Vita per non morire, morte per continuare a vivere
Jurij Ferrini chiude il cartellone del Teatro Gobetti con la sua ultima regia, Il Panico, di Rafael Spregelburd, in scena fino al 9 giugno.
Continua la lettura di IL PANICO – JURIJ FERRINIJurij Ferrini chiude il cartellone del Teatro Gobetti con la sua ultima regia, Il Panico, di Rafael Spregelburd, in scena fino al 9 giugno.
Continua la lettura di IL PANICO – JURIJ FERRINILo scorso 4 giugno, presso il Teatro Gobetti, si è tenuta la conferenza stampa della stagione 2024/2025 del Teatro Stabile di Torino, dal titolo “Atto Unico”. Un anno di festeggiamenti, giacché ricorrono i 70 anni del Teatro Stabile di Torino e i 50 anni del Centro Studi. Settant’anni come settanta sono gli spettacoli che verranno messi in scena, come sottolinea il direttore, Filippo Fonsatti.
Continua la lettura di CONFERENZA STAMPA TEATRO STABILE DI TORINO – ATTO UNICO<< Dì la verità ma dilla obliqua>> così si apre la presentazione del 16 maggio del Festival delle Colline Torinesi, giunto alla sua 29 edizione, con una mostra alla Fondazione Merz, dal riflesso apollineo, una pala sacra situata in un luogo che sembra essere una chiesa, panchine vuote, candele bruciate ormai spente e dentro la pala lapidi distrutte, epigrafi con nomi, volti e foto differenti. Luci e ombre nuovamente si incontrano e si scontrano per restituire una visione, quanto più realistica e profonda del mondo di oggi. Numerosi gli ospiti invitati all’evento, quali la stessa Beatrice Merz presidentessa della Fondazione omonima che da anni collabora con il Festival delle Colline, Matteo Negrin direttore della Fondazione Piemonte dal Vivo, Filippo Fonsatti direttore del Teatro Stabile di Torino e ancora Andrea De Rosa direttore artistico del Teatro Astra e ultima ma non per importanza Grazia Paganelli responsabile Area Cinema Museo Nazionale del Cinema e così tante altre figure in rappresentanza del Ministero della Cultura, della Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT e Circolo dei Lettori, Teatro DAMS, Mediateca Rai e altro ancora. La collaborazione sembra essere quindi la parola chiave del Festival delle Colline, nato nel 1996 da un’idea di Sergio Ariotti, direttore artistico del Festival e Isabella Lagattolla, direttore amministrativo. Coppia nel lavoro e nella vita, la loro sintonia è palpabile in ogni stagione, la visione contemporanea e attuale che vogliono trasmettere è fuori dagli schemi, un nuovo modo di portare il teatro nel mondo torinese e non solo. Confini e sconfinamenti è il tema di quest’anno, riproposto pensando al successo dell’anno precedente e rafforzato dalle quotidiane dinamiche odierne, che ci rendono spettatori di guerre, dolori, sofferenze e tanta dispersione. I confini sono quelli del tempo, delle nazioni, delle proprie radici ma anche quelli della memoria e dei ricordi. La 29 edizione abbraccia senza timore il passato, il presente ed il futuro rappresentandolo in ben 52 recite in 28 giorni. Una full immersion colma di significato, storie ed identità alla quale, sono sicura non mancherà l’effetto sorpresa. Numerosi sono gli eventi connessi alla programmazione teatrale che come un grappolo d’uva, accoglie i propri spettacoli in numerose sedi differenti tra cui la Fondazione Merz, il Teatro Astra, Lavanderia a Vapore e le Fonderie Limone. Partecipare al Festival delle Colline come spettatore permette di viaggiare per il mondo stando seduti su una poltrona. Un festival internazionale con la missione di far incontrare le diverse culture, di farle intrecciare, di creare una nuova e più positiva, consapevole e profonda visione del Diverso. Il pubblico è un nuovo cittadino, un cosmopolita teatrale. Non ci resta quindi che la trepidante attesa del 12 ottobre per immergerci completamente nella proposta artistica di Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla.
