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EROS E THANATOS – DUE SPETTACOLI A CONFRONTO EDIPO.UNA FIABA DI MAGIA E TUTTO BRUCIA

“Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione”(Cantico dei Cantici 8, 6)

Le Pulsioni, secondo Freud, hanno come fine ultimo l’appagamento che porta allo sviluppo e alla crescita delle potenzialità adattive di quella parte dell’ego deputata al riconoscimento e all’attuazione del Principio di Realtà (L’IO).

In altre parole l’“Eros”, in quanto pulsione, per Freud indica una tendenza all’aggregazione una potenza creatrice strettamente legata alla libido che non solo diventa la forza creativa generatrice di vita ma che spinge l’essere umano verso un’integrità che in qualche modo lo definisce.

“Chi sono io?” questo chiede Edipo alla Sfinge.

Nello spettacolo Edipo. Una fiaba di magia vediamo un giovane soldato zoppicante che arriva dinanzi al velo della verità oltre il quale egli spera di trovare la risposta alla sua domanda esistenziale. Una volta risposto correttamente alla domanda della Sfinge egli strappa via il velo, bramoso di poter finalmente “possedere” la verità ma, trovando il Nulla, sconfortato e avvilito si accascia a terra, in un angolo, inerte come morto.

Sempre secondo Freud ciò che muove l’uomo non è e non può essere solo una pulsione libidica; dopo un’attenta osservazione Freud arrivò alla conclusione che, per esempio, nei comportamenti dei sadici e dei masochisti non c’è solo il piacere, ma anche una spinta alla distruzione, alla disgregazione. Freud approda così a una spiegazione della dinamica della società, basata sul contrasto tra i due principi della psiche umana, Eros e Thanatos.

Anche in Tutto Brucia c’è un velo sullo sfondo di un paesaggio devastato. Un velo pesante, denso, che rimanda alla consistenza di acque ataviche, amniotiche, dalle quali però vengono vomitati aborti, feti non compiutamente definiti, relitti di una società alla deriva, di maternità negate, di uomini bestia, di cadaveri bruciati che possono essere celebrati solo attraverso arcaici riti funebri di fagocitazione, fatti a pezzi e divorati per tornare a essere contenuti per sempre entro uteri sterili, profanati dalla violenza. Ancora una volta vita e morte, Eros e Thanatos.

Entrambi i lavori affondano le loro radici nel mito classico per raccontare la contemporaneità. L’uno -Edipo, per narrare l’aggregazione e la disgregazione di un’individualità; l’altra -Tutto Brucia, ispirato al mito delle Troiane, per narrare l’aggregazione e la disgregazione di una collettività.

Per capire “perché il mito?” dovremmo probabilmente prima provare a rispondere ad altri quesiti: cos’è un mito? Da dove viene? Come nasce? Cosa lo mantiene in vita nel tempo? In che direzione si muove? Fino a che punto lascia in noi un segno e fino a che punto siamo noi a lasciare un segno nel mito stesso? Una sintesi che può risultare efficace ai fini del nostro ragionamento la troviamo nelle TecheRai proprio nella sezione dedicata al mito:

“Il mito classico, in ogni epoca, ha costantemente esercitato la funzione di fissare archetipi di tutti i comportamenti umani e, proprio per questo, ha da sempre rappresentato uno degli elementi fondamentali per fornire una connotazione socioculturale ai vari periodi storici. I miti, infatti, pur basandosi su qualcosa di interamente rivelato, tendono a produrre una forza creatrice regolare e incessante sull’azione umana. […] Il mito determina e subisce tante proiezioni e trasformazioni nel tempo quante sono le vite e le menti che influenza. Pertanto, quando si impone nel contesto temporale di un dato periodo, il mito intesse rapporti di interdipendenza con la letteratura, l’arte, il teatro, la psicologia, i rapporti sociali, incarna scopi, tempi, luoghi e circostanze di fruizione, assurge e esegesi di modelli di comportamento quotidiano e dà vita a molteplici interpretazioni di sé stesso. In tal modo i grandi archetipi umani, si chiamino Edipo, Cassandra, Ecuba, (nomi modificati in funzione della trattazione – ndr) pur improntando su di sé i vari periodi storici con interpretazioni contingenti, assumono connotazioni perenni al di là di ogni epoca”.

