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EMILY: LA POESIA DELLA SOLITUDINE

Durante la 22^ edizione del Festival delle Colline Torinesi, è andato in scena al Teatro Astra lo spettacolo Emily di e con Milena Costanzo.

Cercando di ricreare la vita della poetessa statunitense Emily Dickinson, vengono rappresentati i turbamenti di ogni adolescente: non voler uscire di casa, non voler mangiare, fare le pulizie. Semplicemente, non voler crescere, voler rimanere bloccati in una giovinezza immortale ed eterea. Un testo a tratti commovente, divertente, inquietante che, anche se a volte sembra essere poco omogeneo, porta lo spettatore a riflettere su quali siano i doveri di ogni figlio nei confronti della famiglia, quelli della famiglia verso ogni componente di essa, e quali i doveri di ogni cittadino verso la società. Perché in fondo Emily vive in solitudine perché non si sente capita, ma nasconde una grande voglia di amare, e la sua solitudine è un po’ la solitudine che è in tutti noi. Nonostante questo, nonostante i suoi problemi, viene ripudiata dalla famiglia e considerata pazza: è vietato pronunciare il suo nome e ogni domanda su di lei viene aggirata con chiacchiere futili dalla madre e la sorella.

Emily ci mostra come uno spettacolo possa colpire anche senza l’ausilio di troppi oggetti scenografici e come l’uso intelligente delle luci e della musica possa elaborare soluzioni interessanti: fondale nero, un tavolo, tre sedie e tre lampadari usati a seconda delle esigenze. La musica, che sembra non coincidere quasi mai con la drammaticità dei momenti rappresentati, aiuta invece ad aumentare il pathos, a tenere alta l’attenzione degli spettatori e a creare, all’occorrenza, momenti divertenti, anche grazie all’abilità degli attori.

Uno spettacolo che unisce la ricostruzione della vita e delle sofferenze di una delle più sensibili poetesse vissute al ragionamento sui demoni di una società che tende a nascondere chi soffre.

Alice Del Mutolo

di Milena Costanzo
regia Milena Costanzo

con Milena Costanzo
e con Alessandra DeSantis, Rassana Gay, Alessandro Mor
assistente alla regia Chiara Senesi
costumi Elena Rossi
oggetti di scena OkkO Parma
organizzazione Antonella Miggiano

produzione Fattore K
con il sostegno di Danae Festival, Olinda

 

ELEPHANT WOMAN: LA PISTOLA DELLA FOLLIA

Un altro spettacolo del ricco programma del Festival delle Colline Torinesi 2017:  Elephant Woman, di Andrea Gattinoni con Silvia Lorenzo, in scena al Teatro Gobetti.

La scena è completamente vuota: quinte e fondale neri e una luce fissa. Nel buio sentiamo  un rumore di tacchi a spillo, poi  entra una donna con un rossetto rosso, seminuda, che inizia a parlare di sé, Topazio, e della sua amante, B. Dopo pochi minuti ci da le spalle ma,  girandosi di nuovo,  ci punta addosso una pistola: proprio questo oggetto  sarà il punto di tensione di tutto lo spettacolo, perché il pubblico non riuscirà mai a staccare gli occhi dall’arma e, proprio per la sua presenza, non abbasserà mai l’attenzione nemmeno per un secondo.

Topazio è una giovane donna che decide di abbandonare famiglia, lavoro e amicizie per vivere ai margini della legalità e per dare sfogo a ogni  pulsione. Il racconto procede con l’attrice sempre al centro della scena. Si muove lentamente e,  nonostante sia sola, non fa mai sembrare vuoto il palcoscenico. Ci cattura  con la mimica e con il corpo, con la voce suadente e con i racconti della sua vita: una vita di dolore, di abusi, di solitudine e di insicurezza.

Per tutto lo spettacolo abbiamo l’impressione di trovarci all’interno della mente un po’ malata di Topazio: i suoi racconti provengono dal buio, da un incubo, e non saremo mai sicuri della veridicità delle sue parole. Ma non è questo l’importante, non è necessario sapere se siano tutte bugie o se sia un sogno. Il testo, infatti, vuole farci riflettere sul doloroso destino di alcune donne maltrattate e poi abbandonate a loro stesse. Questo non può far altro che creare esseri umani che non distinguono più la realtà dalla finzione e finiscono per relegarsi ai margini della società.