Rossella Cutaia
Avete mai provato a far dei passi all’interno di una mente umana? No? Ebbene, al Teatro Astra con Cassandra è possibile farlo.
Dietro le quinte sono allestite le tribune, le nostre tribune, quelle del popolo troiano. Il pubblico diventa parte integrante dello spettacolo e della sua scenografia, luci e suoni ci portano in un ambiente onirico, attraversato da voci flebili ed emozioni strazianti. Due porte, il rituale della soglia è iniziato, aspettiamo la nostra principessa troiana, Cassandra. La sua ombra appare tutto d’un tratto, quasi impercettibile nel buio più cupo nel quale agisce; poi una luce, parla, stravolta e travolta dalla rabbia, legata ad un passato di tormento, incarnato perfettamente nelle corde elastiche che fisicamente la trattengono. Un’ingiustizia, quella perpetrata dal potere che tutto porta con sé e rade al suolo, lasciandosi alle spalle solo macerie dello stesso peso dei ricordi, quando essi divengono macigni, su un cuore che ha lottato troppo a lungo. Lo spettacolo appare di una struttura solida, visibile e percettibile lì dove la vista non arriva: ogni scelta, dalla scenografia ai suoni e alle luci, risulta minuziosa e precisa. L’impressione è che ogni cosa sia esattamente come dovrebbe essere, la percezione è che ogni cosa sia al posto giusto. Luci rosse, l’inferno, un incontrollato super-io, quello di Cassandra, che prende il sopravvento, che agisce senza chiedere il permesso. Un velo rosso, pietoso, che dalla sua anima si estende fino alle tribune, rendendo noi pubblico, ormai diventato solo un’ombra, la perfetta incarnazione di un popolo fantasma. Luci bianche, la principessa troiana torna al suo antico splendore, rendendo limpide, agli occhi dei troiani, le cicatrici di cui è coperta la sua più puerile e pura coscienza, segnata per sempre da profondissime ferite. Luci blu, sfondo della consapevolezza, un sentimento maturo di chi accetta il dolore senza mai smettere di combatterlo, l’arma è la memoria, una memoria eterna come Troia. Riecheggia, ad un certo punto, l’eco di un sussurro, un mito antico, quello di Eco, ninfa punita da Era, un’altra donna condannata per aver scelto in virtù di sé stessa che ora presta la sua voce a Cassandra, rendendo la sua condanna un potere. Potente è il contrasto tra i ricordi, le emozioni, la coscienza, un percorso che esplora e racconta la vita anche di altre donne, il quale destino non è stato determinato da loro stesse ma da altri sopra di loro, quali Elena di Troia, Polissene e così implicitamente anche altre. Un monologo, quello di Cecilia Lupoli, durato 60 minuti, che narra però di una vita intera, di più vite anzi, di un loop di ingiustizie dove la vera condanna è l’essere impotenti. La dizione è perfetta, la potenza vocale è penetrante, la forza e la fatica fisica richiesta dalla performance esprimono perfettamente e coerentemente la forza e la fatica di una morale di giustizia che vuole affermarsi. Qual è il vero potere? Scegliere, decidere tra un si e un no, prendere una posizione e difenderla fino alla fine << Il mio ruolo è dire NO>> , così trova la pace Cassandra e liberandosi di ciò che la trattiene, attraversa la seconda soglia in una bianca e splendente luce divina.
Rossella Cutaia
Crediti
di Christa Wolf
regia Carlo Cerciello
scene Andrea Iacopino
costumi Anna Verde
musiche Paolo Coletta
luci Cesare Accetta
consulenza movimenti Dario La Ferla
trucco Vincenzo Cucchiara
acconciatura Team Leo
aiuto regia Aniello Maraldo
foto di scena Guglielmo Verrienti
assistente alla regia Mariachiara Falcone
produzione Teatro Elicantropo, Elledieffe, TPE- Teatro Piemonte Europa
Nel 2018 Roberta Calia, Luigi Orfeo e Stefano Sartore danno vita a Casa Fools. In questo spazio teatrale la compagnia indaga sulla società odierna, con l’obiettivo di incoraggiare lo scambio e il confronto tra artisti e pubblico.
