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SHINE Pink Floyd Moon

Torna a brillare la stella Raffaele Paganini

In questa intervista telefonica Raffaele Paganini, étoile di danza classica e famoso personaggio televisivo, ci racconta del suo ritorno alle scene in un contesto teatrale diverso dal solito. Sullo sfondo di un concerto Rock su musiche dei Pink Floyd, suonato e cantato live dalla band Pink Floyd Legend, Raffaele interpreta la figura di Sid Barret, storico fondatore della band inglese scomparso nel Luglio 2006. Visionario ed eclettico Sid rappresenta l’archetipo del genio pop degli anni ’60 il suo impulso alla genesi del genere psichedelico rappresenta una pietra miliare nel panorama musicale del ventesimo secolo.

I PinK Floyd e la danza

Nel 1972, a Marsiglia, Roland Petit creò un balletto su musica dei  Pink Floyd, suonata dal vivo dagli stessi musicisti, fu non solo un evento ma anche una profonda innovazione, grazie al magistrale disegno coreografico unito ad una fisicità prorompente del corpo di ballo. Petit capì subito cosa si celava dietro quel sound e riuscì a donarle oltre all’immagine un corpo danzante

Quella che  tu stai facendo  con questo spettacolo è una rivoluzione culturale anche se retrospettiva  perché parliamo dei Pink Floyd non  di gruppi pop rock attuali, premetto che sono sempre stato appassionato dei Pink Floyd per cui per me è terreno fertile,  e vado subito al dunque : come hai vissuto questa nuova esperienza? 

“ Sai Paolo, in realtà quando ero ragazzo,  e tu sai che con la scuola di danza del Teatro dell’Opera di Roma eravamo molto  centrati sulla disciplina anche da un punto di vista culturale,  i  nostri programmi di studio comprendevano, oltre alle lezioni di tecnica classica,  ore di musica per la danza. Questo faceva sì che noi già dai primi anni venissimo a contatto con quella musica che faceva capo ai grandi compositori come Tchaikowsky, Prokoviev, Haydn, Adam e  ovviamente la nostra conoscenza in campo musicale era totalmente di estrazione classica,  per cui non ti nascondo che ho scoperto i Pink Floyd  come tanti altri gruppi, che sarebbero  dovuti essere parte integrante della del mio trascorso epocale della mia adolescenza cioè di quando ero  giovanotto,  e invece  li sentivo così magari di sfuggita, erano sicuramente famosi però non li seguivo non li ascoltavo, devo dirti la verità e per questo  mi sono sorpreso anch’io del fatto che oggi a distanza di tanti anni stia interpretando il ruolo del frontman dei Pink Floyd  Syd Barrett.” 

Parliamo dello spettacolo  Shine

“è una cosa molto particolare, io lo chiamerei  un concerto danzante perché ci sono dal vivo  I Pink Floyd Legend che sono un gruppo quotatissimo qui in Italia, che va per la maggiore, almeno io lo vedo dall’affluenza del pubblico  ai loro spettacoli, è pazzesco fanno dei numeri interessantissimi ,  ti dico la verità sono un po’ basito,  perché non avrei immaginato che potesse accadermi una cosa così strana e straordinaria al tempo stesso.”

Cosa ti ha portato ad accettare questo ruolo

“ intanto la coreografia di  Micha van Hoecke  che è un coreografo molto importante, di lui mi piace questa sua introspezione questo suo modo di coreografare con i personaggi e con le persone, ho avuto modo di lavorare molto con lui e poi  c’è un corpo di ballo straordinario ci sono dai 12 ai 14 elementi, tutti ballerini classici che formano la compagnia  di  balletto di Daniele Cipriani e questo mi ha fatto veramente riflettere, nonostante io avessi smesso di calcare le scene più di 15 anni fa al presentarsi di questa occasione ho detto.: “ beh guarda mi fa piacere” poi ti dico la sincera verità avendo io smesso da tempo, essendo avanti con l’età, naturalmente l’età dei danzatori, gli ho detto: “ ma quanti spettacoli abbiamo, cioè è una tournée tipo  quelle dei  balletti classici in cui si fanno 100 date in un anno? ” lui mi ha risposto :” no guarda è uno spettacolo talmente grande talmente importante e imponente che sicuramente arriveremo al massimo a 10 /15 date in tutto”  allora mi sono tranquillizzato ho detto: ”va bene si può fare l’impegno non è così costante”   e dunque ci siamo  accordati sulle date. Questo spettacolo devo dire è molto bello, io l’ho  visto in anteprima in video  in uno schermo abbastanza grande proprio a casa di Cipriani e devo dire che ne sono rimasto affascinato, è molto particolare non puoi immaginare, c’è questa musica dirompente che ti  avvolge perché noi ballerini abbiamo alle spalle, su una piattaforma di  un 1 m 1 ½ m più alta del  palcoscenico questo gruppo fantastico di musicisti ,  sono tutti professionisti molto molto bravi e  tre coriste con delle voci eccezionali e allora  mi son detto, ma questa occasione non me la  posso perdere  e poi non è la danza che conosciamo noi cioè la danza che ho frequentato io nel senso che non è il balletto classico è qualcosa di molto  particolare, racconta la storia terribile di quest’uomo geniale che ha attraversato momenti umanamente terribili, legati alla droga e all’alcol, insieme a momenti di straordinario e prolifico percorso artistico e musicale tanto da farne una leggenda” 

Come si è arrivati alla scelta Raffaele Paganini per questo ruolo, com’è nata questa collaborazione ?