Il perno emozionale dello spettacolo è la lettura di una lettera alla madre, che non ha mai aiutato la figlia abusata dal padre: la disperazione, il dolore e la follia che ne deriva si scatenano  come una tempesta,  amplificata dall’uso di un microfono panoramico.

L’attrice Silvia Lorenzo è stata in grado di tenere alta l’attenzione degli spettatori  per un’ora di monologo. Alla drammaticità dei racconti si sovrappongono momenti comici in cui l’attrice ripete a memoria definizioni tecniche della lingua italiana o astronomiche come se fosse una voce automatica, esterna al personaggio.

Un colpo di pistola sottolinea il termine dello spettacolo, facendo domandare a tutti gli spettatori se Topazio si sia uccisa, se abbia ucciso qualcuno, o se sia mai esistita.

Alice Del Mutolo

di Andrea Gattinoni
regia 
Andrea Gattinoni

con Silvia Lorenzo

produzione Teatro Filodrammatici, Festival delle Colline Torinesi

 

Il Cielo non è un fondale – FDCT

Soli come nei sogni, così si apre Il cielo non è un fondale, che inizia proprio da un sogno, a sua volta generato da una canzone dall’omonimo titolo. In questo modo spontaneo e naturale inizia il lavoro dell’attore: sognare ad occhi aperti e lasciarsi trasportare dagli eventi. Un sogno che piano piano diventa collettivo, collocato in una scenografia scarna, dove l’unico elemento è un termosifone bianco, posto a lato della scena. In questa situazione onirica Antonio ci racconta di aver sognato Daria nei panni di una barbona e, pur avendola riconosciuta, l’ha ignorata. Da questo sogno si instaurano a catena tanti racconti sconnessi  ma legati da qualche particolare che permette il passaggio da una storia all’altra. Gli attori si interrompono nei loro racconti e tra una pausa e l’altra riprendono parola, tutto apparentemente sconnesso ma con un senso come all’interno di un sogno. Continua la lettura di Il Cielo non è un fondale – FDCT

XXII Festival delle Colline Torinesi , Conferenza Stampa

Mercoledì 19 aprile presso il Goethe-Institut ha avuto luogo la conferenza stampa di presentazione della XXII edizione del Festival delle Colline Torinesi, un appuntamento da non perdere dedicato alla creazione teatrale contemporanea. Dialogano sull’argomento: Jessica Kraatz Magri, direttrice dell’Istituto Culturale della Repubblica Federale di Germania, Sergio Ariotti, direttore del Festival, Antonella Parigi, assessore della regione e Barbara Graffino (Compagnia di San Paolo).