Il fascino del mito e il ricorrere ai suoi paradigmi risultano perciò sempre attuali nel loro originario tentativo di risolvere il mistero dell’esistenza.

Interessante è inoltre notare come entrambe le pièce si siano affidate a terre desolate, alla polvere di una memoria che si tende a preservare come monito ma che sembra non essere sufficiente a evitare gli errori del passato.

Edipo entrerà nella terra afflitta da erosione e morte dove un tempo c’era “un prato fiorito” e dove la speranza di una rinascita è racchiusa nella promessa di una vendetta.

Anche nella tematica delle Troiane (Tutto Brucia), in quell’inferno statico di morte, dove tutto è già accaduto, la speranza sembra affidata alla sola certezza profetizzata della futura disfatta degli usurpatori.

In questo eterno conflitto tra Eros e Thanatos, in entrambi gli spettacoli, sembra avere la meglio la morte, la forza disgregativa. Dov’è finito Eros? Allora è necessario che Tutto Bruci, per far tornare in quelle fiamme l’ardore della passione, fiduciosi che quelle ceneri, innaffiate dalle lacrime, possano essere il giusto nutrimento per una terra “assopita” che possa ritornare ad essere un prato fiorito, perché il sacrificio non vada sprecato, perché la lezione appresa a caro prezzo non vada perduta.  

Eros e Thanatos sono due facce della stessa medaglia e la Vita non può che esistere in questa frattura, su questa fragile e sottilissima linea tra Essere (assoluto ed eterno) e Non-Essere.

Nina Margeri

– GEOGRAFIA UMANA –

 

 Due spettacoli a confronto – LA DIMORA DEL VOLTO ed EXIBITION

“Bisogna intendere la geografia non come un contenitore chiuso dove gli uomini si lasciano osservare ma come un mezzo con cui essi realizzano la loro esistenza, essendo la Terra una possibilità essenziale del destino umano.” – (Eric Dardel)

La Geografia Umana si occupa dei luoghi sia in termini oggettivi che in termini soggettivi come spazi emotivamente vissuti. Il luogo è un posto preciso che ha specifiche caratteristiche fisiche, culturali e sociali che lo rendono unico. Riveste inoltre una funzione molto importante perché consente alle identità umane di avere un punto di riferimento. Questo attaccamento emozionale, sviluppa un senso del luogo che genera un senso di appartenenza condiviso con altri individui che abitano quello stesso determinato luogo.

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STAFF ONLY. I MESTIERI DEL TEATRO

Siete sicuri di conoscere l’intero processo di realizzazione di uno spettacolo teatrale? E ciò che avviene dietro le quinte? Ma soprattutto: vi siete mai chiesti che cosa potrebbe accadere dopo l’uscita del pubblico? Staff Only. I mestieri del teatro, in scena al Teatro Carignano dal 17 luglio al 1 agosto 2021, cerca di rispondere a queste domande in modo semplice e divertente. 

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RISVEGLIO DI PRIMAVERA

Nella Sala Piccola delle Fonderie Limone è andata in scena, dopo 18 repliche, l’ultima rappresentazione di “Risveglio di Primavera” di Frank Wedekind tradotto e riadattato da Gabriele Vacis e alcuni dei giovani attori (Davide Pascarella, Enrica Rebaudo, Gabriele Mattè, Erica Nava) che insieme agli altri interpreti sono i neodiplomati della scuola del Teatro Stabile di Torino.

UN SISTEMA DI MUTAZIONE COMPLESSO

Una classe. 

La maturità appena vissuta, o ancora da vivere, nell’aria. 

Il ricordo di un anno che, come nel testo di Wedekind, ci tende la mano come amico fidato, mano putrefatta, ma che abbiamo imparato a conoscere, immateriale, che ci appare tanto reale quanto familiare, che ci vorrebbe privi di corpo a planare nelle case, “perchè questa è la vera vita” dice Moritz morto suicida all’amico Melchior che vorrebbe seguire il suo esempio. “Vieni con me e potremmo essere in ogni luogo” entrare nelle case – e vien da pensare: magari attraverso i cavi invisibili della rete –  quanto ci è familiare tutto questo. 