“guarda, purtroppo il tutto nasce da un piccolo problema, vale a dire che questo spettacolo doveva essere interpretato dal caro e grande amico Denis Ganio, purtroppo Denis doveva subire un intervento all’occhio e sai, io  l’ho capito perfettamente , perché quando hai una certa età, lui è leggermente più grande di me, ed hai una  deficienza fisica questa ti può veramente destabilizzare. Mi ricordo che lui già dimostrava una certa titubanza riguardo la sua partecipazione e diceva “io non so se ho ancora voglia di farlo” poi è successo che lui parlando con  Daniele Cipriani e con la moglie di Misha dice “guarda io non lo so se mi sento di continuare, ma scusate ha detto , io so che  tra Raffaele e Misha  c’è un rapporto professionale molto importante ma anche di grande amicizia per cui Raffaele lo conosce talmente bene, ci ha lavorato talmente tanto che probabilmente potrebbe essere una valida alternativa, è quindi nato tutto da questa strana combinazione, Denis ha detto a Daniele di contattarmi  per verificare la mia disponibilità e così è stato , mi ha chiamato e mi ha esposto tutta la situazione, io l’ho assolutamente capita e ho capito che probabilmente poteva essere il mio  tra virgolette addio definitivo alle scene, anche se ufficialmente  c’era già stato,  perché 12 anni fa avevo decisamente smesso di danzare e quindi ho detto: ”ti voglio ascoltare Daniele, parliamone perché voglio capire”, e lui mi ha raccontato tutta la storia, sapeva della mia amicizia con Misha e quindi tutto è partito da una situazione chiaramente favorevole , Paolo ti dico la verità, dopo averlo ascoltato attentamente nell’esposizione del progetto gli ho detto: “ guarda  se devo danzare ti chiedo scusa ma non sono più nell’età, non me la sento più non voglio ballare, poi se devo fare che ne so  una parte del tipo Doge nel Giulietta e Romeo te lo faccio pure parliamone, però danzare proprio no, non voglio più muovere passi  come dire coreografati di danza in scena. Lui ha detto: ”no guarda adesso te lo faccio vedere, ti do un link dello spettacolo” , mi ha mandato il link ed ho visto una sorta di trailer dello show dopodiché  l’ho richiamato: “ guarda vediamoci e parliamone” la cosa mi sembrava interessante quindi ci siamo incontrati come ti dicevo abbiamo parlato un pochino e lui mi ha tra virgolette convinto, ma ero già predisposto a fare questa nuova esperienza e sai cosa mi ha portato veramente nella mia decisione finale ? il fatto che  lui mi ha fatto vedere anche le prove di tutto il  balletto e mentre Misha parlava con il corpo di ballo e spiegava quello che era la sua idea , quello che avrebbe voluto in quel gesto cosa voleva raccontare cosa voleva dire, io sapevo già la risposta sapevo già la risposta perché avendo lavorato tanto con lui già sapevo che, se fossi stato io lì , cosa mi avrebbe chiesto  e cosa io gli avrei risposto quindi tutto collimava, sembrava tutta già predisposto  e allora ho detto: “ senti ci sto ci sto facciamolo, facciamo questa esperienza insieme, lavoriamo insieme”. 

Quanti saranno gli spettacoli programmati?

 “gli spettacoli non sono tanti perché come ti dicevo prima non è più il caso che io insomma mi metta a fare le tournée che si facevano una volta e poi sono rimasto scioccato dalla mia ultima tournée che è stata quella di 7 spose per 7 fratelli dove ho fatto 750 spettacoli, facevamo 2020 spettacoli l’anno quindi ho detto fermi tutti , un attimo io ho anche una vita ho una moglie dei figli ho i miei meravigliosi cagnolini che mi aspettano e poi alla fine  tu  Paolo sei  come me, a 25 anni hai deciso di sposarti e mettere su famiglia e di fare dei figli e  vivere una vita tra virgolette normale. Ad un certo punto  devi anche assumerti la responsabilità di questo, quindi ho messo su  famiglia perché volevo essere padre perché volevo essere marito perché voglio essere una persona normale nonostante ami in maniera smodata  la mia arte il mio lavoro, insomma avevo veramente desiderio di costruire anche qualcosa di diverso infatti dopo 7 mesi avevo già un figlio poi subito dopo ne ho avuto un altro, questo Shine però è un passaggio della mia seconda  vita artistica perché ora come sai  io insegno non faccio il coreografo perché non sono capace non so fare coreografie  è un talento che non ho quindi non mi cimento proprio, mi è stato chiesto più volte perfino in Rai mi hanno chiesto di fare delle coreografie, quelle un pochino più classiche, però ho sempre rifiutato, quello non è il mio mondo.  

Quindi il diamante torna a brillare?

Amico mio, sai quanto io ami stare in scena, mi sono detto , faccio questa ultima esperienza, la voglio fare. 

Negli ultimi anni ti sei dedicato molto all’insegnamento, la cosa ti soddisfa?

insegnare mi diverte tantissimo perché come  diceva il buon Derevianko “noi purtroppo non sappiamo insegnare male sappiamo insegnare solo bene perché a noi hanno insegnato la danza bene, il tendu va fatto bene in quella maniera e dunque non abbiamo deviazioni, noi lo sappiamo fare solo  bene quindi lo possiamo insegnare solo bene, e questo è un vantaggio per gli allievi ed è giusto che sia così, perché insomma veniamo da  scuole importanti, dove la disciplina era al primo posto.

Se ti conosco bene, quando poi decidi di fare una cosa la fai con tutti i crismi?

Lo sai come la penso, mi sono detto, ma perché, no perché no, poi ne ho parlato anche Debora con mia moglie e che come sai lei è un ex  ballerina del Teatro dell’Opera di Roma mi ha detto .”ma guarda Raffaele fallo “, perché io insomma, mi dispiaceva magari devo andar via devo partire, poi abbiamo visto che le date, non erano tantissime sono così a grappolo ed ho deciso di chiamare Daniele dopo un paio di giorni ho detto:” Daniele dai, accetto iniziamo le prove, abbiamo iniziato le prove ed abbiamo poi debuttato a Pisa  quest’estate, è stato il  primo spettacolo. 

Questo progetto mi ha trovato piacevolmente predisposto perché  c’è  molta danza dentro c’è tanta tanta danza si danza dall’inizio alla fine, si ascolta musica meravigliosa  suonata da  ottimi professionisti ed è una buona occasione per ricalcare le scene senza avere la presunzione di danzare perché insomma poi purtroppo la vita è questa no? si cresce l’età cresce insomma basta va bene così è perfetto così, questo ruolo è assolutamente  adatto a me, con questo non ti dico che cammino in scena facciamo anche delle piccole evoluzioni però sempre molto molto controllate molto dosate senza cadere mai nel, se vogliamo, scusami dico una parola che fra artisti non si dovrebbe dire cadere nel ridicolo, perché la mia paura è sempre stata questa e in effetti tu sai che io ho smesso di danzare la mia danza cioè lago dei cigni , lo schiaccianoci il il Don Chisciotte il corsaro che era vabbè il mio cavallo di battaglia, ho smesso di danzare perché  intorno ai 36 anni ho detto basta non mi andava più di mettermi la calzamaglia di vestirmi in quel modo ero un uomo avevo già due figli avevo delle responsabilità avevo i mutui da pagare avevo un sacco di cose che non mi portavano più ad essere quel giovincello che  guizzava all’interno del palcoscenico per cui al 36 anni ho detto basta. Poi ho continuato facendo altre cose tipo Zorba il greco che insomma ne avrai memoria, è stato anche quello un grande successo però era tutto molto diverso non era più quella danza per la quale io ero preparato. Ero pronto quindi, bello, perché questo stop l’ho deciso io, ho detto basta non voglio più calcare il palcoscenico, basta non lo voglio più fare e questa reentre così improvvisa mi ha dato un un guizzo di gioia e questo guizzo di gioia me lo sto, ti dico la sincera verità Paolo, me lo sto godendo tutto e vado in scena e lo faccio come possiamo dire, lo faccio con dignità e lo faccio con tanto tanto piacere.” 