Qui si racconta e si anticipa un’edizione tutta dedicata alla donna, che porta alla ribalta moltissime autrici (come Sasha Marianna Salzmann, Mirjana Bobic Mojsilovic, Milena Costanzo..), registe (tra le quali Paola Rota, Daniela Nicolò, Fiona Sansone, Chiara Guidi..) nonché interpreti e performer di altissima qualità. E, come se non bastasse, di una donna è anche il segno d’artista del Festival 2017: parliamo di Marisa Mertz, artista italiana di altissimo talento, per di più unica rappresentante femminile della corrente dell’Arte Povera. Ventisette sono le compagnie che presentano i loro lavori, alcuni dei quali sono in prima assoluta (altri in prima nazionale o quantomeno regionale), con nomi di spicco della creazione contemporanea. Diciannove i giorni a disposizione (4/22 giugno).
Italia, Germania, Grecia, Serbia, Somalia e Libano sono invece i Paesi ospiti da cui provengono gli spettacoli internazionali.
Segio Ariotti ha guidato i presenti nella lettura del programma, attraverso un breve ma efficace focus sugli spettacoli, raggruppabili per famiglie tematiche. Delle ventisette rappresentazioni complessive, sei presentano al centro dell’attenzione poetesse e letterate. Tra queste vanno ricordate: Lettere della notte, che vede l’incontro tra Chiara Guidi e Nelly Sachs, scrittrice e poetessa tedesca di origine ebraica, Premio Nobel 1966; L’amica geniale, che prende spunto dal notissimo ciclo di romanzi dell’autrice senza volto Elena Ferrante; Il cielo non è un fondale, un atto drammatico apparentemente “senza trama e senza finale” che prova a restituirci i continui spostamenti di senso tra quello che noi siamo e quello che ci succede intorno; Emily di e con Milena Costanzo, seconda parte del progetto su Sexton, Dickinson e Weil; Amelia la strega che ammalia and friends (dove Amelia è Amelia Rosselli) di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Corale numero uno, di e con Elena Bucci, che racconta di una singolare e sventurata eroina zingara, Bronislawa Wajs (nome d’arte Papusza), poetessa anch’essa, liberamente tratto dal testo Sputa tre volte di Davide Reviati, uno dei più interessanti autori di graphic novel internazionale.
Hanno invece a che fare con l’identità di genere, tema principe dell’edizione passata, dal quale il festival non sembra essersi ancora liberato del tutto –continua a spiegare il direttore- , lo spettacolo dei Motus, che ritornano a furor di popolo con Raffiche, reinvenzione di una pièce minore di Jean Genet, in una versione provocatoriamente al femminile; Pedigree, messa in scena di un testo inedito, firmato da Valeria Raimondi e Enrico Castellani, dedicato alle famiglie arcobaleno; 50 Grades of Shame, lo spettacolo del collettivo femminile tedesco She She Pop, appuntamento clou del cartellone 2017; Masculu e Fiammina di e con Saverio La Ruina, che interpreta un uomo che racconta se stesso e la propria identità sessuale davanti alla tomba della madre, e infine un performer greco, Euripides Laskaridis, il quale con Titans, nome dello spettacolo, propone le sue trasformazioni, cercando di comprendere perché facciamo ciò che facciamo e di cosa abbiamo realmente bisogno.
Un altro gruppo di titoli combina teatro e musica. Allora nominiamo: Abebech-Fiore che sboccia fiore che sboccia, spettacolo di Saba Anglana, cantante italo-somala, dedicato al sacro nella cultura d’Etiopia, con un personaggio meraviglioso di nonna sullo sfondo; Personale Politico Pentothal che vede in scena Marta Dalla Via, accompagnata dal vivo da cinque rapper; The black’s tales tour di Licia Lanera, al dancing neo-liberty Le Roi Music Hall, la cui architettura, particolare e suggestiva venne progettata nel ’59 dal famosissimo architetto Carlo Mollino.
Infine l’ultima famiglia tematica, che raccoglie tra gli spettacoli del cartellone quelli che presentano interessanti legami con il cinema. Tra questi: Roberta va sulla luna, Ifigenia in Cardiff, con le regia di Valter Malosti, Pixelated Revolution, So little time, Elephant woman, Zoo(m)out, ed infine il lavoro dei fratelli De Serio, Stanze/Qolalka, pronto ad anticipare il nuovo triennio dedicato alle diaspore. Un altro percorso che si completa al Festival è quello di Elvira Frosini e Daniele Timpano. I due presentano Acqua di colonia che affronta il tema del colonialismo italiano. Da non dimenticare, ovviamente, i molti giovani artisti, in relazione ai quali menzioniamo: Diario di una casalinga serba, tratto dal romanzo omonimo di Mirjana Bobic Mojsilovic, L’inquilino, Human animal, Educazione sentimentale. Un cenno finale naturalmente va alla drammaturga prescelta: Sasha Marianna Salzmann, la quale porta in scena Lingua Madre Mameloschn, il cui spettacolo fa parte del progetto Fabulamundi.Playwriting Europe della Pav di Roma ed è coprodotto dallo Stabile di Genova.