La prevaricazione nel patriarcato, questione al centro del dibattito contemporaneo, è il tema focale affrontato in Pene, sofferenze del mondo contemporaneo.
Con un gioco di parole viene esposta una provocazione: un comune denominatore delle pene del mondo è il pene. Come una dimostrazione scientifica la rappresentazione procede nel mettere in scena cinque modelli di esseri umani maschilisti, prove empiriche volte ad attestare la tesi proposta.
Stefano Sartore apre e chiude lo spettacolo completamente nudo, pienamente consapevole di appartenere anch’egli alla cerchia degli esemplari equipaggiati di pene.
In un’atmosfera di ironia grottesca, accompagnato da motivi lirici e cabarettistici, l’artista cambia d’abito per transitare da un personaggio all’altro e farsi interprete di cinque monologhi differenti che ci lasciano un sorriso dal gusto amaro in bocca.
Un anziano pater familias dalla mentalità chiusa ci parla dell’importanza dei ruoli nella società. Un ragazzo romano cerca di giustificare un omicidio da lui commesso tra un commento razzista e l’altro. Un papà possessivo manifesta cattiveria vendicativa verso la moglie nutrendo un amore morboso nei confronti della figlia. Un vecchietto piemontese agghindato da donna rivela di essere un vero cultore del genere maschile. Un vicino rancoroso mostra come da una futile discussione tra due individui si possa arrivare a insensate guerre tra interi popoli.
“La drammaturgia nasce per un bando pro LGBTQ+, ma io non so scrivere niente ‘pro qualcosa’, io so scrivere solo contro”, dichiara Luigi Orfeo nel presentare il progetto nel pomeriggio del 21 aprile. Il regista e drammaturgo decide infatti di ragionare con gli spettatori dando voce agli additati oppressori e non alle vittime, proponendo il punto di vista di cinque uomini.
L’influenza del mondo e della società in cui sono cresciuti questi personaggi li porta a esprimere atteggiamenti che sarebbero attribuibili anche a donne.
Ragionare con il pene è un modo di pensare, non dipende dal sesso, è un’attitudine alla vita; siamo tutte e tutti possibili ‘portatori di pene’.
Mettere in scena anche delle figure femminili avrebbe forse aiutato a veicolare più chiaramente che il messaggio di accusa non è indirizzato esclusivamente al genere maschile, ma più ampiamente a un certo tipo di mentalità.
Un amabile attore versatile e una regia colorata ed efficace terminano lo spettacolo con un’ultima immagine provocatoria.
Ariel Ciravegna Thedy
Drammaturgia Luigi Orfeo
Regia Roberta Calia e Luigi Orfeo
Con Stefano Sartore
Scene e Costumi Augusta Tibaldeschi
Produzione Fools
Medea: una tragedia classica di Euripide molto nota per chi ha avuto occasione di confrontarsi con i testi classici. In questa rappresentazione alle Fonderie Limone la figura tanto ambivalente della protagonista mostra al pubblico la propria disperazione e sofferenza in un momento di introspezione accentuato dalla scelta scenografica del regista Leonardo Lidi: una stanza vuota con dei vetri in plexiglas che separa il pubblico dall’azione e permette di concentrarsi sulle emozioni provate dai personaggi.
Veri protagonisti di questa tragedia sono le donne oggetto di persecuzione per la loro disperazione, origine, conoscenze e capacità, oppure vittime della situazione perché usate per l’acquisizione di potere. Situazione purtroppo ancora attuale per le donne di oggi che se istruite o con idee critiche scomode vengono emarginate o prese poco sul serio. Lo spettacolo vuole farsi emblema della lotta femminile che dai tempi della classicità non è cambiata molto nella sua sostanza. Ma senza cadere in discorsi già più che affrontati e ripetuti, un’altra tematica molto importante è quella della patria, e quindi della donna migrante. Oggi è ben noto il problema dei profughi di guerra che vogliono giungere in Europa nella speranza di trovare condizioni di vita migliori. Molto spesso questo non accade, anzi chi scappa si ritrova come Medea senza una patria che le/li protegga e viene poi spesso irretito dalla criminalità. E se già per gli uomini sembra difficile adattarsi, per le donne la sfida è ancora maggiore.