Raffaele questa chiacchierata tra amici, la direi così, è veramente piacevole e non ho difficoltà a dirti che secondo me   sei stato uno dei pochi danzatori italiani che è stato in grado fino ad oggi di vivere la danza con la naturale evoluzione sia fisica che psicologica perché non vedo nel panorama mondiale tantissimi danzatori che hanno saputo vivere la loro età in modo coerente tu invece hai saputo gestire la tua età con consapevolezza e l’intelligenza che ti ha sempre contraddistinto ed hai affrontato ad esempio il discorso televisivo con naturalezza portando anche la bella danza come all’epoca era in televisione 

guarda Paolo io naturalmente sono assolutamente d’accordo con te, la danza che noi portavamo all’epoca in tv, parliamo di metà anni 80 più o meno, la mia prima trasmissione fu Fantastico due eravamo io Heather Parisi che comunque era una danzatrice che veniva dal classico, la stessa Fracci, ha approcciato la televisione, quindi io mi ricordo benissimo  quell’edizione di Fantastico era un periodo molto florido, la mia fortuna è stata quella di essere arrivato per primo, voglio dire dal teatro alla tv. Avevo decine e decine di richieste specialmente televisive e anche dalle compagnie private ed  enti lirici, Io ho avuto la fortuna di capire che al mio fianco avrei dovuto mettere sempre persone di alto livello. In quella edizione di fantastico, c’era Mario Pistoni come coreografo, cioè voglio dire un personaggio del nostro mondo della danza classica per antonomasia poi  c’era  Oriella Dorella e poi un bel corpo di ballo alcuni presi dalla Scala di Milano addirittura,ricordo che Mario mi diceva che faceva le audizioni ma era molto severo e voleva prendere tutti ragazzi che  avessero questa duttilità, il fatto di poter stare all’interno di questo mondo così pieno di lustrini,  però facendo cose ben mirate insomma modernizzando il tutto ma tenendo sempre la nostra base che era la nostra forza, il classico. Il mio successo lo si deve alla gente che da lì ha iniziato a capire qual’era la differenza tra il ballo della televisione e la danza televisiva, erano due mondi, poi l’avvento di Carla Fracci, Luciana Savignano e Oriella Dorella ha portato ancora più sicurezza e ancora più forza all’interno di questa kermesse televisiva, noi lì eravamo realmente gli ospiti eravamo un lumicino nella notte di uno sconosciuto, proprio eravamo lì piccolini messi là, però avevamo il nostro spazio, tiravamo come dire artisticamente fuori le unghie e ricordo che, non so Paolo  non mi vorrei sbagliare correggimi, ma noi facevamo tipo 8 minuti di balletto e costruivamo proprio una storia, non erano sicuramente gli stacchetti che sono arrivati dopo in televisione, insomma era qualcosa di estremamente impegnativo, voglio dire che dovevamo adeguarci a quel mondo che ci ospitava e dovevamo dare il meglio. Ne sono grato perché poi è stata parte anche della mia popolarità però sempre ho cercato di fare qualcosa che fosse a livello di quella disciplina che io amavo e conoscevo che era la danza classica” 

Io credo Raffaele che questa sia diventata più che un’intervista rivolta a Shine, una monografia su Raffaele Paganini il che non può che farmi piacere, per cui volevo chiudere con questa piccola provocazione: come si sta evolvendo secondo te la danza contemporanea?

“beh qui purtroppo tocchi un tasto molto delicato , è una bella provocazione però io ti dico, con il mio temperamento al di la della mia attitudine, proprio la danza sia moderna che contemporanea, se rinascessi oggi  studierei tantissima danza classica come base, adoro talmente tanto il bel contemporaneo  che purtroppo non lo so interpretare bene perchè non mi appartiene. 

A me piace molto e nella mia piccola se vogliamo piccola esperienza trovo che ci sia stata  da ieri a oggi una buona evoluzione ma circoscritta a situazioni di grande professionalità come per esempio in  Germania c’è stata un’evoluzione della danza contemporanea straordinaria, devo dire che sono talmente affascinato dal mondo della danza che lo amo tutto, ovviamente è un po’ come la danza classica che se non è fatta più che bene diventava noiosa ma molto noiosa, e la stessa cosa vale per la danza contemporanea, ogni tanto scusami faccio un piccolo inciso, vedo su questi social in Internet delle variazioni  di ballerini e ballerine allucinanti, fantastici, bellissimi, ecco quella danza contemporanea mi piace e mi entusiasma tantissimo, vuol dire che se c’è uno solo che lo sa fare in quel modo che è evoluto a quel livello vuol dire che c’è stato un lavoro dietro, poi dipende dalle generazioni, a quanto si impegnano affinché possano apprendere e capire che la danza contemporanea senza la danza classica diventa molto molto complicata” 

Secondo me dovrebbero istituire proprio un repertorio di floor work , i ballerini nel lavoro a terra spesso vanno anche bene ed hanno movimenti molto molto interessanti però poi quando si alzano in piedi e si avvicinano alla danza  lì diventa complicato diventa molto molto difficile e spesso sono impacciati.

è stata veramente una chiacchierata piacevolissima, come sempre, ti auguro tanto tanto successo per questa parte della tua vita di danzatore. Per concludere vuoi darci qualche data? dove ti porterà la tournée ?

“avremo il 3 Febbraio qui a Roma al teatro della conciliazione e poi il 21 Marzo saremo a Firenze al Teatro Verdi e poi  Bologna ed altre città importanti.”

Raffaele, in bocca al lupo per la tua tournée e tantissimi complimenti per il tuo ritorno alle scene-

“ Grazie a te Paolo ed un caro saluto a tutti gli studenti del DAMS di Torino”

Giuseppe Paolo Cianfoni 

AL SISTINA IL MARCHESE DEL GRILLO

Dalla pellicola al palcoscenico un’operazione riuscita

Siamo da tempo abituati alle versioni cinematografiche di grandi opere letterarie e teatrali o best seller della narrativa trasformati in film campioni d’incasso. Non c’è opera di Shakespeare che sia sfuggita alla celluloide, anche se non tutte le operazioni sono state degne della matrice originale.

