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città inferno – elena gigliotti

Dal 23 al 28 aprile al Teatro Gobetti, Elena Gigliotti e le sue splendide attrici portano in scena Città Inferno, una produzione di ariaTeatro Compagnia Teatrale e nO(Dance first. Think later) liberamente ispirato al film di Renato Castellani Nella città l’inferno.
Nel penitenziario femminile di Città Inferno cinque carcerate accolgono l’ultima arrivata: Lina, ragazza acqua e sapone, spaesata e impaurita, finita dentro per colpa del fidanzato delinquente. Passato un primo momento in lacrime, Lina impara presto come funziona la vita in carcere e a convivere con le sue nuove compagne di cella.

Questa storia, tutta al femminile, è una groviglio di passione, di forza, di instabili equilibri, è testimonianza e fantasia, realtà e menzogna. Irriverente, sgarbata e autoironica, celebra la potenza viscerale della terra, la terra delle inflessioni dialettali e la terra che è Donna, generatrice di vita.
Le indemoniate di Città Inferno sono sei, diverse per provenienza e per esperienze di vita. Una più pungente dell’altra, incontenibili, inarrestabili, sono corpi e voci che entrano ed escono dal concerto di quella cella che da claustrofobica diventa quasi accogliente, come un ventre materno in cui tutte riescono a ritagliare uno scomodo angolino dove mettersi comode. In questo spazio vitale così angusto l’energia si accumula, preme contro le quattro pareti della minuscola cella fino a esplodere al suo esterno, investendo tutto quello che trova sul suo cammino. E poi musica, balli, canti. È un inferno sì, ma un inferno così colorato che quasi quasi ti viene voglia di farci un giro.

Assistiamo a un teatro che è quasi cinema, e non mi riferisco solamente all’utilizzo dei video: qui la testimonianza audiovisiva rinasce in scena.
Il film della vita di donne realmente esistite rivive grazie a queste attrici, fantasmi in carne e ossa. Riproduzioni in bianco e nero di un’epoca che può sembrare lontana e invece eccola lì, davanti ai nostri occhi. “Che anno è lì fuori?” chiedono. “É il 2019” risponde Lina.

All’entrata del pubblico in sala le ragazze sono già sul palco, e ci rimarranno per tutte le due ore di spettacolo compresi i dieci minuti di intervallo. Se la chiacchierano e se la ridono, proprio come facciamo noi seduti in platea, quasi come a dirci che la “finzione” non inizia e non finisce mai veramente. Che loro lì sopra sono vere tanto quanto lo siamo noi qui sotto. Sono vere perché veri sono i loro bisogni e perché li fanno sentire, non si limitano a lasciarsi guardare da lontano.
“Evadono” dal palco e arrivano in platea, si fanno un giretto tra il pubblico. Ci guardano impudenti, ci parlano, rubano un portafoglio e leggono i documenti della persona a cui appartiene, gli scontrini dei posti dove è andata a mangiare. Trovano 70 euro e sembrano soddisfatte. Chiedono se qualcun’altro ha voglia di dare loro qualcosa, soldi ma non solo. Noi ridiamo a questa richiesta ma ci sgridano, perché è una cosa seria, serissima. A una spettatrice chiedono il suo bel maglione bianco, perché in cella fa freddo.
E non c’è poi tanto da stupirsi perché, in fondo, chi può dire cosa sia reale e cosa no? C’è più vita e verità lì su quel palco, tra le dita e i capelli di quelle sei attrici in questa piovosa sera di aprile, che in tante altre situazioni della nostra quotidianità. Lì sopra c’è un’onestà e un coraggio che nella vita “vera” la maggior parte delle volte ci possiamo solo sognare. Forse è proprio qui che si trova la forza vitale che fa del teatro quell’attimo irripetibile e irrinunciabile di cui i manuali e i saggi accademici parlano.
Perciò, un solo consiglio, di cuore. Siateci.

