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Thebes: A Global Civil War

Appena entri nella sala, una scena piena di abiti sparsi sul pavimento cattura l’attenzione; sembra quasi una rappresentazione del caos e della disorganizzazione, oppure un simbolo di identità perdute e dimenticate. Questa immagine è un’introduzione a un viaggio emotivo e interiore che ci apprestiamo a vivere con lo spettacolo. Senza una sola parola di dialogo, la scena con gli abiti sparsi crea un’atmosfera di confusione e domande senza risposta. La prima domanda è: cosa vogliono dirci questi vestiti?

Qualcuno inizia a parlare, ma in una lingua sconosciuta. Gli spettatori guardano curiosi intorno, ma non capiscono chi stia parlando. All’improvviso, una voce in arabo risuona nell’aria, e qualcuno tra il pubblico scende le scale. Poi, un’altra persona inizia a parlare in una lingua che potrebbe essere il greco, seguita da qualcuno che parla in francese. Quattro persone, ognuna proveniente dal pubblico, si dirigono verso il palco.

Questi quattro attori portano ciascuna una storia diversa: una dalla Bosnia, una dal Congo, una dal Libano e un’altra dalla Grecia. Tutti con lingue ed esperienze diverse si riuniscono sul palco. Questa combinazione multiculturale e multilingue, come simbolo della diversità e pluralità dell’umanità, crea un’atmosfera affascinante e complessa che coinvolge immediatamente lo spettatore. Rapidamente, ognuno di loro inizia a pronunciare nomi e anni di nascita, uno dopo l’altro e senza interruzioni, come se in ogni istante stessero riportando alla memoria qualcuno o rivelando un’identità. Uno spazio pieno di nomi e date che continua per qualche minuto, mentre una musica inquietante costruisce una tensione palpabile e un’atmosfera di attesa. La scena si riempie di nebbia e una luce illumina una grande scritta: Thebes: A Global Civil War.

Tutto si ferma in quell’istante; come se il tempo si fosse bloccato per un momento, ed è l’inizio…

Lo spettacolo sfrutta abilmente la tecnologia e riesce a creare un’armonia perfetta tra teatro e cinema. Questa scelta intelligente dà vita a una struttura semplice ma potente, che evita complicazioni inutili e, nella sua semplicità, risulta estremamente efficace.

Ogni personaggio sulla scena racconta la storia della propria vita, mentre contemporaneamente vengono proiettate sullo schermo immagini di tipo documentaristico. Queste immagini sembrano far sentire lo spettatore come se stesse guardando un documentario con la presenza diretta del narratore. Inoltre, l’uso della videocamera sulla scena aggiunge un altro strato all’esperienza dello spettatore. La videocamera ha più funzioni: prima di tutto, trasmette un primo piano di ogni personaggio, insieme ai sottotitoli e alle immagini documentaristiche, sullo schermo, facendo sì che lo spettatore si concentri attentamente sul display, dovendo seguire anche i sottotitoli. La seconda funzione della videocamera è creare un senso di maggiore vicinanza ai personaggi, proprio come un primo piano cinematografico che aiuta a stabilire una connessione emotiva con il pubblico. Alla fine, l’uso della telecamera crea una sensazione come se fossimo dietro le quinte di un documentario in fase di realizzazione; questa scelta intelligente unisce ancora una volta semplicità e creatività, dando vita a un’atmosfera vivace e unica. Tuttavia, il tutto non sempre funziona perfettamente; in alcuni momenti, la telecamera non è riuscita a catturare correttamente l’immagine dell’attore o le proiezioni sullo schermo non sono sincronizzate con la scena. Queste dissonanze hanno ridotto in qualche momento l’impatto dello spettacolo compromettendo in parte l’uniformità dell’esecuzione.

Gli attori ci parlano di guerre che stanno ancora avvenendo; guerre che non solo hanno influenzato il passato, ma che continuano a segnare il presente. Questa parte dello spettacolo sottolinea in particolare l’importanza della documentazione e della memoria, poiché finché esisterà l’umanità, esisteranno anche le guerre. Documentare significa raccontare le storie delle persone che sono vittime della guerra; coloro che, in un batter d’occhio, hanno perso la casa e la patria, lasciati a vagare tra la violenza e la disperazione.

Questo spettacolo, attraverso la documentazione, mantiene vive le storie di queste persone, offrendo agli spettatori l’opportunità di confrontarsi con le crude realtà che accadono in tutto il mondo. La presenza diretta e manifesta dona una voce agli individui colpiti dalla guerra, e forse questa voce può, anche solo per un momento, attirare l’attenzione degli spettatori sulle vite distrutte dall’ombra della guerra.