In questo caso ci troviamo invece a ragionare di un film che diventa una commedia musicale, quindi una rappresentazione teatrale. Una operazione tutta made in Italy quella della commedia musicale che ha origini nobili, non dal punto di vista sociale bensì per la caratura degli attori e registi che hanno dato vita ad un filone teatrale tutto italiano, appunto quello della commedia musicale e della rivista , da non confondere con il musical d’oltreoceano che seppur di matrice analoga è più votato alla produzione cinematografica. 

Tornano alla mente grandi nomi come Carlo Dapporto, Erminio Macario, Delia Scala, Aldo Fabrizi, Ettore Petrolini, Gino Bramieri, Lauretta Masiero, Totò, Alberto Sordi, Renato Rascel ed ancora Vittorio Gassman, Gigi Proietti, Enrico Montesano, Monica Vitti, Jonny Dorelli. Tutti grandi interpreti che proprio con questi generi teatrali hanno fatto come si dice la gavetta , eccezion fatta per Gassman artista dalle profonde radici classiche che nella sua lunga carriera è riuscito a passare con straordinaria disinvoltura da ruoli classici a innumerevoli divertissement cinematografici e televisivi, guadagnandosi la popolarità del grande pubblico.

Il film

Quando si nomina il Marchese del Grillo immediatamente torna alla mente Alberto Sordi e la sua grande interpretazione nel film del 1981 per la regia di Mario Monicelli.  La pellicola prende spunto da una figura storica realmente esistita, racconta la Roma papalina di inizio ‘800 attraverso un tracciato carico di ironia e spregiudicato sarcasmo di cui il nobile romano è protagonista assoluto, e consegna uno straordinario Alberto Sordi e il film stesso alla storia della comicità cinematografica.

La trama

Siamo a Roma agli inizi XIX secolo  e il potere della chiesa e quindi del pontefice Pio VII è pressoché   totale. Qui vive il Marchese Onofrio del Grillo, Guardia nobile del Papa. L’ozio e l’organizzazione di scherzi ai danni di nobili e popolani sono il suo passatempo preferito , frequenta bettole e osterie, coltivando relazioni amorose clandestine con popolane e tenendo un atteggiamento ribelle agli occhi della sua famiglia, tra cui emerge la figura della madre bigotta e autoritaria.

Le sue giornate sono caratterizzate dall’irrefrenabile desiderio  di prendersi gioco del prossimo senza far distinzione di razza, sesso e strato sociale,  non risparmiando neppure la sua famiglia oltre allo stesso Papa. La sua spregiudicatezza senza limiti prosegue liberamente fino al giorno in cui Napoleone invade lo Stato Pontificio e i francesi entrano a Roma arrestando il Pontefice, a guardia del quale ci sarebbe dovuto essere proprio Onofrio che, invece di assicurarne l’incolumità abbandona la postazione per dedicarsi al suo passatempo preferito. Durante il periodo d’occupazione il Marchese incontra una giovane e bellissima attrice, primadonna di una compagnia francese che debutta al Teatro dell’Opera e allaccia amicizia con un giovane ufficiale di Napoleone. I discorsi di libertà del giovane e la visione moderna ed emancipata dell’attrice esaltano il Marchese al punto da indurlo a lasciare Roma per trasferirsi a Parigi. La disfatta di Napoleone a Waterloo pone la parola fine al sogno e ristabilisce le vecchie gerarchie, il Marchese del Grillo torna a Roma dove ad accoglierlo trova un clima ostile e una condanna a morte, decisa dallo stesso pontefice, per il suo alto tradimento nei confronti del Papa. Naturalmente la commedia non finisce in tragedia bensì con un finale a sorpresa, infatti il Marchese che sta per essere giustiziato altri non è che una povera vittima di uno dei tanti scherzi del nobiluomo, un povero carbonaio che è la copia perfetta del Marchese il quale, con la complicità del suo fedele servitore, mette in scena la sua burla migliore.

Il marchese in teatro

Il Sistina è per antonomasia il teatro della commedia musicale, chi non ricorda Aggiungi un posto a tavola, Accendiamo la lampada, Alleluja brava gente, grandi successi di pubblico e grandi incassi tutti firmati Garinei e Giovannini. Il pubblico romano e non solo attende la prima del Sistina come quello scaligero a Milano, una tradizione che accomuna un pubblico eterogeneo e voglioso di una parentesi di ilarità ed a volte di irriverenza nel pieno rispetto dei canoni romani: non a caso il fil rouge del Marchese del grillo è proprio lo sfottò e lo scherzo a tutti i costi. Così la trama della commedia si espande e straripa, toccando il politico il sociale ed il religioso presentando pennellate di una Roma sempre attuale con le sue problematiche e le contraddizioni che la caratterizzano e la rendono popolare nel mondo. Dopo una magistrale interpretazione di Enrico Montesano andata in scena nel 2016 con grande successo di pubblico e critica seguita da una altrettanto riuscitissima tournèe Italiana, è stata la volta di Max Giusti che si è consacrato degno successore dell’Albertone nazionale. Le due edizioni entrambe firmate da Massimo Romeo Piparo si incasellano in modo inequivocabile nella collezione dei grandi successi dello storico teatro romano. Lo stesso Piparo, a conferma della continuità vincente dello spettacolo ha voluto il medesimo cast di attori e ballerini della precedente edizione. Anche per questa edizione si profila una tournée nazionale, mentre per soddisfare le numerose richieste del pubblico e viste le numerose repliche sold-out di ottobre e novembre,  la commedia musicale campione d’incassi e di risate, tornerà al Sistina in maggio 2023.

Giuseppe Paolo Cianfoni

DANTE TRA LE FIAMME E LE STELLE – MATTHIAS MARTELLI

Un giullaresco poeta

Per la stagione Out Of The Blue, il Teatro Gobetti, dal 22 novembre al 4 dicembre 2022, ha presentato Dante tra le fiamme e le stelle, dell’attore e autore Matthias Martelli, con la consulenza storico-scientifica del professor Alessandro Barbero. L’adattamento teatrale vede la regia di Emiliano Bronzino e la partecipazione della violoncellista Lucia Sacerdoni, che accompagna l’attore in tutto il suo monologo. 

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DALL’UNIVERSO DI TUTTO BRUCIA, ECUBA E CASSANDRA BY MOTUS

TRA CONTRAPPUNTO E DISARMONIA

Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler essere in accordo con tutti. Le cose grandi ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze ai sottili, le rarità ai rari

(Friedrich Netzsche)

Come ci suggerisce Marianna Tomasello “L’idea che l’universo sia un tutto ordinato e ben connesso in ogni sua parte è un tratto comune al pensiero cosmologico greco […] La convinzione che l’universo sia strutturato secondo delle regole e proporzioni precise è rintracciabile già nei miti cosmologici che tengono inoltre conto che l’ordine stabilito dal dio sia un ordine opportuno e, accordando ogni elemento al suo interno, sia conveniente e miri a un fine”.

