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ORGIA: una spirale nevrotica di vita e di morte

«Orgia – rispondeva così Pasolini, nel 1968 – è il dramma della disperata lotta di chi è diverso contro la normalità che respinge ai margini, che rinchiude nel ghetto, è il rapporto tra diversità e storia».

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«La mia Orgia è la tragedia di chi non sa stare al mondo» risponde, invece, più sinteticamente Licia Lanera, regista, nonché attrice protagonista di questa revisione moderna, e a tratti un po’ punk, dell’omonima tragedia dello scrittore bolognese e fondatrice nel 2006, insieme al drammaturgo Riccardo Spagnuolo, della compagnia Fibre Parallele.

Ed è proprio quest’ultima a ridurre a uno la trinità del corpus pasoliniano, consegnando l’inadeguatezza e la difficoltà del vivere nelle mani e nel “cappuccio nero della felpa” dell’Uomo:

«Sono l’Uomo e la Donna perché io sono già quell’ambiguità, non c’è bisogno di travestimenti. La tragedia è di entrambi, solo la prostituta è totalmente inconsapevole del mondo. Il rapporto di potere, di carnefice e vittima, di dominio, tra marito e moglie, è però in fondo paritario, non lo è fisicamente ma mentalmente sì» spiega l’attrice.

I protagonisti vivono in due realtà: quella superficiale fatta dell’odore dei gelsi profumati, di sorrisi e di ingenuità e quella nuda e cruda della camera dei due sposi, dove si consuma ogni forma di piacere, di terrore, di rimorsi e di violenza, poiché quest’ultima è l’unico mezzo in grado di mettere in comunicazione le due fragili belve.

Una poltrona al centro del palcoscenico, un leggìo, un microfono – scelto appositamente dalla Lanera – per risuonare meglio, un cappuccio per trincerarsi e da tirare sopra la testa fino a coprire gli occhi; un’alternanza di luci e buio dove si muovono dei pesanti anfibi neri e un corpo irrequieto e pulsante che resta in ascolto della sua stessa voce registrata, riempiono il palcoscenico del Teatro Astra, che in occasione del Festival delle Colline Torinesi, ha ospitato la prima nazionale dello spettacolo.

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Nella rilettura della Lanera, dove carnefici e vittime si scambiano continuamente i ruoli, viene enfatizzata la tragedia della diversità, cara a Pasolini, insieme a quella della linguistica: in particolare viene enfatizzata la dicotomia tra linguaggio verbale (inesistente e frivolo) e linguaggio del corpo, con i suoi tratti barbari e animaleschi.

Il monologo finale dell’Uomo, che uccide la moglie-serva dopo aver messo in atto con lei pratiche sadomasochiste, vuole renderci consapevoli che la realtà intorno a noi è fatta di parole macchiate di menzogna, che addirittura ci vengono insegnate sin dall’infanzia; sono «parole, parole, parole che parlano», che riempiono le nostre cucine, i nostri luoghi di vita, le nostre camere da letto… parole che, in realtà, non hanno nulla da dire. Ricorrere alla violenza sembra ormai essere l’unico modo per l’Uomo di colmare questo vuoto, che lo porterà sino al suicidio: «Ho scoperto che c’era un qualcosa che mi tranquillizzava nel tenere la testa nel mio stesso vomito…».

Ed è soltanto grazie al suicidio, che egli raggiungerà la completa libertà. Durante i 60 minuti di spettacolo, infatti, la scenografia della Lanera muta via via forma, diventando sempre più grottesca, squallida e nauseante, quasi si stesse preparando un rito di morte, che è allo stesso tempo rinascita e vita.

La novità della messa in scena consiste, poi, nell’incursione dell’incalzante rap di Eminem e nell’apparizione di tre dipinti seicenteschi (Paesaggio con la Ninfa Egeria di Claude Lorrain, Maddalena in estasi di Caravaggio, Ila e le Ninfe di Francesco Furini), riprodotti dal pittore Giorgio Calabrese: immagini che permettono uno sdoppiamento della visione teatrale.