ph Andrea Macchia

Ma lo spettro di quest’ultimo anno che aleggia su tutti noi, spettatori e attori, viene allontanato dall’irrompere di una figura femminile che nel testo di Wedekind viene indicato come L’Uomo Mascherato, a cui l’autore dedica la stessa opera, e c’è da chiedersi chi sia questo misterioso personaggio. Moritz se lo chiede e glielo chiede invano. In Note a un commento di Lacan su “Risveglio di primavera” di Frank Wedekind riportate da Roberto Cavasola su journal-psychoanalysis.eu si legge:

Che cosa dice l’Uomo mascherato a Melchior? “Hai fame, vieni a mangiare, hai freddo, vieni a riscaldarti”. In una parola lo invita a occuparsi del proprio corpo, gli ricorda che il suo corpo è un corpo vivo, e lo allontana dallo spettro di Moritz che cerca di portare il suo vecchio amico tra i morti.

Nello spettacolo messo in scena da Gabriele Vacis L’Uomo Mascherato è rappresentato da una figura femminile che appare dopo essersi tolta la camicetta, si “disvela”, che sia la verità? che sia la bellezza? che ci strappa alla notte buia di una vita senza corpo e ci ri-porta alla luce, in un nuovo “venire al mondo”?

Un nuovo “venire al mondo” come quello che vivono i personaggi raccontati da Wedekind, che fanno i conti con il periodo più critico della vita: l’adolescenza. Come quello che provano i giovani attori in scena, alla loro ultima rappresentazione dopo un percorso durato 3 anni. Entrambi sull’urlo di un baratro, e allora che fare? 

Ph Andrea Macchia

Forse ri-pensare il corpo, come vorrebbe la fenomenologia, in quanto espressione dell’essere-nel-mondo, considerare i corpi come necessità di ogni individuo di disegnare il proprio progetto esistenziale. Semplice no?!? Anche se c’è da perderci la testa!

La quarta parete è spesso abbattuta. Il gioco del teatro, mai celato, in alcuni momenti è persino dichiarato. Si assiste a una simmetria perfetta, in equilibrio precario sulla soglia tra il dentro e il fuori: dell’essere esistente di cui il corpo è soglia; tra il dentro e il fuori della realtà e della verità di cui il teatro è soglia. Corpi vivi tra corpi vivi nello spazio del teatro che è il limen tra la vita e la morte.

Andrea Macchia

Il limen – dice Anna Maria Staubermann riprendendo Andrea Gentile in “Filosofia del limite” – è come un lungo corridoio o un tunnel che rappresenta il passaggio della nostra soggettività verso un nuovo orizzonte: il limen è una fase o uno stato soggettivo di transizione, passaggio, trasformazione che si configura e si caratterizza nella sua dinamicità.

E’ senza dubbio uno spettacolo sul limine quello a cui assistiamo ed è per questo che si rivela al contempo meta-teatrale. Non per la dichiarazione di esserlo, ma semplicemente perché lo “è”. 

In un tripudio di vita, i corpi sudano, saltano, muovono l’aria e scompigliano i capelli di chi è seduto in prima fila. Sciame pieno di un’energia incontenibile tanto da oltrepassare le vetrate delle pareti di fondo e strabordare con tale irruenza fuori, nel cortile del teatro. Ma questa irriverente, incontenibile, energia è in realtà un illusione. Sono ben netti infatti gli argini contenitivi a cominciare dalle file di sedie ai lati dello spazio scenico, per non parlare delle fisse postazioni “microfonate”; le stesse vetrate in fondo, una volta rientrati, vengono chiuse e serrate definitivamente; la linea tracciata per terra che separa gli attori dagli spettatori non viene mai superata, se non con la punta del piede scalzo di qualche attore che, con l’audacia propria dell’adolescenza, cerca nella trasgressione la definizione di una propria e nuova identità.

Ph Andrea Macchia

Così ad ogni personaggio di Wedekind, afflitto dalle proprie turbe adolescenziali, viene restituita l’integrità della sua anima attraverso i diversi corpi, dei diversi attori, che si alternano nell’interpretarlo. E le 21 anime degli attori riescono ad emergere, distinte, dall’integrità di un unico corpo scenico, organico, che emerge possente da questo spettacolo corale. Un’unica anima (quella del personaggio) che vive in tanti corpi, tante anime (quelle degli attori) che vivono in un unico corpo scenico. 