Quest’idea greca del cosmo come “ordinato”, “proporzionato” e “accordato” si organizza attorno a dei modelli che toccano diversi ambiti semantici ma il più diffuso che assume un posto di rilievo per la vastità di letteratura a riguardo è l’ARMONIA intesa in senso musicale.

Ma nel caso specifico della tragedia “la musicalità” dell’universo non è mai rappresentato attraverso l’immagine familiari dell’armonia delle sfere: i termini che la esprimono rimandano piuttosto alla sfera del canto e a quell’idea del potere magico della parola, che trova dimostrazione in quella capacità reificante della parola del dio.

Tomasello prosegue dicendo che nei processi di simbolizzazione, propri del pensiero tardo arcaico, si pongono le basi per una rappresentazione del mondo secondo i termini delle scienze musicali sottolineando questa particolare attenzione al canto.

Questa premessa diventa interessante nel momento in cui ci troviamo ad analizzare i due spettacoli dei Motus: You were nothing but wind e Of the Nightingale I envy the fate che ci propongono l’approfondimento di due importanti figure femminili della tragedia greca che arrivano da quell’universo apocalittico delineato in Tutto Brucia in cui veniva brutalmente mostrato il mondo de Le troiane di Euripide.

I due lavori proposti decidono di indagare ognuno la linea narrativa di un personaggio, approfondendo il mondo interiore di Ecuba in You were nothing but wind e di Cassandra in Of Nightingale I envy the fate.

Partiamo per entrambi gli spettacoli da un assunto comune: il “mondo” dal quale provengono Ecuba e Cassandra è ormai bruciato. Persino il loro legame di madre e figlia è ormai estinto, tanto da doverle indagare separatamente senza più alcun nesso tra loro. Entrambe profanate nel corpo e nello spirito vivono l’impossibilità di un risanamento. Quest’ordine perduto per sempre porta a uno stravolgimento del sé, che si concretizza nell’unico atto possibile: il “suicidio” dell’umano. Questo scenario apocalittico produce un universo disarmonico in cui la parola non solo non è più magica, incapace di reificare, ma perde ogni scopo: in assenza di un dio, in assenza dell’uomo, non è più musica, non è più canto.

Quindi che rimane? Cosa ancora una volta può emergere da quelle ceneri, “pronta a testa bassa a continuare, perché ancora una volta, non era previsto che sopravvivesse”?

La bestialità.

Come si legge nell’Ecuba di Euripide, alla fine la donna accetterà di essere trasformata in una “cagna dagli occhi di fuoco”, sostituendo alle parole/canto dissonanti latrati.

Questo latrato cacofonico stona e risulta sgradevole all’udito, proprio perché rappresenta una trasgressione alle regole sia della prassi musicale che della forma tradizionale del genere poetico. Ma il mancato rispetto di un sistema di riferimento comunemente accettato costituisce un elemento di disturbo che ha l’effetto di risultare estremamente sgradevole e irregolare, esattamente come estremamente sgradevoli e irregolari sono state le vicende vissute da Ecuba. Quindi in questa demoniaca trasformazione in cui l’usurpatore vince persino la natura umana di Ecuba, il suo latrato è un atto di ribellione che vuole apertamente contrapporsi all’ARMONIA di un sistema ingiusto.

Nei testi della letteratura greca il “canto” di Cassandra è spesso paragonato a quello di un usignolo perché come quella dell’uccello anche la sua voce è forte e acuta, non solo per dar sfogo al dolore, ma perché vuole o deve farsi sentire. Nello spettacolo la metamorfosi animalesca fa sì che le parole/canto delle sue profezie vengano tramutate in acuti cinguettii di usignolo. Un usignolo a cui sono state strappate le ali e a cui è impossibile fuggire, condannato a strisciare nella terra come condizione che non gli appartiene. L’acutezza del suono, insieme alla forte emotività che lo connota, è funzionale perciò ai contenuti che si vogliono veicolare, e come per Ecuba questa scelta formale costituisce nello stesso tempo impossibilità di comunicazione verbale che diviene cifra espressiva.

Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra

rapida rota o turbine veloce.

Sembra la lingua, che si volge e vibra,

spada di schermidor destro e feroce”.

(da Canto dell’usignolo di Giovan Battista Marino)

Nel flyer che accompagna lo spettacolo dedicato a Cassandra si legge che stiamo assistendo a una “performance-grido” che precede l’ingiusta uccisione della giovane. All’interno della sua maledizione di profeta non creduto, il grido di Cassandra diviene non solo contrappunto che si sviluppa come linea melodica indipendente rispetto a ciò che accade, in quanto deve ancora accadere, ma è al contempo un canto funebre, una lamentazione che ella intona per se stessa.

Un altro elemento che accomuna entrambe le performance è la scelta di connotare i personaggi all’interno di una dimensione che evoca antichi rituali sciamanici, come dichiarato nello stesso flyer dello spettacolo su Cassandra:

Un rito sciamanico dove si fondono la stereotipica fragilità femminile e il suo spirito di vendetta infuocato, le funeste visioni del futuro, come la prodezza animale, l’eleganza del gesto e dello sbattere di ciglia […] in dialogo con una luce mobile (d’oltremondo?) che la insegue e la sfida.

In questi scenari post-umani il tentativo di ricorrere ad un tramite sciamanico, che come è noto utilizza spesso nei suoi riti elementi musicali, per risanare l’insanabile, lo ritroviamo anche nello spettacolo dedicato a Ecuba. Pensiamo infatti alla scelta di mettere il pubblico in cerchio attorno a un cumulo di cenere dal quale emerge, non come fenice, ma come animale ferito, relitto, sopravvissuto, la “cagna” Ecuba.

Immaginatevi seduti in un cerchio con gli altri membri della vostra comunità. Vi siete raccolti insieme per sostenere un membro della comunità che sta soffrendo a causa di una esperienza traumatica. Sapete che una persona sta soffrendo e che la malattia va ad influenzare l’intera comunità. Così sei arrivato per aiutare e per mantenere sacro lo spazio, affinché avvenga la guarigione.

(in merito allo sciamanesimo in Recupero dell’Anima. Guarire il Sé Frammentato di Sandra Ingerman)

Ma all’interno di questa circolarità e nonostante il tentativo di Ecuba di avvicinarsi al pubblico con l’illusione di trovarci uno sciamano tramite di guarigione, la salvezza è una chimera. Intanto perché noi non siamo la comunità a cui Ecuba appartiene, comunità che è stata annientata, ed è chiaro il nostro totale disinteresse a farla entrare nel cerchio della nostra comunità. Lei infatti non siede accanto a noi, si pone difronte a noi con le sue ferite esposte, urlante, con quei dissonanti latrati. Non nostro il compito di una sua ipotetica guarigione, né tanto meno vogliamo assumercene la responsabilità.

