alessandro Papa
Responsabile di produzione Gaia Silvestrini
Assistente alla produzione tirocinante dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico Gianluca Bonagura
Foto di scena Marco Ghidelli
Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Marche Teatro, TPE – Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts, Carnezzeria srls
in collaborazione con Timbre 4, Buenos Aires, e Teatro di Roma – Teatro Nazionale

MOBY DICK ALLA PROVA – ELIO DE CAPITANI

Portato in scena per la prima volta a Londra nel 1955, il Moby Dick di Orson Welles si rivelò essere molto più di una semplice riduzione per le scene del celebre romanzo di Melville. Il sottotitolo “Rehearsed” lasciava intendere fin da subito la sua natura espressamente teatrale: quello che il pubblico si trovava davanti all’aprirsi del sipario non era esattamente Moby Dick, ma una compagnia di attori che discute su come sia possibile mettere in scena un romanzo di tale portata nello spazio ristretto di un palcoscenico, e seguita a tentare nell’impresa.  “È l’ultima pura gioia che il teatro mi abbia dato” ebbe a dire Welles dello spettacolo più avanti.

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