All’interno dello spettacolo l’elemento musicale cattura l’attenzione sin dal primo istante; una musica che rapidamente richiama alla mia mente le opere di Eleni Karaindrou. Le melodie danno vita a un’atmosfera emotiva e profonda, simile a quella sensazione di malinconia e riflessione che avevo sperimentato nelle musiche di Karaindrou. Temi musicali che non solo potenziano il carico emotivo dello spettacolo, ma creano anche una connessione immediata tra il pubblico e la storia, perfettamente in sintonia con l’atmosfera del momento.

Lo spettacolo si avvia alla conclusione con le parole di Antigone: “Io, una donna, scaverò la tua tomba. Io, una donna, spargerò la terra su di te. Nessuna legge potrà fermarmi”.

Gli abiti sparsi sulla scena sono di coloro che non possono più essere con noi, non più alle feste né ai compleanni.

Roozbeh Ranjbarian

  • Uno spettacolo di Pantelis Flatsousis & the ensemble / Spectrum
  • Regia Pantelis Flatsousis
  • Drammaturgia Panagiota Konstantinakou
  • Interpreti Vedrana Bozinovic, Racha Baroud, Albertine Itela, George Paterakis
  • scene e costumi Constantinos Zamanis
  • Musiche originali Kergomard
  • Video Constantine Nisidis
  • Disegno sonore Christina Thanasoula
  • Assistente alla drammaturgiaIoanna Lioutsia
  • Consulente scientifico Manos Avgerides
  • Assistenti alla regiaAthena Bakoyianni, Anna Karamanidou
  • Manager di produzione Rena Andreadaki, Zoi Mouschi
  • Produzione Athens Epidaurus Festival

Arlecchino Furioso – Stivalaccio Teatro

Dal 19 dicembre 2023 all’1 Gennaio 2024, al Teatro Gobetti, è andato in scena lo spettacolo Arlecchino Furioso.
La compagnia Stivalaccio Teatro, che si occupa di teatro popolare, teatro per ragazzi e arte di strada, in questa occasione ci riporta indietro nel tempo seguendo la tradizione della Commedia dell’Arte.

“Sono dinamici e creativi i giovani di Stivalaccio Teatro, e anche coraggiosi nel dedicare le loro energie a un genere di nobile tradizione e di alta specializzazione qual è la Commedia dell’Arte, che li porta a confrontarsi con interpreti giganteschi e insuperabili”.

Questo ciò che viene detto della compagnia in occasione del Premio ANCT – Associazione Nazionale Critici Teatro 2023, che gli viene assegnato proprio al Teatro Gobetti.

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Wonderland


Cosa hanno in comune un corvo e una scrivania?

E’ con questo indovinello uscito direttamente dalla penna di Lewis Carroll, che si apre Wonderland al Teatro Gobetti.
Con le luci di sala ancora accese e con la divisione tra pubblico e performer non ancora netta, entriamo gradualmente all’interno della narrazione, attraverso giochi di parole che iniziano ad ingarbugliarsi.

Ph. Andrea Macchia

Sul palco non c’è nessuna Alice, siamo noi che cadiamo direttamente nella tana del Bianconiglio e ci ritroviamo in un mondo senza senso, in uno spettacolo che non ha una trama, ma dei semplici episodi che dobbiamo “riconoscere, piuttosto che comprendere”, come lo stesso Collettivo Effe tiene a precisare.

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Spettatore Condannato a Morte

La rappresentazione teatrale Spettatore condannato a morte avviene in un luogo suggestivo.  Ci troviamo a San Pietro in Vincoli, un ex cimitero, nello specifico in una chiesa sconsacrata. Ci accoglie un giardino esteso che guida i nostri passi verso la biglietteria: una donna, attenta e gentile, dopo averci dato i nostri biglietti, ci indica un tavolo dove farci servire delle bibite calde e dei dolcetti. L’atmosfera inizialmente fredda, comincia a riscaldarsi, ci sono dei portici, arredati con poltrone, tavolini ed altri arredi domestici; in fondo, il cimitero è una casa per tutti. Un’altra ragazza ci accoglie in un graditissimo tepore, un grembiulino blu le fascia la vita e i suoi capelli ricci, scendono delicatamente sulle spalle. Un biglietto della lotteria finisce nelle nostre mani “non perdetelo, vi servirà dopo per un’estrazione”. I nostri biglietti non hanno segnato il numero del posto, la coda per entrare nella chiesa è lunga e trepidante. Attendiamo. Scattano le 19 in punto. Un ragazzo, alto e dal viso valorizzato da un baffo, ci strappa i biglietti e ci fa entrare. I posti sembrano distribuiti casualmente, eppure, una signorina ci guida attentamente: siamo disposti in semicerchio, ricorda un anfiteatro, come fosse un rimando al teatro antico.