Il respiro di questo unico corpo è la musica di queste 21 voci che, a volte accompagnate da singoli strumenti (un pianoforte, una chitarra, un flauto, un sassofono), a volte vibrando all’unisono o a canone con le sole corde vocali, scelgono brani noti e moderni che, più che da tappeto musicale alla scena, fanno da ponte tra un testo della fine dell’ottocento e l’oggi, dove paure e frustrazioni, speranze e aspettative di un allora che ci sembra così lontano non sono in realtà mai state così attuali e a cui i giovani attori dello Stabile restituiscono una genuina sincerità che gli appartiene.

Ph Guido Mencari

E’ nel contenimento di tale irruenza che si vede la mano pedagogica di Vacis, così che lo spettacolo possa essere non il rischio di un’avventata conclusione ma l’iniziazione di un rituale di passaggio. 

Ed io spettatore, tornato spudoratamente con il mio corpo nel-essere-nel-mondo, assito complice e argine a mia volta, necessario testimone di un rito iniziatico che ci fa “essere” e con Melchior ci fa dire “Addio Moritz” non è ancora il momento di abbracciarci. Quel salto nel baratro di un ignoto futuro è d’obbligo, sapendo che non è la fine ma un nuovo inizio.

da Frank Wedekind

traduzione e adattamento di Gabriele Vacis, Davide Pascarella, Enrica Rebaudo, Gabriele Matté, Erica Nava e della classe della Scuola per attori del teatro Stabile di torino 

con gli attori neodiplomati della Scuola del teatro Stabile di torino: Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Chiara dello Iacovo, Lucrezia Forni, Sara Lughi, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Gabriele Matté, Eva Meskhi, Erica Nava, Cristina Parku, Davide Pascarella, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Kyara Russo, Letizia Russo, Daniel Santantonio, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera, Giacomo Zandonà

regia Gabriele Vacis

suono Riccardo di Gianni – assistente regia Glen Blackhall

Nina Margeri

MORTE DI UN COMMESSO VIAGGIATORE

Ritornare a teatro dopo un anno e mezzo è una grandissima emozione. Farlo per uno spettacolo come questo di Jurij Ferrini, poi, rende tutto ancora più bello.

Alle Fonderie Limone di Moncalieri, all’interno della stagione del Teatro Stabile di Torino 2020/2021, sta andando in scena Morte di un commesso viaggiatore, opera in due atti del drammaturgo Arthur Miller.

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L’anima buona del sezuan

“Sventurata la terra che ha bisogno d’eroi.”

(Bertolt Brecht)

Secondo il pensiero cinese ogni cosa è divisa tra lo Yin (nero) e lo Yang (bianco), e rappresenta un equilibrio, un dosaggio fluido e misterioso di queste due componenti. Lo Yin e lo Yang sono energie opposte e complementari che in costante interazione reciproca producono il mutamento e costituiscono l’essenza delle cose e della vita. Lo Yin per poter esistere deve contenere una parte di Yang e viceversa.

L’anima buona del Sezuan è una “parabola” cinese, così come la definì lo stesso Brecht quando nel 1938 cominciò a scriverla, che riprendendo il concetto dello Yin e dello Yang, parla dell’impossibilità di poter vivere pienamente il “bene” senza portare a difesa di esso un alter ego cinico di “male” che fa scelte impopolari per proteggere il bene dall’egoismo e dall’avidità circostante.

Elena Bucci e Marco Sgrosso, come eredi del teatro di Leo de Berardinis, sono consapevoli che scrivere per il teatro è dare spazio al non detto, che sperimentare nuovi linguaggi può coincidere con la riscoperta della tradizione, che disgregare un classico in funzione di un suo riuso può significare ritrovare e rifondare un mito come quello della commedia dell’arte per coniugare la comicità sfrenata con la sacralità di una “parabola” antica, come in questo caso, divenuta un “classico” a  malincuore di Brecht, per sospendere il personaggio o la maschera in funzione di un graduale e contraddittorio rivelarsi. Una partitura densa di sonorità inaspettate tra le escursioni nell’oralità popolare e nella lingua letteraria, per le scelte pluristilistiche e dialettali in funzione antimimetiche. In scena, sempre seguendo l’insegnamento di De Berardinis, svelati i misteri dei rumori e della musica effettuati dal vivo dal bravo musicista/rumorista Christian Ravaglioli.