Al massimo proviamo compassione là dove non sentiamo ribrezzo, per quell’essere intenzionalmente sgradevole che manifesta così il suo ultimo atto di protesta. E l’intervento del deus ex machina arriva come atto risolutivo nei confronti del nostro dramma interiore di spettatori, non per quello di Ecuba, che si è già risolto ancora prima di emergere da quelle ceneri. Il dramma è il nostro ed è in quella battaglia tutta interiore di vincere quel turbamento di dover condividere uno spazio così angusto ed intimo con la sgradevolezza di un reietto. Quel turbamento nell’essere costretti a non poter distogliere lo sguardo da quelle oscene ferite.

Quindi l’arrivo di un uomo in tuta da lavoro che con una spazzatrice tira via quello che rimaneva delle ceneri e ciò che rimaneva della stessa Ecuba, salva noi dall’imbarazzo. Adesso il campo è sgombro, è finita, possiamo ritornare al nostro ordinato e armonico orticello, ripulito dal putrido fogliame, incapaci come siamo di imparare alcuna lezione, nonostante i recenti avvenimenti. Incapaci di comprendere che dalla “salvezza”, dalla “guarigione” dell’altro dipende anche la nostra.

Destinati all’estinzione perché troppo incivile e selvatico ci appare il talento, in fondo atavico, dello sciamano.

Nina Margeri

Per i riferimenti agli spettacoli si rimanda ai rispettivi link:

You were nothing but windhttps://www.motusonline.com/en/tutto-brucia/you-were-nothing-but-wind/

Of the nightingale i envy the fateOf the nightingale I envy the fate | Motus (motusonline.com)

UNA BALLATA PER LA MORTE

[…] Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese- Verrà la morte avrà i tuoi occhi.

Il 6 novembre 2022 è andato in scena Ombelichi tenui, una riflessione sul fine vita. Per il lungo progetto coreografico, dalla durata di quattro anni, i due co-autori ed interpreti Filippo Porro e Simone Zambelli hanno collaborato con le tanatologhe Ana Cristina Vargas e Marina Sozzi.

Subito le maschere vengono tolte per rivelare i volti di Filippo Porro e Simone Zambelli. Il viaggio ha inizio. I due performer esplorano lo spazio, interagiscono con esso e tra di loro. Una sintonia iniziale fa presto spazio a una situazione più tesa. Quando l’uno uccide l’altro (e viceversa) si materializza un’ulteriore domanda: quali possibili comportamenti di fronte ad un corpo morto? Come toccare un morente?

Entrato nel foyer della Lavanderia a Vapore, il pubblico è fornito di alcuni sassi con i quali si chiede di rispondere ad una serie di domande sulla morte e sulla percezione degli spettatori riguardo ad essa. “Hai paura della morte? Hai mai pensato di voler morire? Vuoi che rimanga qualcosa di te dopo?”.

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TRILOGIA DELLE MACCHINE – Chiacchierata in-formale con Giuseppe Stellato e Domenico Riso

Durante la 27esima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andata in scena alla Fondazione Merz La trilogia delle Macchine ideata e diretta da Giuseppe Stellato, artista visivo e scenografo.

Lo spettacolo è decisamente interessante per la presenza in scena di “attori” inusuali. Dove nasce l’idea di far raccontare storie a delle macchine?

GS: Prima di tutto da una grande curiosità. Il mio lavoro da scenografo mi ha dato sicuramente la possibilità di vedere le cose da una prospettiva diversa, osservando la meccanica di alcuni oggetti quotidiani dall’interno.

Poi siamo stati invitanti nel 2018 alla Biennale di Venezia che proponeva un tema dal titolo Atto Secondo: Attore/Performer per presentare un’istallazione performativa, e in quell’occasione abbiamo presentato Oblò e Mind the Gap.

Siamo partiti dalla domanda: Cosa succede in teatro se a “raccontare” sono gli oggetti? Ci divertiva molto ragionare sull’idea che una macchina potesse essere allo stesso tempo attore e spazio, o per meglio dire scenografia, luogo, dove accade l’azione.

Ricordiamo che la trilogia è formata da tre quadri che hanno come soggetto tre macchine differenti: una lavatrice, un distributore di snack e bibite e un bancomat ATM. Come mai la scelta di utilizzare proprio questi oggetti?

GS: Il soggetto di Oblò prende spunto da quel video virale di qualche anno fa che girava su YouTube dove alcuni ragazzi mettono un mattone dentro una lavatrice e poi l’azionano, dando vita ad una sorta di autodistruzione che abbiamo trovato di una violenza indicibile. 

Questo spunto ci ha dato la possibilità di riflettere in maniera differente sulla realtà, raccontando, in linea con la violenza del filmato di YouTube, un fatto di cronaca altrettanto violento: il corpo del bambino siriano ritrovato sulla spiaggia.

La foto di quel corpo ha avuto un’eco inimmaginabile su tutti i social globali. Per noi partire da quel soggetto di realtà è stato il pretesto per utilizzare un altro medium, in questo caso la lavatrice, che, come i social, ci costringe a prendere le dovute distanze da fenomeni feroci e cruenti come quello.

Quindi l’uso che fate dell’ironia è un altro strumento che utilizzate per prendere le distanze?

GS: Ah sì!!! Avete davvero colto degli elementi di ironia?!? Ci fa molto piacere, perché temevamo che il soggetto potesse essere troppo drammatico. Effettivamente dei momenti ironici ci sono e siamo contenti che li abbiate notati.  Sono nati dall’improvvisazione e dal nostro genuino divertimento in scena.

Torniamo ai temi tratti dagli altri quadri…

GS: Per Mind the gap, frequentando spesso le stazioni dei treni, mi sono più volte ritrovato a guardare con interesse e stupore il distributore di merendine notandone il potenziale espressivo. Abbiamo cominciato a divertirci studiando i meccanismi interni delle macchine e come potevano essere utilizzati per raccontare delle storie. Abbiamo voluto esplorare la relazione del corpo di un performer che passa nella relazione con la macchina da essere mero spettatore a tecnico che dà il via all’azione.