“Che entri il giudice”, siamo in una corte di giustizia e davanti a noi, con toghe nere, passo deciso e voce altisonante si dispongono un procuratore, un cancelliere ed un giudice appunto. Dalla regia di Beppe Rosso nasce il riadattamento del testo di Matei Visniec, un lavoro dagli intrecci notevoli e complessi, interpretato da attori professionisti e da alcuni  partecipanti ad un precedente laboratorio dedicato allo spettacolo, quelli che saranno i testimoni, la donna gentile della biglietteria, la ragazza dal grembiulino blu e dai capelli ricci e lo strappatore di biglietti dal baffo prominente. La performance attoriale è intrisa di improvvisazioni, equivoci e incomprensioni, la risata del pubblico si scatena incontrollata e talvolta quella degli stessi attori. Un dettaglio peró che rompe un po’ la magia della pièce teatrale, distogliendo l’attenzione dal testo e dall’importante messaggio che vuole trasmettere. La scenografia è mobile e dinamica come lo stesso spettacolo, il legno la fa da padrona. Il protagonista è il pubblico ed in particolare uno spettatore che entra nell’occhio del ciclone della performance teatrale. A tutti i costi questo spettatore deve essere condannato a morte, le figure giudiziarie chiedono aiuto al pubblico per poterlo condannare, un pubblico che si manifesterà curioso e silenzioso seppur divertito. Il testo di Visniec vuole raccontare di come la giustizia, spesso, si perda nella delirante ricerca di un colpevole senza restituire la reale importanza della verità.

Quanto è infatti necessario trovare un capro espiatorio nella società odierna? E’ altrettanto importante la scoperta della verità, del movente, di un perché? No, non lo è, l’esigenza umana di attribuire un volto alla rabbia e all’odio è naturale, la verità  è invece una ricerca razionale, tipica di una civiltà intelligente, senza pregiudizi. Noi però siamo chiamati a giudicare e in uno scambio tra testimoni, pulito, veloce e dinamico, osserviamo, senza agire, il compimento di quella che sembrerebbe un’ingiustizia. “Forza uccidetelo, dai, uno di voi, si alzi e prenda questo fucile, uccidetelo”, il pubblico è talvolta confuso, quasi nessuno risponde alle sollecitazioni degli attori: chissà, forse perché sappiamo di essere ad uno spettacolo. L’uomo imputato resta in scena, in un angolo, seduto su una sedia, protagonista consapevole seppur non preparato, complice di un equivoco che spinge il pubblico a chiedersi continuamente se sia attore o spettatore, ebbene, ecco la risposta.

Come si è sentito?

Beh, sicuramente è stato per me, spiazzante

Sentiva l’impulso di reagire? Se si, perché non lo ha fatto?

Si, sentivo l’impulso di reagire, se non mi avessero detto di non fare nulla, probabilmente mi sarei inventato qualcosa.

E cosa avrebbe fatto?

 Avrei avuto voglia di sparargli.

Il pubblico siede sul liminale tra finzione e realtà, un confine difficile da stabilire, nella vita come in teatro. Quello che mi ha sollecitata mentre le battute scorrevano una dietro l’altra è stata la volontà di scoprire il pensiero degli attori, in particolare quello del giudice, presente in tutte le scene. 

Ti sei divertito?

Si, molto, sarebbe stato un problema fosse stato il contrario.

Come è stato il rapporto con il regista nella costruzione di uno spettacolo dalla sceneggiatura così articolata?

Devo dire difficile, abbiamo però trovato un ottimo compromesso.

Quanto è importante il silenzio del pubblico ?

 In questo spettacolo, come in tanti altri, è fondamentale, scandisce il ritmo, come fosse un’armonia musicale.

Quanto è stata importante l’improvvisazione? 

Fondamentale, direi.

Quando chiedevate reazioni dal pubblico, sapevate già non sarebbero arrivate? Oppure non avete avuto le giuste risposte alle vostre sollecitazioni? 