Eleonora Monticone

Città Inferno
liberamente ispirato a “Nella città l’inferno” di Renato Castellani
con Melania Genna, Carolina Leporatti, Demi Licata, Elisabetta Mazzullo, Stefania Medri, Daniela Vitale
e con Maurizio Lombardi nel ruolo delle suore (voce off)
regia e partiture fisiche Elena Gigliotti
scene Carlo De Marino
costumi Carlo De Marino, Giovanna Stinga
luci Giovanna Bellini
editing audio Claudio Corona Belgrave
progetto video Daniele Salaris
strutture ferrose Anelo 97
AriaTeatro Compagnia Teatrale
No (Dance first . Think later)

Nel nome del dio web – matthias martelli

Un’allegra consapevolezza: è questo che, a mio avviso, regala il monologo di Matthias Martelli Nel nome del Dio Web, nuova produzione della Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani, andato in scena l’11 aprile, l’ultima volta per la stagione 2018/19, in occasione della XXIII edizione del Festival GiocaTeatro.

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Gli Alti e Bassi di Biancaneve

26.01.2019 Fertili Terrreni Teatro – Torino

Specchio specchio della mie brame chi è la più bella di tutto il reame? (Jacob e Wihelm Grimm)

La bellezza è un’invenzione (che implica innanzitutto creatività) oppure è una scoperta (che implica innanzitutto contemplazione)? (Vito Mancuso)

Ho lasciato passare un po’ di tempo per far decantare nel mio corpo (archivio) l’esperienza di questo spettacolo prima di provare a lasciarne traccia attraverso un linguaggio altro, che per sua natura manifesta l’inevitabile corruzione di una “verità” che può essere restituita solo nella sua relatività e alterità.

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VANGELO SECONDO LORENZO

Nel momento in cui ho visto nel programma del Teatro Stabile di Torino questo spettacolo, decisi che dovevo andare assolutamente a vederlo. Fu un desiderio dettato dalla profonda stima che nutro verso la grande persona che fu Don Lorenzo Milani. Ero inoltre molto curiosa di sapere come avrebbero affrontato in palcoscenico una storia come la sua.

E’ stata “colpa” del mio ex insegnante di psicologia del mio liceo se mi sono imbattuta in questo personaggio, che oltre essere stato molto attivo a livello sociale e politico, ha dato un importante contributo alle successive riflessioni sulla didattica scolastica.

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Va Pensiero – una settima con la compagnia Teatro delle Albe

Può la parola farsi vita? Con certezza rispondo negativamente a questa domanda: nell’eterna lotta con la vita la parola scritta perde. La sua salvezza è tornare alla fonte, alla vita, alla carne. È questo che cerco che e che trovo nel teatro che più mi segna.

Accompagnato da queste riflessioni vado  un pomeriggio, nello studio del  mio docente di Storia del teatro con l’intenzione di farmi indicare le strade più interessanti da seguire in questa forma d’arte così antica, eppure per me ventenne pressoché inesplorata.

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LE BARUFFE CHIOZZOTTE

Le baruffe chiozzotte, testo di Carlo Goldoni pubblicato nel 1762, è incredibilmente attuale. In esso ci sono emozioni che siamo abituati a pensare come primordiali, come la gelosia o l’esclusività dei sentimenti. Non manca ciò che si può chiamare differenza tra i sessi: la donna socialmente sottomessa all’uomo, che va per mare come pescatore, senza certezza di ritorno.

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FDCT23 – AIACE

In conclusione al Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 22 giugno alle Lavanderie a Vapore di Collegno Aiace, testo classico di Sofocle rivisitato da Linda Dalisi e interpretato dall’attore ivoriano Abraham Kouadio Narcisse (Aiace), da Michelangelo Dalisi (Odisseo) e dall’attrice francese Estelle Franco (Dea Atena e Tecmessa).