Ma il festival non si riduce al cartellone. Al contrario, porta con sé interessanti appuntamenti, approfondimenti ed esposizioni, che arricchiscono e coronano l’appuntamento torinese. Prosegue il progetto “Mezz’ora con..” a cura di Laura Bevione, che consiste in incontri con gli artisti del Festival (e non solo), al quale si aggiungono “Un teatro pieno di interrogativi”, tre incontri per ricordare il Convegno di Ivrea, che nel giugno 1967 radunò alcuni protagonisti del cambiamento teatrale allora in atto e “Cinema in scena” in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, che prevede, come ogni anno, proiezioni abbinate agli spettacoli in cartellone. Non solo. Ritorna l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori.

Per concludere, e a voler sottolineare la forte transculturalità che permea il Festival e che quest’ultimo a sua volta effonde e restituisce, uso l’espressione inglese “last but not least”, per parlare della complicità necessaria e vitale dello spettatore, al quale si richiede, come ogni anno, curiosità e partecipazione. Per i più affamati e impazienti segnaliamo allora le due settimane speciali (20/4-3/5) durante le quali i biglietti possono essere comprati online a prezzi scontatissimi. In alternativa i punti vendita dal 20 aprile sono il Teatro Astra, Rivendite vivaticket, infopiemonte-Torinocultura, vendita serale (online: www.vivaticket.it).
Vi aspettiamo!

@Contatti (per info e abbonamenti):+3901119740291; +393462195112; +info@festivaldellecolline.it
@Luoghi: Le Roi Music Hall (Via Stradella 8), Scuola Holden (Piazza Borgo Dora 49), Polo del ‘900 (Corso Valdocco ang. Via del Carmine), Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Ristorante Marechiaro (Via San Francesco d’Assisi 21), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Teatro Marcidofilm!, Serming- Arsenale della Pace (piazza Borgo Dora 61), Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Le Petit Hotel.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

DONNE CHE SOGNARONO CAVALLI

” Mi interessa commuovere lo spettatore, non spiegargli delle cose”     – Daniel Veronese

Uno spettacolo complesso ma maledettamente semplice quello andato in scena alle Fonderie Limone, a conclusione  del Festival delle Colline Torinesi.  “Un successo di pubblico e un livello contenutistico altissimo raggiunti in questa edizione con l’augurio di migliorarci ancora per il prossimo anno”,  ha dichiarato  Sergio Ariotti. 

Una famiglia contemporanea ci racconta la Storia dei desaparecidos attraverso la propria storia fatta di intrecci, bugie e violenza.  “Ho voluto usare il micro per parlare del macro” spiega in una formula il regista Roberto Rustioni durante la “Mezz’ora con…”

E direi che ci è riuscito benissimo. Lo spettacolo è claustrofobico, un allestimento minimale che osserviamo con occhio cinematografico e che ci fa entrare a casa di una delle tre coppie

donne che sognarono cavalli 2protagoniste durante uno sfortunato pranzo di famiglia.

“Ho apprezzato molto la scenografia. Gli attori sono stati terribilmente credibili, mi son sentita coinvolta dalla storia grazie a loro. La disposizione del pubblico ha fatto accrescere la bellezza dello spettacolo a mio parere” leggo e condivido il pensiero di questa spettatrice da  http://www.tipstheater.com/donne-che-sognarono-cavalli

Attraverso Lucera, giovane figlia di desaparecidos che tenta dolorosamente di ricostruire il passato della sua famiglia raccontandosi al pubblico e rompendo la quarta parete, scopriamo le vite conflittuali dei tre fratelli con un’azienda di famiglia fallita sulle spalle, donne diversissime tra loro riunite in unico luogo – ideale e fisico- un pony morto e alcool e fumo a condire le tensioni crescenti.

Momenti di chiacchiere futili si mescolano a violenti liti , sembra non succedere niente, ma tutto è successo e tutto succederà, confessioni che sfuggono, verità nascoste, tradimenti velati, un bambino che sta per nascere.

I quadri non seguono un ordine cronologico, sta allo spettatore ricostruirlo e questo ci porta alla citazione iniziale dell’autore del testo. Il pubblico è coinvolto emotivamente e deve essere attivo e attento durante tutto il disperato tentativo di riconciliazione familiare.