Si, sapevamo già non sarebbero arrivate, fossero arrivate le avremmo sicuramente gestite con l’improvvisazione ma ritornando sempre alla sceneggiatura originale.

Porre queste domande e avere delle risposte ha chiarito tante mie perplessità nate durante lo svolgimento della pièce teatrale. Uno spettacolo che, a mio avviso, ha un potenziale incredibile, seppur per certi versi ancora latente. C’è però da specificare che questo è uno “spettacolo partecipato”, in cui solo 4 attori sono professionisti, le altre 25 persone intervenute in scena sono invece cittadini, reclutati per il laboratorio condotto da Beppe Rosso e Yuri D’agostino. Mi sento dunque di fare luce su questo “dettaglio” per evidenziare il grande lavoro fatto dalla regia e dall’aiuto regia . La tematica trattata, è infatti, estremamente attuale e ci chiede di osservare noi stessi dall’interno, una piccola società racchiusa in un ex spazio sacro, che ci porta ad una profonda analisi di coscienza, in fondo, come diceva Friedrich Nietzsche “dovremmo chiamare ogni verità falsa, se non la abbiamo accompagnata da almeno una risata”.

Rossella Cutaia


CREDITI

di Matei Visniec
traduzione Debora Milone e Beppe Rosso
Adattamento Beppe Rosso e Lorenzo De Iacovo
aiuto regia Yuri D’Agostino
regia Beppe Rosso
con Lorenzo Bartoli, Francesco Gargiulo, Andrea Triaca, Angelo Tronca e con venticinque cittadini nel ruolo dei testimoni
scene e luci Lucio Diana
riprese video Eleonora Diana
tecnico di compagnia Adriano Antonucci
sound Massimiliano Bressan
costruzione scene Marco Ferrero
produzione A.M.A. Factory

PRIMA NAZIONALE

Spettacolo programmato in collaborazione con Piemonte dal Vivo nell’ambito del progetto Corto Circuito

28° Edizione Festival delle Colline Torinesi – Intervista a Sergio Ariotti

Il 10 Ottobre 2023, con l’anteprima dello spettacolo Come gli Uccelli, che sarà presente nella stagione TPE, ha avuto inizio la 28° edizione del Festival delle Colline Torinesi.
Dal 10 Ottobre al 4 Novembre sarà quindi possibile seguire il Festival.
Il tema, anche quest’anno, sarà Confini e Sconfinamenti.
Èancora molto necessario parlare di questa tematica, così attuale, dolorosa. E politica, nel senso più profondo del termine.

Per l’occasione abbiamo intervistato Sergio Ariotti, direttore del Festival delle Colline Torinesi insieme ad Isabella Lagattolla, che riportiamo qui di seguito in modo da poter indagare al meglio ciò che questa nuova edizione del Festival ha da dire al pubblico.


Perché si sente l’urgenza di esplorare nuovamente il tema Confini e Sconfinamenti?
Qual è il messaggio che il Festival si propone di lanciare? Quali sono le aspettative?

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RIEMERSIONI PALERMITANE: UN’ULTIMA SERA A CONFORMAZIONI 2023.

SCIARA GENESI – SALVATORE ROMANIA & LAURA ODIERNA; ROSSO – DANILO SMEDILE

«Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciàra, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava» Giovanni Verga, Rosso Malpelo, Tutte le novelle, Torino, Einaudi, 2015

Gli spirti umidi e frizzanti di una primavera ancora agli albori hanno avvolto la serata finale della settima edizione del Festival Conformazioni che quest’anno ha ammaliato Palermo dal 21 al 30 aprile 2023. A concludere  la Kermesse di danza contemporanea,  diretta dal Coreografo e danzatore Giuseppe Muscarello, due lavori imperniati su un  rapporto intimo con il territorio di provenienza: la Sicilia. A fare da sfondo è lo Spazio Franco presso i Cantieri Culturali alla Zisa.  

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Lazarus – David Bowie, Enda Walsh, tradotto e diretto da Valter Malosti

Lazarus, nella sua versione italiana tradotta e diretta da Valter Malosti, in scena al Teatro Carignano dal 6 al 18 Giugno, è un’opera scritta da David Bowie e Enda Walsh.

Ispirato al libro The Man who fell to Earth di Walter Tevis e all’omonimo film in cui Bowie interpreta l’alieno Newton, lo spettacolo continua a raccontarci la storia di Newton da dove l’avevamo lasciata. Nonostante non appartenga a questo Mondo, egli rimane prigioniero senza poter tornare al pianeta che lui chiama casa. Incapace di vivere, non riesce nemmeno a morire. Un immortale senza spirito vitale.