Lo spettacolo è corale: 9 attori in scena a interpretare a rotazione tutti e i 21 personaggi del dramma di Brecht. Lo spettacolo dura più di 2 ore ma il ritmo è serrato e non c’è sosta né per gli attori né per gli spettatori, decisamente rapiti dalla bravura di questi performer che hanno saputo trovare nella “maschera” della commedia dell’arte una sintesi equilibrata tra teatro occidentale e teatro orientale. Tradizioni nostrane si mischiano alla sacralità rituale di un teatro apparentemente distante e il tradire questa forma facendone nascere una  nuova è il modo migliore per restituire l’epicità del lavoro brechtiano.

I corpi hanno la proprietà della danza, e il canto e il ballo non entrano mai veramente in scena ma divengono quasi la naturale conseguenza di un ritmo organico che viene mantenuto per tutto lo spettacolo. Si ha come l’impressione che gli attori e le scenografie, quelle edicole che ricordano le postazioni dei drammi sacri, concorrano insieme a formare un unico organismo vivente, con un suo respiro, con una sua personalità, con una sua anima combattuta tra il bene e il male. Su tutto un alone di divinità beffarda che guarda in disparte e sorniona e che non ha nulla a che vedere con le tre divinità venute da chissà dove alla ricerca di quell’anima buona.  Quelle divinità infatti, come gli altri personaggi, sono funzioni anch’esse che concorrono alla creazione di quell’organismo unico. No, la divinità sorniona è data da quel disco di metallo sospeso nel cielo al centro del palco, come un gigantesco occhio del Grande Fratello. Richiamo immediato  al Gong orientale che veniva usato come strumento per il richiamo e il rilassamento totale dell’anima. Ma che ricorda anche più nostranamente la Luna di Ciaula, che rischiara con incredibile stupore un’anima priva di consapevolezza.

Alla fine dello spettacolo, questo gigante buono, costituito dal torace di quelle impalcature con i colorati attori a rappresentare i vari stati d’animo, sembra sedersi stremato e dichiarare nell’epilogo lo spasimo della sua disfatta:

«Deve cambiare l’uomo? O il mondo va rifatto? / Ci vogliono altri dei? O nessun dio affatto?».

Ma, poi, ciò che conta è il compito affidato agli spettatori in quanto cittadini: constatato che «siamo annientati, a terra, e non solo per burla!», non «v’è modo di uscir dalla distretta / se non che voi pensiate fin da stasera stessa / come a un’anima buona si possa dare aiuto, / perché alla fine il giusto non sia sempre battuto».

Durante gli applausi finali si ha come l’impressione che, in questo spettacolo vissuto come organismo vivente, alla  fine si ritrovino a battere all’unisono insieme ai cuori degli spettatori e degli attori anche un po’ quelli di Brecht e De Berardinis.

Nina Margeri

DI BERTOLT BRECHT / TRADUZIONE DI ROBERTO MENIN
PROGETTO ED ELABORAZIONE DRAMMATURGICA ELENA BUCCI, MARCO SGROSSO
REGIA DI ELENA BUCCI / CON LA COLLABORAZIONE DI MARCO SGROSSO
CON ELENA BUCCI, MARCO SGROSSO, MAURIZIO CARDILLO, ANDREA DE LUCA, NICOLETTA FABBRI, FEDERICO MANFREDI, FRANCESCA PICA, VALERIO PIETROVITA, MARTA PIZZIGALLO
DISEGNO LUCI LOREDANA ODDONE / MUSICHE ORIGINALI ESEGUITE DAL VIVO CHRISTIAN RAVAGLIOLI / CURA E DRAMMATURGIA DEL SUONO RAFFAELE BASSETTI / MACCHINISMO E DIREZIONE DI SCENA VIVIANA RELLA / SUPERVISIONE AI COSTUMI URSULA PATZAK IN COLLABORAZIONE CON ELENA BUCCI / SCENE E MASCHERE STEFANO PEROCCO DI MEDUNA
UNA COPRODUZIONE CTB CENTRO TEATRALE BRESCIANO – ERT EMILIA ROMAGNA TEATRO FONDAZIONE / COLLABORAZIONE ARTISTICA LE BELLE BANDIERE

120 grammi

 “Ho sempre voluto,

tornare

al mio corpo

dove sono nato.”

(Allen Ginsberg)

Cosa definisce l’identità di una persona? Basta venire al mondo per essere visti? E se nessuno ci vede esistiamo lo stesso?