Un occhiolino di una delle attrici prima dell’inizio dello spettacolo e la vicinanza estrema alla scena mi portano direttamente dentro quella casa dove una strage per mano di Lucera si consuma lentamente durante tutto lo spettacolo e improvvisamente nel quadro finale quando la ragazza stermina la sua famiglia…                                                                scusate, quella che doveva a tutti i costi essere la sua famiglia.

 

di Daniel Veronese
regia Roberto Rustioni

adattamento Roberto Rustioni
con Valeria Angelozzi, Maria Pilar Perez Aspa, Michela Atzeni, Paolo Faroni, Fabrizio Lombardo, Valentino Mannias
assistente alla regia Soraya Secci
scene e costumi Sabrina Cuccu
assistente scenografo Sergio Mancosu
luci Matteo Zanda
foto Alessandro Cani

co-produzione Fattore K – Sardegna Teatro – Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di Fondazione Olinda Teatro La Cucina

SOCRATE IL SOPRAVVISSUTO / come le foglie

“Davvero tanto su cui riflettere”: ecco quello che ho pensato appena terminata la lunga serie di applausi per gli attori/performer dello spettacolo Socrate il sopravvissuto/come le foglie in scena alle Fonderie Limone la sera del 20 giugno.

Un proiettile, una classe, un professore, uno schermo, una storia. O meglio, tante storie.

C’era l’impossibilità del professore di raccontare la storia dell’umanità ad una classe liceale. Di spalle e con l’aiuto del microfono il professore di storia e filosofia prova a spiegare il suo tormento: fingere, recitare una parte davanti ai suoi ragazzi. Loro si sciolgono, ad uno ad uno, tra la sedia e il banco, vittime consenzienti dell’inganno. Ne manca solo uno, sempre, ad ogni lezione, non è mai in scena. Un proiettile…

Ma abbiamo detto che c’era anche uno schermo e qui troviamo il parallelo con Socrate. Lui nella sua palestra (in video), il professore nella sua classe (in scena).  Storie che si intrecciano e si contaminano.

Un viaggio alla scoperta della figura dell’educatore, del suo potere e del suo dovere. Una profonda riflessione sul ruolo dell’insegnante e su quanto possa fare oggi un professore che non vuole limitarsi a terminare il programma annuale e far capire agli alunni che c’è molto di più di quanto vogliano far credere loro, ma si scontra con l’apatia, il sistema scolastico e se stesso.

E il proiettile?

Maggio, ottobre, giugno i momenti raccontati dal professore. Sembra non esserci via di fuga o soluzione. Ogni volta l’impossibilità di insegnare prevale. E allora i ragazzi si esibiscono, ora mettendo in scena la distruzione dei libri (completamente bagnati, accatastati malamente), ora mediante coreografie ritmate ed ossessive, fino ad un tentativo di dialogo e avvicinamento che ci porta alla  storia di Socrate e dell’allievo Alcibiade – il  momento di massima tensione, a mio parere. Un lungo confronto dialogico tra i due sull’esistenza umana, sulla crescita dell’individuo, sul sapere e sul potere.

Eppure, alla fine arriva il momento degli esami… e quello del proiettile. Quell’alunno sempre assente dalla classe del professore si presenta al suo esame orale e uccide tutti i suoi insegnanti, tranne uno.

Tanto su cui riflettere, appunto.

 

di Simone Derai e Patrizia Vercesi
regia Simone Derai

dal romanzo   Il Sopravvissuto di Antonio Scurati
con innesti liberamente ispirati a   Platone e a Cees Nooteboom
con   Marco Menegoni, Iohanna Benvegna, Marco Ciccullo, Matteo D’Amore, Piero Ramella, Francesca Scapinello, Margherita Sartor, Massimo Simonetto, Mariagioia Ubaldi
maschere   Silvia Bragagnolo e Simone Derai
costumi   Serena Bussolaro e Simone Derai
musiche e sound design   Mauro Martinuz

video Simone Derai e Giulio Favotto
con Domenico Santonicola (Socrate), Piero Ramella (Alcibiade), Francesco Berton, Marco Ciccullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro, Massimo Simonetto
riprese aeree Tommy Ilai e Camilla Marcon
concept ed editing Simone Derai e Giulio Favotto
direzione della fotografia e post produzione Giulio Favotto / Otium
regia Simone Derai

produzione Anagoor
co-produzione Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies

progetto realizzato con il sostegno del bando ORA! Linguaggio contemporanei produzioni innovative della Compagina di san Paolo