Nonostante questa interpretazione moderna, nella rappresentazione non viene meno l’ambiguità del personaggio principale, per cui se da un lato il pubblico è portato a empatizzare per la sua condizione dall’altro inorridisce ai suoi intenti omicidi e atteggiamento che sfiora per molti aspetti la pazzia, grazie alla recitazione di Orietta Notari. Per quanto la tentazione di un’interpretazione in chiave femminista del mito sia forte, non bisogna dimenticare la vera motivazione che ha portato alle uccisioni nella tragedia. Medea uccide per vendetta nei confronti del marito con raccapricciante premeditazione. La sua è una vendetta egoistica dettata dall’orgoglio per un oltraggio subito: uccide la nuova moglie e i figli per privare il marito Giasone della sua progenie e quindi della sua dignità maschile.
Medea è giustificabile? Si tratta di un dilemma irrisolvibile, per cui è impossibile vederla riduttivamente come personaggio positivo o negativo. L’interpretazione dichiaratamente femminista su cui si incentra lo spettacolo non è sufficiente a giustificarne il gesto e sarebbe piuttosto riduttiva vista la complessità del personaggio. Ma allo stesso tempo, un’interpretazione apertamente femminista è necessaria in un momento storico come quello attuale in cui le donne, come ampiamente discusso in diversi ambiti anche fuori da quello teatrale, sono penalizzate su più fronti.
Colgo l’occasione per citare parole della stessa Medea che potrebbe pronunciare qualsasi donna oggi per le ragioni più diverse: “Soffro, lo capite che soffro?”.
Linda Steur
Da Euripide
Traduzione Umberto Albini
Regia Leonardo Lidi
Dramaturg Riccardo Baudino
Con Orietta Notari, Nicola Pannelli, Valentina Picello, Lorenzo Bartoli, Alfonso De Vreese, Marta Malvestiti
Scene e luci Nicolas Bovey
Costumi Aurora Damanti
Suono Giacomo Agnifili
Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale
Sin da bambina mi hanno sempre affascinato le persone che avessero la capacità di raccontare storie, quelli che durante le cene di famiglia hanno sempre qualcosa di assurdo e straordinario di cui parlare: il migliore in questo era mio nonno che aveva una storia per ogni occasione.
Edoardo Leo comincia così il suo spettacolo Ti racconto una storia, ospitato al Teatro Colosseo il 27-28 marzo, raccontando del suo, di nonno: un uomo umile, con una vita semplice ma piena di avventure da narrare. L’attore ci tiene però a sottolineare il fatto che ciascuna delle vicende che aveva sentito dal nonno era, ovviamente, romanzata perché ogni storia è una sceneggiatura, o meglio, come sosteneva Marquez: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla“.
L’attore, accompagnato dalla chitarra di Jonis Bascir, si fa cantastorie esponendo le diverse tipologie di racconto: quello orale, l’aneddoto, la barzelletta fino a quello scritto. Edoardo Leo è straordinariamente brillante: riesce a coinvolgere i presenti per quasi due ore di spettacolo, tra momenti di risata e di riflessione, tra parole di divertimento e parole introspettive che ti scavano dentro. Indimenticabile è stata la parentesi fatta sulla Giornata Mondiale del Teatro. Leo ci tiene a portare sul palco un suo timore ovvero che coloro che studiano o lavorano nell’ambito artistico si sentano superflui in un periodo come quello che stiamo vivendo. Porta come esempio i Beatles che, a soli ventidue anni, cambiarono il corso della storia rifiutandosi di esibirsi in un concerto davanti ad un pubblico composto di soli bianchi. Dopo cinque giorni la band inglese riuscì nell’impresa di suonare di fronte a ragazzi e ragazze non segregati. Il concerto, tenutosi in Florida nel settembre del ‘64, fu il primo per Kitty Oliver. La ragazza afroamericana di 15 anni ricorda come si sentì, per la prima volta , riuscendo a sfiorare il braccio di una sua coetanea bianca. L’emozione provata, fortissima, per essersi finalmente sentita parte di un gruppo.