Nelle prime due storie sono state usate due macchine di uso quotidiano ma una con una funzione privata (la lavatrice) e l’altra con una funzione pubblica (il distributore di merendine).  Il terzo quadro è stato il naturale evolversi di un percorso che si andava via via delineando. Così nel Bancomat troviamo la sintesi delle due funzioni degli oggetti precedenti: un oggetto pubblico che conosce in maniera inquietante il nostro privato.

E tu Domenico, come ti sei trovato ad abitare una scena che era la protagonista assoluta rispetto al tuo agire satellitare?

DR: Va detto che io non sono un attore e in realtà neanche un performer. Io sono un tecnico, e mi sento molto a mio agio come “uomo delle macchine”. Conosco molto bene il loro funzionamento e so bene quello che possono fare. Per esempio molto del lavoro è stato fatto in scena durante improvvisazioni in cui montavamo e smontavamo le macchine scoprendone le varie possibilità comunicative. Interessante ci è apparso sin da subito il loro suono originale che abbiamo mantenuto in presa diretta durante gli spettacoli. Questo ci ha permesso di costruire un linguaggio vero e proprio sopra al quale abbiamo montato altre tracce audio che si andavano in alcuni momenti a sovrapporre e in altri ad affiancarsi istaurando un dialogo vero e proprio. Da questo incontro sono nate suggestioni che ci sembravano avere tanto da raccontare.

Come mai nel terzo quadro l’uomo delle macchine compare pulendo la scena invece che interagendo da subito con la macchina? Qual è il significato del pulire lo spazio? 

Il terzo quadro nasce per completare una trilogia che, come dicevamo, si è andata delineando in maniera naturale e organica; quindi, ci piaceva l’idea di ricominciare ripulendo una scena che nel quadro precedente era stata sporcata da tutti gli oggetti che cadevano giù dal distributore. Inoltre, visto che nei primi due quadri avevamo simbolicamente tracciato delle linee di confine, la linea rossa di Oblò e quella gialla di Mind the gap, con questo gesto abbiamo anche voluto sottolineare la volontà, prima di marcare e poi di cancellare questi confini tra soggetto e oggetto proponendo una soluzione in cui il privato e il pubblico si trovano inglobati su uno stesso piano.

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Quella sera erano presenti allo spettacolo anche gli studenti della scuola del Teatro Stabile di Torino ai quali è stato chiesto come avessero percepito l’assenza di una narrazione umana.

I ragazzi hanno risposto di essere rimasti molto colpiti da come, nonostante l’assenza di un attore in scena, le macchine potessero comunque risultare tanto espressive. L’interesse dei ragazzi è stato catturato non solo dalle tematiche trattate ma in modo particolare dall’originalità della loro messa in scena.

Nina Margeri


Teatro&Arte – Una imagen interior, Ecloga XI e La trilogia delle macchine

Dalla 27° edizione del Festival delle Colline Torinesi suggestioni sui tre spettacoli che all’interno della rassegna rappresentano il filone Teatro&Arte. Un viaggio nella poetica dell’umano attraverso il disfarsi delle comunità, la solitudine del maschile e femminile per una mancata redenzione, il perturbante e assordante silenzioso logos delle macchine. Un filo che unisce l’incanto in un crescendo di disgregazione.

“Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom’io, sai splendere
unicamente dell’altrui speranza”

(Andrea Zanzotto – IX Ecloghe)

“La luce del fuoco toglie spazio alla notte

e concede loro un tempo addizionale.

Un tempo per l’astrazione”.

(Da Una imagen interior testo teatrale di Pablo Gisbert)

In questo “tempo per l’astrazione” i pensieri si espandono, attraversano “regni longinqui” e poi ritornano come la luna di Zanzotto o come gli amori di Venditti.

In questo tempo addizionale mi ritrovo ad abitare i luoghi geometrici dei pensieri e come la donna vestita di bianco di Una imagen interior “considero me stessa una persona molto cerebrale”, la certezza della morte attraversa anche il mio corpo, per più di un secondo, ma che rimane comunque un tempo insufficiente. 

“È impossibile pensare alla morte quando si ha fretta”.

TST – Aspettando la nuova stagione riflessioni su quella passata

Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo

(da Anna Karenina di Lev Tolstoj)

Nella scorsa stagione del Teatro Stabile di Torino abbiamo assistito a diversi spettacoli che hanno avuto al centro rapporti familiari, ovviamente quasi sempre conflittuali. Del resto si dice che non sia possibile raccontare una buona storia senza un buon “conflitto” e quale contenitore migliore se non quello della famiglia, per generarne di enormi e sorprendenti. Lo avevano capito molto bene i greci che da “divini” conflitti familiari hanno fatto scaturire l’intera esegesi dell’umanità.

Tra i rapporti familiari più complicati, e probabilmente per questo di maggiore interesse, rimane il più ancestrale tra tutti, quello tra genitori e figli. Ed è proprio questa la relazione al centro dei due spettacoli che vorrei provare a mettere a confronto: Da lontano – chiusa sul ripianto monologo/dialogo scritto e diretto da Lucia Calamaro e interpretato dalla brava Isabella Ragonese; e il ben noto testo di Euripide Ifigenia, uno spettacolo corale diretto e interpretato, tra gli altri, da Valerio Binasco nel ruolo di Agamennone.

Partiamo subito dal riconoscere che entrambi questi spettacoli sono animati da rapporti familiari conflittuali, che sono in realtà il pretesto attraverso il quale si svela una tematica più profonda che è il vero minimo comun denominatore delle due pièce: “la condizione femminile devastata da una società oppressiva e giudicante”, come si legge nella stessa nota dello spettacolo Da lontano. Di particolare interessante è il modo che hanno trovato i due registi di mettere in scena questo tema perché risulta perfettamente identico nella sua specularità. Del resto stiamo parlando di due punti di vista completamente e inevitabilmente diversi, quello maschile di Binasco e quello femminile di Calamaro. In un viaggio che procede dall’interno all’esterno, dal privato al pubblico per quel che riguarda il punto di vista maschile; dall’esterno all’interno, dal pubblico al privato, per quel che riguarda il punto di vista femminile. Dove ragioni pubbliche hanno la meglio sull’animo maschile e ragioni private su quello femminile.