Dopo la morte di Achille, al nono anno della guerra di Troia, le sue armi vengono ereditate da Odisseo. Aiace, il guerriero più forte tra gli Achei, secondo, un tempo, solo al Pelìde, in seguito a questa decisione, perde il senno. Preso dall’ira e ispirato da Atena, la protettrice di Odisseo, uccide tutto il bestiame greco, convinto che siano i suoi compagni, ma l’indomani, resosi conto dell’errore e della follia decide di salvare il proprio onore, davanti agli dei e ai Greci, suicidandosi. 

Prima del compiersi del gesto estremo si susseguono una serie di riflessioni sulla condizione umana: dalla follia alla soggiogazione dagli dei; dall’onore al rispetto delle tradizioni; dal ricordo dell’infanzia al rispetto dei padri. 

Il supporto visivo tramite tre proiettori che, letteralmente, proiettano su teli illusioni, sogni, speranze, paure, sangue nel mare ecc…, è particolarmente efficace poiché dà spazio all’interiorità e ai sentimenti dei protagonisti e trova il culmine nel finale, con l’ultima proiezione: Aiace, suicida, si trasforma in centauro.

Aiace prima di tutto, racconta una storia di estraneità, che è culturale, ideologica, temporale, personale. Questo elemento esiste su due differenti piani. Uno è radicato nel testo sofocleo stesso e viene arricchito in seconda istanza dalla presenza in scena di tre attori, provenienti da Costa d’Avorio, Francia e Italia, che parlano lingue diverse. Quello che potrebbe essere un punto di contatto, la lingua, sembra essere, invece, una barriera insormontabile: Aiace, ormai impazzito, non riesce nemmeno più a spiegarsi. Non riesce a esprimere i motivi per cui dovrebbe meritare le armi e Odisseo, dall’alto della sua condizione di forza e della sua arroganza, si rivolge direttamente al pubblico per sottolineare questa mancanza linguistica (Aiace/Abraham sta parlando nella sua lingua madre). Un’estraneità che si risolve in incomunicabilità, ma anche in estraneità da se stessi. La dea Atena infatti annebbia la mente di Aiace che non si riconosce più e tutte le certezze che aveva acquisito in vita scompaiono all’improvviso, lasciando spazio solo al dubbio, al rimorso, al disonore e alla consapevolezza di non poter cambiare in alcun modo il proprio triste destino.

Odisseo sembra solamente uno scaltro arrivista, ma quando entra in contatto con la sua dea protettrice compatisce la sorte del povero Aiace: «Nonostante mi sia nemico, ho pietà per quell’infelice, per la tremenda sciagura cui si trova aggiogato: nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia». Ritiene infatti che la debolezza e l’errore siano condizioni che possono diventare di chiunque.

Il ruolo dei proiettori diventa particolarmente rilevante in unione alla musica e alla danza, poiché serve a sottolineare come le paure e i sogni delle persone, pur lontane per cultura o stato sociale, possano essere gli stessi. Aiace si sente inadeguato, deriso e disorientato in un mondo che non riconosce più, privo di tradizione ed onore, e sogna solo di poter tornare bambino e di potersi tuffare nel mare a gareggiare ancora con Achille. L’energia/L’empatia che viene trasmessa dall’esibizione deve far scattare l’allarme, accendere una lampadina: tutti possiamo essere Tecmessa, Atena, Odisseo e Aiace; tutti si possono trovare nelle stesse loro situazioni, ed è bene ricordarsi di non giudicare troppo in fretta, di andare oltre ai pregiudizi e a puntare subito il dito, che sia un amico, il tuo vicino di casa, uno straniero.