L’INSONNE: MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

Il tempo si lacera […] Le stagioni hanno perduto il loro significato. Domani, ieri, che vogliono dire queste parole? Non c’è che il presente […] Tutto ciò è adesso. Non è stato, non sarà. È. Sempre. Tutto insieme. Perchè le cose vivono in me e non nel tempo. E in me tutto è presente.

Con un’eco quasi bergsoniana cala il sipario sullo spettacolo che Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli hanno liberamente tratto da Ieri, romanzo della scrittrice ungherese Agota Kristof.

Partire dalla battuta finale è quantomai appropriato: questa è infatti una storia di riemersione

Tobias nasce in un villaggio senza nome e trascorre la sua infanzia all’ombra della madre, la prostituta del paese. Un giorno, quando tra i tanti uomini che frequentano la casa individua suo padre, prende un coltello e glielo affonda nella schiena con l’intento di uccidere anche la madre, stesa sotto di lui. Tobias è allora costretto alla fuga. Cambia identità: diventa Sandor e lavora in una fabbrica di orologi. La sua giornata è un susseguirsi di gesti vuoti, l’unica cosa che pare confortarlo è la scrittura. Scrive e si rifugia nell’ ossessionante attesa di Line, una donna appartentente al passato e affidata all’immaginazione. Un giorno però Line arriva. I due si riconoscono e si amano di un amore impossibile. Potrebbe essere l’inizio di un futuro diverso, ma il passato grava sui due amanti con il suo limite di invalicabilità. Line infatti ha un terribile segreto: è la sorellastra di Tobias… ma non lo sa.

coppia

La narrazione della storia non è lineare, ma costruita su continui dislivelli. Il tempo permea di sè l’intera vicenda, senza tuttavia mai lasciarsi delimitare. I contorni sfumano in suggestioni oniriche, la percezione sfugge, tutto si fa dilatato, confuso. Passato e futuro sono entrambi destinati a confluire nel presente sotto forma di ricordo e immaginazione.

La commistione dei livelli temporali è resa con straordinaria efficacia dall’organizzazione dello spazio scenico e dalla modulazione della luce.

Al centro del palcoscenico un cubo, le cui pareti consistono in pannelli semitrasperenti. All’interno del cubo una stanza con un letto e un tavolo, all’esterno il vuoto. I due attori padroneggiano indistintamente entrambi gli spazi. Questa contrapposizione interno-esterno permette l’alternanza di scene agite e scene narrate e si presta meravigliosamente alla resa scenica di un viaggio tutto giocato sull’accavallarsi di temporalità differenti.

La luce è altrettanto fondamentale, perchè diventa la guida di questo viaggio. Dietro al cubo un faro mobile si sposta di continuo creando suggestivi effetti d’ombra. Seguire il fascio di questa luce è come seguire la memoria nel suo impietoso scandagliare. Le zone illuminate sono le zone del ricordo, l’oscurità invece pertiene all’oblio.

spazio

Impossibile non cogliere il riferimento alla psicanalisi. Non tanto perché il vissuto di Tobias richiama il più classico dei complessi, quello edipico, quanto perchè è lo stesso spettacolo ad assumere – fin dall’inizio – le sembianze di una seduta psicanalitica. Il tutto costruito con grande intelligenza. Non c’è l’assurda pretesa di psicanalizzare un personaggio della finzione, ma la volontà di mostrare un percorso di riemersione nel suo fluire disordinato.

La fantasia dei drammaturghi ha valorizzato la sapiente tessitura del romanzo. Il testo viene rispettato nei suoi snodi principali e nell’uso di una prosa asciutta, messa in risalto da una recitazione mai sopra le righe.