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Benji … un’occasione perduta!

“Sono fuori di me e sono in pena, perché non mi vedo tornare”

(Luigi Tenco)

È complicato!

Questo spettacolo è complicato perché nasce come stand-up comica cucito su e per la sua ideatrice Claire Dowie, scrittrice, attrice, poetessa e pioniera dello stand-up theatre, una delle figure più anticonformiste del teatro contemporaneo che viene riadattato a monologo, tradotto e portato in scena da un numero ragguardevole di attrici che si sono cimentate con questo testo ma che non sono Claire Dowie.

Certo questo non vuol dire che chi non sia Claire Dowie non possa portarlo in scena ma… è complicato!

È complicato perché l’attrice, Olivia Manescalchi, è così brava da rendere molto credibile la sua interpretazione, così credibile da creare ancora più forte un cortocircuito con l’allestimento.

È complicato perché il personaggio in questione si rivolge direttamente al pubblico e comincia a raccontare una storia, la sua storia e anche se il personaggio in questione non ha un nome (Benji è il nome del cane della sua vicina e poi diventerà il nome con cui chiamare la sua amica immaginaria) lei rimane un personaggio che non diventa mai un narratore, checché se ne dica.

“Essere un narratore vuol dire un’altra cosa: è la base su cui costruiamo delle stratificazioni di comportamento per arrivare alla condizione di narratori ,che è una condizione stratificata. Non è che uno può improvvisare, prendere un libro e leggere e dice io sto narrando. La narrazione è fatta da una stratificazione dello stato di osservazione artistica. Come dice Benjamin, l’osservazione artistica porta una pulsione interiore in cui c’è l’incontro tra mente, cuore e braccio, che è l’atto del fare che trova uno stato divino in uno stato di consonanza che è stratificato. Non è che nasci così, lo devi accumulare, quando hai accumulato questi livelli di rapporti di consonanza tra il pensiero, il cuore, quindi l’emozione e la mente, allora tu ti muovi dentro una condizione in cui teatralmente è ridicolo parlare di personaggi […] Allora quando io dico narratore dico non interpretare. Prima di tutto, io come narratore ho una voglia, una voglia profonda che è una spinta propulsiva a dire del tutto che incontro…”. (Carla Tatò)

È chiaro che l’intento dello spettacolo di Benji non sia narrare ma interpretare ma ecco allora che ci scontriamo subito con un problema registico non di poco conto. Inoltre non darei così tanto per assodata la doverosa distinzione tra “narrare” e “interpretare”, se proprio legato a questo spettacolo sono stati pubblicati articoli con titoli come (valga uno per tutti): Il teatro di narrazione al teatro Argot Studio. Benji è il dramma della mancanza d’amore e di identità.

Ma perché deve essere, per questo spettacolo, più complicato che per altri?

Palcoscenico a vista completamente spoglio, a vista le quinte fuoriscena con corde e materiali teatrali, al centro del palco vuoto due sedie, una anonima, scura, di quelle pieghevoli e un’altra accanto più piccola rossa, una sedia da bambina. Comincia lo spettacolo e quasi non ce ne accorgiamo, c’è una dissolvenza di luci molto lenta che crea, in concomitanza con il procedere dell’attrice dal fondo buio al centro del palco, un cono di luce molto circoscritto al perimetro delle due sedie che delimiterà tutto lo spazio d’azione dello spettacolo. Uno spazio che dovrebbe essere angusto e claustrofobico, ma che dà anche l’effetto di una lente di ingrandimento, come se il personaggio sin da subito esponesse il suo corpo alla mercè degli spettatori in una sorta di confessione/inquisizione, qui il primo black out.

Quel tipo di confessione sarebbe stata più adatta al divano di uno psicoterapeuta che allo sguardo di un “pubblico”, che sia esso giudice o mero spettatore. Quelle sedie, se da un lato potrebbero persino far pensare a una situazione da gruppo d’ascolto, in realtà al tempo stesso lo contraddicono perché, per quanto anche noi siamo seduti, non ci sentiamo mai parte di un cerchio in intimità con il personaggio. Le sedie in scena del resto sono disposte su una fila retta parallela alla nostra, che crea ancora maggiore separazione tra noi e il mondo del personaggio, come se ci trovassimo su due schiere contrapposte. Quella confessione così intima, così credibile, fatta di micro movimenti nevrotici, dall’uso della sigaretta alla ricerca dei più svariati oggetti nella borsa, avrebbe avuto bisogno di una prossimità diversa. Si sentiva l’esigenza di un rapporto più intimo con quel corpo, che le parole del personaggio, a tratti sussurrate, ricercavano ma che l’impianto spaziale teatrale non consentiva. La stand-up comica di per sé nasce in un contesto di prossimità con il pubblico in un clima di convivialità dove spesso il pubblico beve e chiacchiera amabilmente, fino a quando il comico non cattura la sua attenzione. Qui per catturare la nostra attenzione c’è stato bisogno di una luce occhio di bue a pioggia che mette letteralmente sotto i riflettori l’attrice/personaggio.