Il Festival delle Colline Torinesi arriva qui, con Aiace, alla conclusione della 23esima edizione riaffermando l’importanza delle arti e del teatro. Parafrasando una frase attribuita a Francis Scott Fitzgerald: «Questa è la parte più bella di tutto il teatro [orig. di tutta la letteratura]: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni».

di Linda Dalisi e Matteo Luoni

regia Linda Dalisi

con Abraham Kouadio Narcisse, Michelangelo Dalisi, Estelle Franco

scene Giuseppe Stellato

costumi Graziella Pepe

suono e musiche Marco Messina

luci Simone De Angelis

movimenti Francesco Manetti

assistente alle scene Domenico Riso 

aiuto regia Francesca Giolivo

production Brunella Giolivo

management Michele Mele

produzione stabilemobile

in collaborazione con l’Asilo – exasilofilangieri.it

FDCT23 – MACBETTU La zona d’ombra – Dove gli uomini si fanno lupi

Per la ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 17 e 18 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri, Macbettu, versione in limba sarda con sovratitoli in italiano del capolavoro di Shakespeare, diretto da Alessandro Serra e interpretato dalla compagnia Teatropersona.

Lo spettacolo è stato il vincitore del prestigiosissimo premio UBU 2017 e del Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro).

 

Macbettu non si discosta per trama e contenuti dal testo originale, bensì lo amplia con i carnevali sardi: le maschere che rappresentano la foresta che avanza, nel finale, sono simili alle maschere dei Mamuthones e degli Issohadores del Carnevale di Mamoiada. La Sardegna è un luogo sacro e arcaico, dove gli antichi culti pagani sopravvivono ancora oggi in una maniera più vera e sentita rispetto ad altre località ed è lo scenario ideale per rappresentare una tragedia che fa della solennità e della ritualità dei movimenti e di una lingua dal sapore antico e impenetrabile il proprio codice di lettura.

 

La mancanza quasi totale di scenografia e l’assenza di attrici è un omaggio al teatro elisabettiano di Shakespeare. Ciò però non rende meno efficaci le ottime prove degli attori, sia a livello dei singoli – come per quanto riguarda Lady Macbettu, interpretata da un dionisiaco e barbuto Fulvio Accogli – sia a livello corale.

Non è la prima volta che il Macbeth viene rivisitato e ambientato in un’altra cultura. Ne è un esempio il film del 1957 di Akira Kurosawa Il trono di sangue che compie un adattamento in territorio nipponico.

Sono state molteplici negli anni le versioni cinematografiche del capolavoro shakespeariano, ma la versione di Roman Polanski – proiettata al cinema Massimo in preparazione allo spettacolo sardo – è di particolare rilievo perché approfondisce il lato dionisiaco (e demoniaco) delle streghe e di Lady Macbeth. In questo senso compie un’operazione simile anche Alessandro Serra, che caratterizza le Sorelle e soprattutto Lady Macbettu, tutte interpretate da uomini, facendo loro perdere  sembianze umane e femminee in favore di un’aura diabolica. Fulvio Accogli è ottimo nel rappresentare la sensualità del personaggio, specie nella scena del suicidio durante la quale è completamente nudo (o nuda) sul palco, esprimendo una inquietante e peculiare femminilità.

In questo senso Macbettu incontra il Festival delle Colline Torinesi: il viaggio dell’identità tramite la rievocazione elisabettiana e l’annullamento di genere, e la Sardegna come luogo lontano, nel tempo e nello spazio, e straniero dove inscenare temi universali che accomunano tutti gli esseri umani, in una ricerca radicale dell’uomo, sino alla zona d’ombra, la più oscura e bestiale.

 

La zona d’ombra, ovvero il luogo in cui si svolge la vicenda. Un’ombra visibile – lo spettacolo si apre e si chiude entro lunghi momenti di oscurità lacerata dalle streghe, all’inizio, e da suoni metallici che rappresentano il cuore morente di Macbettu, al termine – ma soprattutto un’ombra dell’anima.