Ad essere riproposti con fedeltà anche i richiami autobiografici che costellano l’opera. La Kristof condivide con i suoi personaggi un destino fatto di fuga dalla patria e ossessione per la scrittura. Scrivere rappresenta per entrambi il tentativo di raccontare la propria storia.

Per Tobias la funzione salvifica della scrittura si carica di un valore aggiunto. È la forza che alimenta l’attesa della donna amata.

In fondo, amare e scrivere altro non sono che due facce della stessa medaglia, perchè fermano il tempo.

Cecilia Nicolotti

L’INSONNE

di Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
regia Claudio Autelli

liberamente tratto da Ieri di Agota Kristof
drammaturgia Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
con Alice Conti e Francesco Villano
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
luci Simone De Angelis
suono Fabio Cinicola
responsabile tecnico Giuliano Bottacin
assistenti alla regia Piera Mungiguerra e Andrea Sangalli
voce registrata Paola Tintinelli

co-produzione Lab121, CRT Milano
spettacolo vincitore In-Box 2015
selezione Visionari Kilowatt Festival 2015
presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo

 

Fotografia della Mafia

Alla Fabbrica delle “E” di Torino è andato in scena in prima assoluta  La donna che cammina sulle ferite dei suoi sogni, uno spettacolo della compagnia Viartisti.
Questo è il primo della stagione del ciclo di Teatroimpegnocivile.

Il lavoro presenta l’incredibile vita di una donna, Letizia Battaglia, che ha voluto raccontare attraverso i suoi reportage a Palermo, in quasi vent’anni,  la guerra delle mafie, esprimendola con immagini molto forti e vere.

Scena aperta, scatoloni che fanno da scenografia, fondale nero che si illumina fin da subito con le parole di Letizia: le sue foto che ci accompagnano per tutto lo spettacolo.
Le due attrici in scena, Serena Barone e Gloria Liberati, incarnano l’anima di Letizia, a volte in prima persona a volte in terza, ci raccontano che cosa è stato vivere vedendosi portare via l’istruzione, che cosa ha significato stare in casa, essere donna ma in realtà esserlo solo nella propria casa e solo dopo essersi sposata. Un matrimonio infelice che porta Letizia ad allontanarsi, a Milano. Ma a Letizia non piace Milano, vuole la sua terra anche se succedono cose spaventose. Tornata a Palermo inizia a lavorare come giornalista di cronaca. Le sta stretto dover scrivere, Letizia non è una donna di molte parole. Poi finalmente può raccontare attraverso 1, 2, 500, 1000 e ancora di più foto quello che vede.

Il testo, inedito, scritto da Riccardo Liberati e Pietra Selva, che cura anche la regia, usa parole che servono per spiegare i contenuti di quelle immagini forti. Servono per raccontarci chi è sempre stata dietro la macchina fotografica a scattare. E a un certo punto l’attore chiede al pubblico dove sia Letizia, e si scusa perchè loro stanno usando tante parole, e lei invece è stata capace di non usarne nessuna, perchè le immagini dicono molto di più e il loro compito è quello di sbalordirci e di non farci dire una parola.
Molto suggestive anche le proiezioni che accompagnano tutto lo spettacolo: fotografie che hanno testimoniato venti anni di guerre.
Qualche piccolo inconveniente tecnico legato al suono non è stato in realtà un problema.  Perchè le immagini create dagli attori parlavano in maniera fortissima.390x390_5739a439ce71a_260x260

Letizia Battaglia ieri sera era presente in sala. Alla fine dello spettacolo è stata chiamata sul palco: visivamente commossa ha ringraziato la compagnia, l’autore Riccardo Liberati e la regista Pietra Selva. Il tutto senza dire una parola e facendoci capire ancora una volta che le azioni e le immagini sono più forte di qualsiasi altra cosa.