Lorenzo Fontana, il regista dello spettacolo, utilizza la luce oltre che per delimitare lo spazio anche per scandire il tempo. Non ci sono particolari annotazioni musicali o effetti sonori, tutto si svolge su quella sedia su quell’unico corpo che viene esposto (al cono di luce) o nascosto (nel buio). Le scene hanno come unico raccordo il fuoco delle sigarette che l’attrice continua ad accendere una dietro l’altra.

C’è un solo momento in cui, e mi piacerebbe romanticamente credere che sia stata l’attrice più che il personaggio a prendere l’iniziativa di fuggire da quell’esposizione del cono di luce, in un moto di rivolta contro il regista che ha così “abusato” del suo corpo. In quella penombra limitrofa vediamo il riappropriarsi di una libertà nella gestione dello spazio, nel decidere cosa mostrare e cosa no, è il momento in cui il personaggio mima la distanza che separa la sua casa di infanzia dalla casa della vicina che aveva un cane che si chiamava Benji. In quel momento di “ribellione” il mio cuore ha avuto un sussulto, ho creduto che qualcosa accadesse, ma non appena l’attrice si è riavvicina a quel maledetto cono di luce, come risucchiata da una maledizione, il suo corpo viene nuovamente incatenato a quella sedia. Non saranno concessi altri momenti di libertà, anzi la scena divine sempre più piccola e il corpo si accartoccia fino a utilizzare come unico spazio esistenziale la seduta della sedia prendendo le distanze persino dal pavimento.

C’è un buon ritmo interno alla recitazione che non trova però una consonanza con il ritmo della regia che pretende di spiegare invece che mostrare, che riesce a essere ridondante nonostante il suo estremo minimalismo. Si può essere soli anche senza essere messi sotto un riflettore, si può avere un’amica immaginaria anche senza una sedia vuota a ricordarmelo.

Alla fine mi sono persa, non ho capito dove mi volessero condurre, ho trovato dissonanti il realismo dell’attrice con il linguaggio simbolico del regista, perché credo che, soprattutto per questo spettacolo, valga molto quanto afferma Carla Tatò:

“Perché spiegano… Se tu spieghi si perde la magia…. il problema è di andare veramente nell’evocazione dove ti perdi, ma sai quante volte io mi perdo e poi devo ritrovarmi […] Quando un attore è narratore invece che interprete per molti non è bravo, perché non ha quelle pause psicologiche, non ci sono, rompi tutto il tempo della descrizione psicologica del personaggio di cui tutti pensano che il pubblico abbia bisogno. Non è vero! Il pubblico non vuole descrizioni psicologiche, il pubblico vuole viaggiare, il pubblico è sensibile, vuole essere portato altrove e c’è una dinamica, c’è una dinamica che devi saper immettere per farlo viaggiare non è importante come finisce la storia, non gliene frega niente”.

Alla fine chi rimane incatenato alla sedia è lo spettatore che come il personaggio vede ridursi il suo spazio vitale sempre di più, sperando in viaggio che non ha mai inizio, che occasione perduta!

Nina Margeri

Al Teatro Astra di Torino Benji di Claire Dowie

con Olivia Manescalchi

regia di Lorenzo Fontana.

LAZARUS SERIAL VERSION – INDOOR EDITION

È la sera del 28 aprile 2023. Sotto le fronde degli alberi, che adornano a tratti le strade che si stagliano tra gli spazi dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, capannelli  di spettatori attendono di poter accedere allo Spazio Tre Navate. In programma la prima siciliana di Lazarus Serial Version Indoor edition, il lavoro firmato  dal coreografo Giulio De Leo e facente parte del ricco calendario del Festival Conformazioni 2023. I convenevoli tra gli astanti in attesa si susseguono, fin quando le porte del teatro non si aprono.

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