Fai vedere che ti dai importanza, e ti sarà data importanza, assioma cento volte più utile nella nostra società di quello dei greci “conosci te stesso”, rimpiazzato ai giorni nostri dall’arte meno difficile e più vantaggiosa di conoscere gli altri.

(Alexandre Dumas – Padre)

1844 le parole di Dumas sembrano scolpite immortali senza tempo, ed arrivare con la potenza dell’attualità sino a noi. Il bisogno di farsi vedere per affermare la propria esistenza, restare sotto i riflettori per non piombare nel terrificante buio della profondità del sé. Trovare nello sguardo dell’altro l’autorevolezza di porci in esistenza.

Sara Pischedda con ironia e coraggio riesce a mettere il suo corpo a servizio della narrazione, raccontandoci di una “società dello spettacolo”, come la definirebbe Guy Debord,  impegnata a mostrare corpi osceni caratterizzati da un’ostentazione sguaiata, irriverente, scandalosa.

Seduti nel buio della sala odiamo il riconoscibile rumore del proiettore cinematografico e su un red carpet fatto di luce bianca comincia a sfilare il contorno giunonico di una donna. Vestito attillato giallo fluo, scarpe a spillo, il corpo si muove a scatti sincopati assecondando i click e i flash non di fotografi, come ci aspetteremmo da un red carpet, ma quelli della fotocamera di un telefonino che scatta selfie in maniera crescente sempre più compulsiva. 

Buio, i rumori dei click cessano. Questo silenzio dà allo spazio una dimensione liquida. La luce cambia e in questo stato di ritrovata placenta Pischedda comincia a spogliarsi, non in maniera erotica o sensuale, ma come trasfigurando il proprio corpo che da umano a un certo punto ci appare come materia plasmabile, feto che si dimena con fatica  ma senza frenesia, assecondando i tempi dilatati dell’attesa. Il respiro è all’unisono con il battito del cuore è alla fine il corpo scivola via da quello stretto tubo giallo fluo. Non c’è dolore in questo travaglio non è una vera è propria rinascita ma più un “ritorno al corpo dove sono nato” un ritorno alle origini.

Il corpo che si manifesta in un nudo integrale come pura bellezza non ha nulla a che vedere con l’osceno precedente. Un corpo morbido, burroso, accogliente, non propriamente in linea con i canoni estetici che siamo abituati a subire. Poi accade qualcosa di semplice ma al tempo stesso straordinario, questo corpo a noi estraneo dichiara il suo nome. Un atto tanto astratto ha in realtà un potere estremamente concreto, fisico, nel tracciare confini identitari. Le parole di presentazione e i movimenti che le accompagnano vengono ripetuti in maniera quasi ossessiva, come se passassimo più volte un pennarello sulla stessa linea per accentuarne i contorni. I movimenti si fanno sempre più larghi e il corpo tende a riempire l’intero palco.

Questo corpo importante che nella nostra società contemporanea sarebbe invisibile probabilmente per mancanza di like, compie un atto squisitamente politico e si riappropria del suo spazio nel reale, il suo spazio trimensionale, occupandolo.

Ironica, intelligente, coraggiosa non per aver messo a nudo il suo corpo ma per aver portato alla luce, in maniera schietta e tremendamente sincera, paure e frustrazioni nel tentativo, una volta mostrate, di legittimarle all’esistenza. Così quei 120g che gravano come ipoteca sul presente, diventano la traccia di un destino quello che porta Pischedda ad indagare e ricercare attraverso la danza una conoscenza profonda del suo corpo nel lungo ed accidentato cammino dell’accettazione di sé, rendendo per questo il suo messaggio universale.

Senza sovrastrutture, fuori dagli standard, il corpo ritrova l’istinto alla libertà

P.S. non ci sono foto della nudità di questo corpo online a conferma di un bisogno di riappropriazione di una spazio reale che può essere visto e condiviso solo nell’intimità di un un incontro.

Nina Margeri

  • Coreografia e interpretazione Sara Pischedda
  • Suono Marco Schiavoni
  • Light design Stefano De Litala

Fedeli d’amore

Fedeli d’amore – Marco Martinelli/Ermanna Montanari

Al Teatro Astra è appena andato in scena Fedeli d’Amore, un “polittico in sette quadri” con la regia di Marco Martinelli e co-regia e interpretazione di Ermanna Montanari. Il polittico fa parte di un lavoro triennale dei due fondatori del Teatro delle Albe sul poeta de La Comedìa, che si concluderà nel 2021 con “Paradiso” – anno del settimo centenario della sua morte -.