La voracità e la spregiudicatezza delle parole e dei movimenti di Licia Lanera, la sua crudeltà e la sua nudità scenica fanno del testo di Pasolini una “bomba a mano” in procinto di esplodere addosso al pubblico e di farlo riflettere su quanto sia estenuante vivere in un mondo dove i rapporti sociali altro non sono che rapporti violenti e di potere, in cui c’è sempre chi copre il ruolo di vittima e chi quello di carnefice, ma anche dove il carnefice è egli stesso vittima, quasi a rovesciare il concetto darwiniano di selezione naturale, dove a perdere e a vincere siamo tutti e non solo il più forte!

 

Martina Di Nolfo

 

ORGIA

Fibre Parallele

 

di Pier Paolo Pasolini

regia Licia Lanera

 

con Licia Lanera

e Nina Martorana

regista assistente Danilo Giuva

consulenza artistica Alessandra Di Lernia

luci Vincent Longuemare

costumi Antonio Piccirilli

dipinti Giorgio Calabrese

tecnico di produzione Amedeo Russi

organizzazione Antonella Dipierro

spazio Licia Lanera

 

produzione Fibre Parallele

coproduzione Festival delle Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Costing& Management

con il sostegno di L’Arboreto-Teatro Dimora di Mondaino

la compagnia è sostenuta dal MiBACT

Roberta Cade in Trappola: Viaggio verso il pianeta G570

Stanza piccola, buia.

Al centro, una scrivania, una pila di diari, un microfono, un bicchiere d’acqua, due attori, una piantana, una videocamera, un libro, un registratore.

Dai nastri escono rumori, suoni, canzoni di un tempo, voci.

Questo spettacolo inizia con un numero di magia!

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ALEARGA: la donna che corre

Corri. Corri per mantenerti in forma, per rilassarti, per il puro piacere di praticare uno sport. Ma correre significa solo questo? Non di certo per la protagonista di Alearga (che appunto significa “Corri!”), una giovane donna la cui età non ci viene mai svelata ma che si presuppone sia attorno ai trent’anni. Lei corre perché vede il tempo fuggire troppo velocemente portando via con sé la sua giovinezza. Corre quando sente che la vita le sta mettendo davanti sfide difficili da superare. Corre quando le sembra di essere inadatta alla figura di donna perfetta che la società vuole. Corre, ma nello stesso tempo riflette in solitudine sulle sue esperienze passate, sulle delusioni e i suoi cambiamenti.

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Geppetto e Geppetto: biologia o sentimento?

 “Toni perché abbiamo desiderato così tanto avere dei figli, forse per paura di rimanere soli?”

“No Franca, no, i figli non si fanno per questo!”

Anche io – seppur nella condizione di  figlia e non ancora di genitore- confesso di essermi chiesta parecchie volte quale senso abbiamo noi figli per i nostri genitori e che senso ci sia nel desiderarci a tutti i costi. Avere figli  può essere emozionante,  talvolta può essere controproducente; il rapporto genitore-figlio non è sempre roseo, ci possono essere difficoltà economiche, ideologiche e pratiche, eppure sono sicura che qualsiasi madre sacrificherebbe la propria vita per quella del  figlio, senza esitazione!

Mi sono interrogata sulla tanto discussa “stepchild adoption” e se essa nasca  da un reale desiderio  d’amore o se, in fondo, non sia  un pretesto per affermare il proprio orgoglio omosessuale e i propri diritti in un paese, sotto molti aspetti, ancora ben poco al passo coi tempi. Il regista Tindaro Granata mi ha fatto capire,  pragmaticamente, che non c’è alcun senso, in realtà, nell’essere genitore e nell’essere figlio, esattamente come nell’amore: quando si ama qualcuno, lo si ama e basta, e si ama con esso la follia, il desiderio e le difficoltà che comporta. E così  succede nel rapporto tra genitori e figli.

GEPPETTO

Con una scrittura empatica e aderente alla realtà, Granata  porta in scena – in  prima nazionale alla XXI edizione del Festival delle Colline Torinesi –  Geppetto e Geppetto, la storia di Toni e Luca, due  uomini che si amano, e che sono disposti ad andare contro tutti e contro tutto per avere il figlio che tanto desiderano. Dopo qualche esitazione, partiranno  per il Canada, dove ricorreranno all’inseminazione artificiale tramite una “gravidanza per altri” (pratica  vietata nel nostro paese). Dopo il ritorno in Italia e un lutto imprevisto, il figlio Matteo dovrà fare i conti con la difficoltà che il crescere comporta; mentre Luca farà i conti con il rapporto travagliato che ha con il figlio, rapporto che,  solo nel  finale commovente,  troverà un suo positivo modo di esprimersi.