Da lontano – chiusa sul ripianto, nonostante racconti una storia contemporanea, un dramma intimo che riguarda la relazione tra una madre e una figlia, in realtà come abbiamo detto, pone l’accento sulla condizione femminile come qualcosa, come dice lo stesso titolo, che arriva “da lontano”. Un retaggio che troviamo già nei miti greci, in pensatori come Aristotele o in drammaturghi come lo stesso Euripide, ed è proprio in questo che i due spettacoli rivelano un’identica sostanza.  Ma Calamaro parte da un “oggi”, che è ben rappresentato da quel male simbolo della società contemporanea: la depressione, per arrivare a un passato atavico, quel “lontano”, padre di un condizionamento sociale, culturale che è arrivato immutato fino a noi. Un passato che ha avuto come conseguenza estrema l’accettazione, per non dire la pretesa, della sempre totale disponibilità del sacrificio della donna per gli uomini. Nella stessa nota già citata si legge di un “monologo […] sul mondo femminile devastato da una società […] che impone alla donna ruoli limitanti, nei quali ci si sente in trappola fino a non riconoscersi più…”, sottintendendo un andare in pezzi, uno “smembrarsi” o un essere smembrati come atto dovuto (inevitabile non pensare a Ifigenia).

Dal canto suo Binasco proprio nell’Ifigenia procede in maniera inversa, ovvero parte da una storia “lontana”, con il fardello di aspettative formali che una scelta del genere comporta, come scrive lui stesso nella nota di regia, ma “prendendosi la responsabilità” di raccontare, da uomo contemporaneo, con una sensibilità contemporanea, una storia che vuole essere contemporanea. Sempre nella nota di regia si legge infatti:

“Grazie al fatto che sono un uomo del mio tempo che del suo tempo vuole parlare, ho invece ben presente soprattutto la concretezza psicologica contenuta in questa antica favola tragica, e voglio assumermi tutte le responsabilità nel tutelare questa sensibilità contemporanea, essendo in qualche modo certo che la nostra condizione umana è sempre e comunque illuminata dalla rappresentazione mitica…”

Quindi da un lato abbiamo Binasco che mette in atto un processo attraverso il quale tende a smitizzare la “favola tragica”, proponendo, attraverso quella “concretezza psicologica”, non archetipi, modelli, con cui siamo abituati a confrontarci quando ci accostiamo al mito ma complessi esseri umani con tutte e in tutte le loro sfaccettature. Dall’altro in Da lontano avviene il processo inverso grazie al quale, più che ricorrere a una “concretezza psicologica” si ricorre a una “concreta analisi psicologica” che tenta di sciogliere quella complessità dell’essere umano per trarne modelli, archetipi, più facilmente riconoscibili, che possono essere più facilmente compresi, ascoltati e per questo perdonati. Viaggi diametralmente opposti che da un lato portano verso la malattia, la schiavitù, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie uniche e specifiche passioni, senza la pretesa di essere un modello, un viaggio anti-catartico da un lato (in questo consiste la demistificazione di Binasco) e dall’altro un viaggio che porta, all’opposto, ad una salvezza, una guarigione che scaturisce proprio dall’analisi di una mente lucida e razionale che guarisce nel momento in cui riesce a liberarsi da quel groviglio di passioni che gravano come ipoteca del passato sul cuore di una donna (intesa come archetipo).

Dal punto di vista della messa in scena anche qui scelte simili, all’insegna della semplicità e del togliere. In entrambi i casi, scene e costumi dalle linee pulite, pochi gli oggetti di scena, pochi i colori e tutti molto tenui e neutri con alcune eccezioni studiate ad hoc, anche se in Binasco assistiamo a un rigore maggiore nella scelta di far persino a meno del palco che se da un lato risulta coerente con quest’ottica della sottrazione, dall’altro è decisamente in linea con secoli di tradizione tragica. L’azione infatti è collocata al centro di un grande spazio rettangolare, il pubblico è distribuito su spalti laterali che costeggiano i lati più lunghi di quello che è a tutti gli effetti un teatro di posa ridotto all’essenza, “spoglio di richiami visivi fini a sé stessi” come dichiarato nella stessa nota di regia. Questo spazio vuoto viene attraversato dai molti personaggi che lo riempiono con i loro stati d’animo che contengono già dall’inizio quel pathos, quel “dolore estremo” in un viaggio che come abbiamo visto procede da uno spazio interno-privato, l’intimo dell’animo di Agamennone, a uno spazio esterno-pubblico che trova la sua massima platealità in quell’urlo silente di madre.

Anche in Da lontano abbiamo la voce silente di una madre, una madre che non vediamo mai ma che incombe più di un personaggio in carne e ossa e che vive in quell’unica figura presente in scena, quella della figlia, che sembra in grado, proprio perché modello/archetipo, di riflettersi e moltiplicarsi. Perché in questo processo di analisi, quell’unico personaggio in scena, per potere essere compreso, e nello stesso tempo per comprendersi, deve essere scomposto. Su questa figlia grava una sorte analoga a quella di Agamennone: vivere “quel dolore estremo” all’infinito, perpetuato dal senso di colpa di non essere riuscita, per motivi del tutto diversi da quelli di Agamennone, a salvare la persona amata. Ma mentre la figlia di Da lontano, in quanto bambina, non aveva né il potere né i mezzi per salvare la madre e una volta che comprende questo si perdona e guarisce, Agamennone al contrario ha sia il potere che i mezzi per salvare Ifigenia ma sceglie di non farlo condannando sé e la sua famiglia alla dannazione eterna.

In entrambe le storie viene sovvertito l’ordine naturale delle cose in cui, almeno fino a un certo punto della vita, dovrebbero essere i genitori ad aiutare e a prendersi cura dei figli fino a che non si arriva ad un momento in cui questi ruoli tendono ad invertirsi.

Inoltre, per tonare al tema più profondo, se è vero che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo è altrettanto vero che nonostante il passare dei secoli e i molti diritti conquistati, la donna, ancora oggi, rimane pesantemente e inesorabilmente sacrificabile.

Nina Margeri

LA SOLITUDINE DEI CAMPI DI COTONE – ANDREA DE ROSA

Un teatro. Un sipario rosso sulla scena. Due luci.

Andrea De Rosa, ne La solitudine dei campi di cotone, ci pone già dall’inizio dello spettacolo davanti a un accadimento: due personaggi si incontrano nel mezzo di un cammino. Il cliente (Lino Musella) incontra il dealer (Federica Rossellini). Sulla strada del cliente, il cui ingresso avviene dalla platea, il dealer gli blocca la strada. Nasce così una riflessione sul commercio, sullo scambio, ma anche sul dare e sull’avere, sull’offrire e sul ricevere.

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RIGHT DI CARLO MASSARI

Chi ha il potere di scegliere la vergine sacrificale? E’ solo una la vittima che si deve immolare per il bene della comunità? Chi detiene il diritto di questa scelta? Per convenzione si risponderebbe: i vecchi, i saggi, gli eletti… ma siamo sicuri che l’anzianità serbi in sé il potere della saggezza assoluta e l’autorità del decidere cosa sia giusto o meno anche per gli altri?

Carlo Massari con la sua produzione Right propone allo spettatore interrogativi di questa portata.

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