In una fredda e nebbiosa alba ravennate del 1321, Dante Alighieri, in preda ad una febbre malarica, è assalito da visioni deliranti, sospeso fra la vita e la morte, fra l’inizio di una fine e una fine che non è una fine.

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You&Me: il Teatro Astra in visibilio per il ritorno dei “Musicisti del silenzio”, i Mummenschanz

Anche quest’anno Incanti torna ad animare la vita teatrale torinese. “Figure in viaggio” è il titolo di questa XXVI edizione del festival internazionale del teatro di figura.

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Macondo

Formiche operaie blu, rosse e verdi.

Perché il teatro? Qual è il suo scopo? E’ un anacronismo una stranezza oltre modo datata, che si regge come un vecchio monumento o che si ripete come un abitudine bislacca? Perché applaudiamo e a che cosa? Il palcoscenico ha un ruolo reale nella nostra vita? Che funzione può avere? A che cosa potrebbe rendersi utile? Che cosa potrebbe esplorare? Quali sono le sue qualità intrinseche?

Peter Brook

Le lecite domande che si pone uno dei padri del teatro di ricerca della seconda metà del novecento sono oltremodo appropriate quando, come lui, si tenta di trovare delle risposte attraverso la sperimentazione che porta alla scoperta o alla riscoperta di nuove o antiche prassi teatrali riviste con nuovi occhi.

Lo spettacolo Macondo ha qualcosa di antico nell’evocare i primordi di un teatro che affonda le sue radici nel mito. Carte di Archetipi vengono distribuite come premessa dello spettacolo, durante l’attesa fuori dallo spazio-scenico. Ma per attuarlo usa una prassi tecnologica contemporanea portando alle estreme conseguenze quello che Gadamer definisce come «l’immediatezza della comunanza di spettatore e attore […] immediatezza che è altrimenti ben di rado concessa alla nostra esperienza estremamente mediata». Nell’ immediatezza tra attore e spettatore di solito, per usare le parole di Annamaria Cascetta, «si rivelano possibilità potenziate di essere, che ci sovrastano e ci scuotono. E questo avviene in una situazione di interazione, di comunione in cui è richiesto un reciproco scoprirsi fino a suscitare il disagio di chi non fosse disposto al gioco».

Ma cosa accade quando l’attore viene completamente negato e lo spettatore perdendo completamente quello che è la sua caratteristica fondante diviene da “colui che guarda un’azione”  a “colui che compie un’azione” senza il quale il dramma/drama stesso non esisterebbe?

Chi non è disposto al gioco si sente a disagio, questo è un po’ la sensazione di quello che lo spettatore vive durante Macondo. Negli ultimi decenni del novecento sono stati molti gli spettacoli che hanno trovato soluzioni per coinvolgere lo spettatore in un ruolo attivo e cooperante senza il quale la rappresentazione non funzionerebbe.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di parlare dello spettacolo tornando alle domande poste da Brook nella citazione iniziale.

Perché applaudiamo e a che cosa serve?

Una volta ho letto da qualche parte che applaudiamo per tentare di trattenere, di afferrare, ciò che abbiamo appena visto, ma che è già sparito, quell’effimero che è lo stesso statuto ontologico di ogni spettacolo dal vivo. Ma nel caso di Macondo applaudiamo perché ce lo chiede una scritta che compare sullo schermo posto come parete di fondo della scena o perché ce lo dice una voce registrata che ci parla attraverso cuffie che vengono distribuite a tutti gli spettatori prima dell’ingresso in “teatro” che più che “luogo della visione” (theatron – per riprendere l’etimologia greca) in questo caso è il “luogo dell’ascolto”. Dove diventiamo più che altro pedine di uno schema prestabilito. Così in assenza degli attori, spettatori cuffia-comandati non interpretano ma ripetono azioni e parole imposte da un “volere supremo” invisibile e immaterico ma estremamente efficace perché ha il potere di guidare le nostre azioni incidendo sull’ambiente circostante, contro ogni nostra esplicita volontà (fermo restando il libero arbitrio di chi decide di non partecipare al gioco). Come le formiche blu, rosse o verdi che vediamo comparire di tanto in tanto sulle schermo in fondo alla scena cerchiamo di il compito che ci viene suggerito. Le cuffie hanno dei led che a seconda dei differenti ruolo a cui i vari  spettatori sono  chiamati  a rispondere  possono essere blu, rossi o verdi.