La musica, il teatro, la poesia … l’arte ci aiutano a sentirci meno soli. Nel momento in cui vediamo uno spettacolo, ascoltiamo una canzone e pensiamo “sta parlando di me”, quando un’artista riesce a trovare le parole per descrivere un’emozione che pensavamo fosse indescrivibile, esse diventano l’appiglio a cui aggrapparsi per uscire dalla solitudine che ci circonda. Per queste ragioni Edoardo Leo è convinto che scrivere, narrare, raccontare storie sia la cosa più bella al mondo. Decide così di chiudere il sipario dopo aver pronunciato queste ultime parole:
Io mi chiamo Edoardo Leo e di mestiere racconto storie, ed è la cosa più bella che potesse capitarmi.
Sofia De March
Regia: Edoardo Leo
Protagonista: Edoardo Leo
Musiche: Jonis Bascir
Produzione: Francioni Produzioni
Pratica bizzarra l’arte teatrale. Beffarda fin dall’etimo, che rimanda al vedere. Vedere che cosa? la presenza di un corpo che si dà e l’attimo dopo si nega alla vista.
Occuparsi di teatro vuol dire avere dimestichezza con l’assenza. Si tratta di un corteggiamento che non trova sfogo: l’oggetto d’amore è scomparso l’attimo dopo a quello in cui si è mostrato.
La cosa più bella che ci è sembrata da fare per celebrare il teatro oggi, in questa sua giornata internazionale, è provare, brevemente, a fare insieme a voi, questo gioco: tentare di inseguire, per pochi istanti, l’immagine di Eleonora Duse, nel centenario della sua morte.
Lo facciamo con i due testimonianze di spettatori dell’epoca.
“Si direbbe che quelle sue braccia lunghissime siano le ali della sua intelligenza, destinate a portare ogni spettatore il significato di ciò che dice. Mi dicono che la sera, la parte di lei più stanca sono le mani, e che, prima d’andare a letto, se le leva e le chiude in un astuccio di velluto. C’è chi sostiene che quelle mani sono artificiali, perché, vere, non potrebbero reggere a tanto lavoro. Non credo che stia in questo il verismo. Però essa ha il fascino, un fascino inesplicabile che tutti sentiamo dinnanzi alla grande incantatrice, si direbbe che ella porti con sé un talismano pel quale costringe all’ammirazione di sé i più restii, i più dubbiosi, i più timorosi di darsi a certi entusiasmi” (Giulio Piccinni, 1893)
“Finisco la lettera dopo lo spettacolo; dal momento in cui ho scritto le ultime parole a ora sono passate soltanto dodici ore, eppure mi sembra di aver vissuto un anno. Non sono capace di raccontarti l’impressione che ha prodotto su di me la recitazione della Duse. Provavo una angoscia che mi stringeva il cuore, avevo voglia di piangere […]. Chi può spiegare l’impressione che producono i suoi occhi meravigliosi, pieni di lacrime? Non è bella, ma di fronte al suo sorriso, al suono della sua voce divina, Romeo avrebbe dimenticato Giulietta e Otello la sua gelosia. Getta la testa all’indietro a parla del proprio amore con una passione così ardente, le sue carezze sono così intense, che senti il sangue affluirti al cuore. Quando poi si presenta al pubblico, dopo momenti simili, chiamata da applausi frenetici, il suo viso esprime sofferenza, e lei sussurra parole, chinando la testa. Nessuno che abbia una minima sensibilità può uscire dal teatro senza essere innamorato di questa donna, e senza provare un senso di vaga, pungente angoscia. Ti dico, è una cosa terribile”
(Lettera privata citata in un articolo di Sergio Kara-Murza del 1932)