Elisa Mina

di Riccardo Liberati e Pietra Selva
regia Pietra Selva

con Serena Barone, Gloria Liberati, Alberto Valente
collaborazione artistica e video Riccardo Liberati
consulenza video Eleonora Diana
allestimento Carmelo Giammello
luci Eleonora Diana

produzione Viartisti Teatro
in collaborazione con
Festival delle Colline Torinesi

Hearing

La funzione del linguaggio non è quella d’informare, ma di evocare Jacques Lacan

A un primo sguardo, Hearing sembra raccontare la condizione delle donne in Iran attraverso gli anni. La scena si apre sul dormitorio femminile di un collegio in cui due giovani ragazze vengono interrogate da una donna più matura, incaricata di mantenere l’ordine. Una relazione anonima ha denunciato che una delle due ragazze ha introdotto di nascosto nel dormitorio un ragazzo per trascorrere con lui la notte di capodanno.

La scenografia è un semplice  fascio di luce che illumina dall’alto le protagoniste e che restituisce, con acuta semplicità, l’atmosfera oppressiva del dormitorio-fortezza. Il sapiente uso delle pause e la recitazione quasi cinematografica delle giovani attrici fanno dimenticare subito la fastidiosa necessità di riferirsi ai sopratitoli per comprendere il dialogo.

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La ragazza che ha involontariamente fatto partire la denuncia non ha visto un ragazzo nella stanza della compagna, ne ha solo sentito la voce. E su quest’ambiguità, sull’insicurezza di una voce solo sentita (o immaginata?) si apre la seconda parte dello spettacolo. Con l’ausilio di una Gopro, Amir Reza trascina con maestria lo spettatore in un viaggio onirico a tratti spaventoso, spesso commovente, sicuramente d’impatto. Una delle giovani ragazze esce di scena e vi rientra pochi secondi dopo, quindici anni più grande. L’impianto  realistico della prima parte dello spettacolo viene così decostruito e ciò che conta adesso è l’happening: ciò che avviene qui e ora, sulle scale del teatro Astra che vediamo grazie alla Gopro, nella confusione dello spettatore che rimane catturato in un salto temporale. Alla destrutturazione del set corrisponde una destrutturazione del linguaggio, che intreccia passato e presente in un rimpallo serrato di ricordi, ammissioni, confronti. La memoria che qui viene rappresentata non può che essere restituita in questa maniera perché è la sua stessa essenza ad essere frammentata.

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“Gli spettatori rimangono confusi da questa seconda parte”, ci dice Amir Reza. Ma è proprio questo l’intento della regia: mettere in scena la confusione che si prova quando, arrivati all’età adulta, ci si volta a guardare la propria infanzia. Il percorso di crescita e gli anni trascorsi ritornano alla memoria come un tunnel buio, difficile da ricostruire, dal quale si esce “adulti, normali”. Per Amir Reza, Hearing è un viaggio personale per illuminare, almeno in parte, questo tunnel. Ecco perché non è e non vuole essere (solo) un’opera di denuncia sociale. Hearing non vuole lanciare un messaggio, ma restituire l’esperienza frammentata nella memoria di un percorso a tratti inconsapevole, quello della crescita e del passaggio all’età adulta, che è comune a tutti noi. Hearing non racconta solo la difficile situazione delle donne in Iran, ma anche un’esperienza universale, che travalica i confini lingustici, spaziali e temporali.

di Giulia Trivero

HEARING

(Prima nazionale presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo nell’ambito di Scene d’Europa)

di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani

assistente alla regia Mohammad Reza Hosseinzadeh
con Mona Ahmadi, Ainaz Azarhoush, Elham Korda, Mahin Sadri
video e direzione tecnica Ali Shirkhodaei
musiche Ankido Darash e Kasraa Paashaaie
suono Ankido Darash
luci Saba Kasmei
scena Amir Reza Koohestani assistito da Golnaz Bashiri
costumi e oggetti di scena Negar Nemati
secondo assistente Mohammad Khaksari
direzione di scena Mohammad Reza Najafi
assistente ai costumi Negar Bagheri
direttori di produzione Mohammad Reza Hosseinzadeh e Pierre Reis
tour manager Pierre Reis

produzione Mehr Theatre Group
coproduzione La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, BOZAR – Centre for Fine Arts Brussels

versione originale con sopratitoli in italiano
traduzione Laura Bevione per il Festival delle Colline Torinesi