Quella che le Sorelle Fatali pronunciano a Macbettu e Banquo potrebbe anche non essere una vera e propria profezia, quanto un dubbio, un’insinuazione proposta e in seguito raccolta dal Conte di Cawdor, che poi si avvererà. Un’ombra che si impossessa anche della consorte che sostiene e inneggia a ogni assassinio (accumulato simbolicamente pietra su pietra come un piccolo nuraghe)  utile per la scalata verso il potere. La zona d’ombra che è il regno del soprannaturale, della vita dopo la morte che si interseca con quella dei vivi con l’apparizione del fantasma di Banquo; ma anche la bestialità dell’essere umano che trova il proprio culmine nella scena, che richiama la maga Circe e i film Porcile (1969) e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini, in cui i due coniugi danno da mangiare alle guardie del corpo di Re Duncan che lottano tra di loro come maiali e cinghiali, mettendo a dura prova gli spettatori.

Una bestialità che si incarna nell’essere umano e lo porta, giù nella zona d’ombra, a compiere le nefandezze più gravi, che possono essere ben spiegate dalle parole di Cesare Pavese: «Non conosci la strada del sangue. Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d’un tocco leggero, t’inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire farsi lupo […]».

Dialogo tra due cacciatori tratto dal racconto L’uomo lupo da Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese

Riccardo Ezzu

Macbettu 

regia Alessandro Serra

tratto da Macbeth di William Shakespeare

con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino

traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni

collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini

musiche, pietre sonore Pinuccio Sciola

composizioni pietre sonore Marcellino Garau

scene, luci, costumi Alessandro Serra

produzione Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona

con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna

Premio Miglior Spettacolo UBU 2017,  Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro)

FDTC-23 DICKINSON’S WALK

“Muovo passi meccanici su una strada senza fili” questo è il leitmotiv che accompagna la passeggiata di chi assiste a The Dickinson’ s walk. Un leitmotiv scelto sia per dare un po’ di respiro alla poesia ma anche perché è la perfetta descrizione della performance. Sulla carta lo spettacolo appare semplice, non serve altro che un’ attrice, un paio di auricolari e una leggera propensione alla passeggiata. Ma queste cose per fortuna non restano su carta e la semplice promenade alla quale lo spettatore attivo si presta perde subito la sua fisicità per diventare una passeggiata interiore. Sono certa che a qualcuno sia capitato di perdersi per le strade della sua città e dei suoi pensieri lasciandosi guidare dalla musica nelle orecchie, ma in questo caso non è la musica a muovere i nostri passi bensì la poesia. L’ accesso al nostro io interiore viene aperto dalla voce di Roberta Bosetti che ti entra letteralmente in testa con il semplice escamotage di un paio di cuffiette. La seguiamo sulle strade di una città che pensavamo di conoscere ma che forse, per fretta, disattenzione o solo per abitudine, non abbiamo mai visto davvero. Rassicurante come la voce della mamma, ci guida nel paradosso del fuori attraverso le poesie di Emily Dickinson che descrivono un mondo intero al quale lei, rinchiusa nella sua stanza, ha avuto accesso solo con l’immaginazione.
È una solitudine condivisa che parte dal soggettivo per arrivare all’universale, ogni spettatore vive la scenografia della città cucendoĺa sulle proprie misure, cogliendo sulla propria pelle gli appuntamenti musicali accidentali, il suono di un clacson o la risata in un bar, condividendo la sua singola esperienza con altre venti persone che, stimolate dalle poesie, creano il loro spettacolo generandone un altro per chi lo incontra inconsapevolmente anche solo passando per strada. Continuando a camminare attraverso un paesaggio che ha perso il nome proprio per assumere a pieno titolo il nome comune e condiviso di Città, la compagnia Cuocolo/Bosetti apre le porte di casa e ci permette di entrare in una stanza che potrebbe essere di ognuno di noi, anche della Dickinson, perché è l’esplicitazione fisica di quel salottino privato che risiede in ognuno, che ha la sicurezza e l’accoglienza di una casa che però non ha pareti, ha solo una finestra dalla quale immaginare il mondo.