Una vicenda, quella di Geppetto e Geppetto che,  a partire dalla    favola di Collodi, cita un celeberrimo padre  single, Geppetto appunto. Come ha spiegato, Granata non si schiera né “pro” né “contro” la questione, ma  racconta  la “semplice” storia di un papà che vuole fare unicamente il papà e di un figlio che vuole fare il figlio… “Se solo ci fosse  più amore” ripete spesso ironicamente Luca, interpretato dallo stesso Granata,  ci sarebbero meno problemi!

Estremamente attuale è dunque il tema dello spettacolo che richiama la  legge Cirinnà (tanto criticata da una parte, tanto attesa dall’altra) su unioni civili e convivenze, legge infine approvata  dopo un lungo iter.

“Ho rubato pensieri e ignoranza dalle persone; ho rubato loro paura, dolcezza, rabbia, intolleranza, odio e amore. Ho annotato sulla linea ferroviaria Cosenza- Milano Centrale punti di vista e luoghi comuni” spiega Granata , “così sono salito sui tram, ho incontrato persone, mi sono finto un giornalista per raccogliere riflessioni di madri e di donne spaventate da questa tecnica che prevede un utero in affitto”. Esempi lampanti sono infatti la figura di Franca (Alessia Bellotto), l’amica di famiglia e la maestra elementare di Matteo (Lucia Rea per la prima volta sul palcoscenico).

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Efficace, nella sua semplicità,  la scenografia: un tavolo al centro della scena e  sedie lungo i lati del palcoscenico. I costumi sono  magliette nere con dei nomi attaccati, che via via si staccheranno durante i 90 minuti dello spettacolo, perché la volontà della regia è quella di dare voce a personaggi, focalizzando  l’attenzione sul dinamismo delle situazioni più che sulla realtà statica dei caratteri.  Non manca poi un’attenta riflessione sui  diversi tipi di famiglia di oggi. Granata  ne mette a confronto tre. Quella cosiddetta normale di Walter, caro amico di Matteo, preoccupata unicamente dell’agognato “posto fisso” in azienda, scordando così le reali attitudini del figlio; quella a stampo “matriarcale” di Lucia, alla quale è mancato un padre, e quella “strana”, forse la più invidiata, e forse la più bella nonostante i problemi, di Matteo Luca e Toni.

Quest’ultima si scontrerà con la madre di Toni (Roberta Rosignoli) che metterà in discussione il rapporto con il figlio poiché totalmente contraria al modo in cui dovrà nascere Matteo: “Non è che uno può pensare una cosa e poi la fa! I figli sono una cosa seria…siamo animali che amano”.

A fare da “intermezzo musicale” allo spettacolo ci sono frammenti registrati durante il Family Day del 30 gennaio scorso, che riportando voci distoniche e opinioni dei manifestanti, voci  che paiono aggredire la platea!

Per concludere, sono stati invitati a raccontare la propria esperienza, due “Geppetti” in carne ed ossa: Francesco e Piero, due uomini che, come Toni e Luca, si amano e che stanno lottando  per avere un figlio, ben consapevoli delle difficoltà di crescerlo. I figli sono una cosa seria e i genitori lo sono altrettanto per la nostra identità di figli; quando si parla di avere due padri o due madri, di affittare un utero, non so dove stia la ragione, cosa sia davvero giusto e cosa sbagliato, ma forse dovremmo togliere a questa questione un po’ di biologia e metterci un po’ più di sentimento: in fondo anche un nonno, una nonna, un amico, un cane o gatto possono essere la nostra famiglia. Tutti sbagliano, tutti amano, tutti odiano e tutti hanno diritto ad avere diritti. Se  poi a far da mamma è un padre e far da padre è una mamma forse poco importa, no?

 

Martina Di Nolfo

 

Geppetto e Geppetto

Scritto e diretto da Tindaro Granata

Con Alessia Bellotto, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Carlo Guasconi, Paolo Li Volsi, Lucia Rea, Roberta Rosignoli.

Coproduzione: Teatro Stabile di Genova, Festival delle Colline Torinesi, Proxima Res.

Regista assistente: Francesca Porrini

Allestimento: Margherita Baldoni

Luci e suono: Cristiano Camerotti

Movimento di scena: Micaela Sapienza