Coinvolgente, appassionante, struggente, queste sono le parole che vestono perfettamente la pièce teatrale La ragazza sul divano, nata dalla penna del premio Nobel Jon Fosse e portata in teatro da Valerio Binasco. La scenografia è stata sapientemente studiata e disposta in modo da trasportarci, con gli stessi personaggi, nella quotidianità di una donna sola, colma di rimpianti e di rimorsi. Uno spettacolo per questo che permette allo spettatore di muoversi con uno sguardo, nella sottile linea del tempo, tra passato e presente. Il dolore, la paura, la solitudine, sentimenti forti e imponenti, i quali governano la scena senza timore alcuno, risuonando in ogni battuta e in ogni gesto. Il gesto teatrale accompagna perfettamente la drammaturgia, le scene che si susseguono mi appaiono dinamiche e connesse: sono rimasta catturata e assorta da un immenso dolore che ho in qualche modo compreso e che avrei, senza dubbio, voluto consolare. Si tocca la sensibilità dello spettatore, si instaura in esso un’importante consapevolezza, quella che ci permette di prendere atto che tutto passi, la gioventù, gli amori, perfino i legami più forti, tutto finisce e tutto ricomincia, in un circolo continuo, quello della vita, che in questo spettacolo ha le sonorità di You don’t own me di Lesley Gore:
You don’t own me
Don’t try to change me in any way
You don’t own me
Don’t tie me down ‘cause I’d never stay
I don’t tell you what to say
I don’t tell you what to do
So just let me be myself
That’s all I ask of you
I’m young and I love to be young
I’m free and I love to be free
To live my life the way I want
To say and do whatever I please
Il grido di una libertà perduta, storie di scelte sbagliate e anime ingombranti, la storia di una ragazza che tutta la vita ha passato “seduta sul divano”, senza essere capace di reagire alle difficoltà, la cui unica consolazione diventa la pittura dei suoi quadri: “se non stai attenta, si prendono tutto lo spazio, non perché siano belli o brutti ma perchè sono quadri”, tele macchiate di colori che colano come sangue dalle ferite, colori che escono dal loro confine incontrollati, senza senso, come la vita di questa donna a cui non è rimasto NIENTE. Niente è una delle parole chiave di questa pièce teatrale, cos’è il “niente”, cosa significa, perchè niente? Forse si riferisce ad un’anima persa che non sa più come ritrovarsi e che non ha più nessuno che possa aiutarla a farlo. “Tu non mi possiedi” dice la canzone “sono giovane e amo essere giovane, sono libera e amo essere libera, lasciami vivere come voglio”, parole che vibrano nel cuore dello spettatore con la stessa intensità che la voce dell’attrice principale, Pamela Villoresi, esprime nel suo urlo di disperazione finale. Una donna abbandonata e che abbandona, una donna a cui è rimasto un padre la quale unica costanza è stata l’assenza nella sua infanzia, una figura paterna ormai anziana e sola a cui lei stessa si appoggia, in quanto figlia, che seppur adulta, possiede ancora l’ingenua anima di una bambina, la cui innocenza si riflette nel bisogno di cura, nella ricerca di attenzione, nella volontà di riparare la propria anima rotta, ricominciando da capo, dal suo primo e significativo abbandono, quello del papà. La trasgressione che incoraggia la colonna sonora viene incarnata perfettamente dalla sorella della protagonista, la sua libertà si traduce nella nudità scenica, una nudità ricercata, necessaria? Forse no, ma la mancanza di senso, talvolta, regala attimi di normalità. Tanti sono infatti i momenti imbarazzanti interpretati nelle scene, tanto imbarazzanti da essere realistici, attimi che si sono colorati di uno humor sottile e familiare. Le interpretazioni degli attori evidenziano una coerenza tra un personaggio e l’altro, il file rouge della trama è scorrevole e seppur complesso nella costruzione, di facile comprensione, chiaro ed impattante. Un vinile su un vecchio giradischi suona, sopra di esso un piccolo vasetto con un fiore: scena finale, un’immagine delicata che esprime l’essenza di questo dramma musicale. L’armonia della vita è stata perfettamente rappresentata da un’armonica successione degli eventi, spingendo gli spettatori a riflettere sul proprio passato, sul proprio presente, sulle proprie scelte e soprattutto sul significato del “Niente”.
Rossella Cutaia