Che funzione può avere? A che cosa potrebbe rendersi utile?

Mi viene subito in mente il paragone con il potere persuasivo della pubblicità. Andrea Fontana nel suo libro “Storytelling di impresa” parla di “rete narrativa” da cui la nostra vita quotidiana sarebbe costantemente avvolta essa “filtra le nostre percezioni, stimola i nostri pensieri, evoca le nostre emozioni, eccita i nostri sensi, determinando risposte multisensoriali”. Come scrive Guariento riprendendo Fontana :

L’individuo fin dai primi anni di vita è homo narrans: egli crea descrizioni narrative per se stesso e per gli altri, o utilizza le narrazioni per prendere delle decisioni creando situazioni ‘come se’. Ma il periodo storico attuale è particolarmente caratterizzato da “assedio testuale”: la narrazione oggi è talmente pervasiva della vita che Fontana parla infine di “accerchiamento narrativo”. In questo accerchiamento, sono i mass-media a detenere una sempre maggiore egemonia: per essi, la narrazione sembra essere divenuto tema centrale.

La narrazione sembra essere necessaria anche nello spettacolo Macondo che sembra non avere il coraggio di prendersi fino in fondo la responsabilità di questa “sperimentazione” giustificando la mancanza di attori e tecnici come un problema di malfunzionamento delle porte che hanno lasciato la “crew” fuori dallo spazio-teatro, vittime anche loro, paradossalmente , dell’egemonia della narrazione . Così gli spettatori, inizialmente seduti in attesa che qualcosa accada, sono costretti a fare loro qualcosa per dare senso al loro trovarsi riuniti.

Da questo punto di vista lo spettacolo sembrerebbe voler essere metafora  di  una società di massa schiava di un subdolo ma crudele e imprescindibile sistema di controllo, in realtà rimane più vicino a quello che sembra suggerirci Debord in La società dello spettacolo quando afferma:

La società che riposa sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso.

Che cosa potrebbe esplorare? Quali sono le sue qualità intrinseche?

C’è un potenziale nello spettacolo che a mio avviso non viene esplorato fino in fondo. Fermo restando che quello a cui assistiamo non è una rappresentazione drammatica ma è più simile a una rappresentazione rituale in cui viene creata una comunità ad hoc che potremmo chiamare la “comunità degli uditori”. Eppure per quanto molto più simile al rito non entra nemmeno pienamente in merito delle sue funzioni. Infatti in una rappresentazione rituale la comunità decide volontariamente di evocare un altro da sè per il superamento di una crisi. In questo caso invece la “comunità degli uditori” non invoca o meglio non evoca nessuno, il controllo da parte dell’altro da è data come premessa dello spettacolo. Questo fa sì che non possa mai esserci in nessun momento il superamento della crisi. Del resto mi viene anche da chiedere di quale crisi si tratti. L’impossibilità del dramma? Il puro godimento autoerotico di uno spettatore che guarda se stesso? Il puro masochismo di un regista-demiurgo?

Di certo in questa nuova comunità possiamo intravedere quel collegamento voluto e cercato alla città di Macondo di Cent’anni di Solutudini che come nel testo di Garcia Marquez è «isolata dal resto del mondo e immersa in un’ eternità enigmatica dove le tradizioni ed i riti magici sembrano contare tanto quanto la realtà comune, quella vera». Se l’intento dello spettacolo è quello di emulare la Macondo letteraria dove non esistono personaggi, ma voli pindarici che prendono forma e si tramutano in carne per muoversi in una realtà che, però, non è loro congeniale, mi viene da chiedere quanto l’effetto sia davvero quello desiderato.

Nel tentativo di superare quell’ “anacronismo” quel “vecchio monumento” di cui parla Brook riferendosi al Teatro sono d’accordo con Debord che spesso  “lo sviluppo diventa tutto” e “il fine niente”.

Che cos’è allora il teatro? (la domanda delle domande)

La risposta questa volta va allo stesso Brook quando afferma:

La forma teatrale non esiste per permettere a un gruppo di persone di raccontare, di dire, non è una forma di comunicazione attraverso la quale una persona possa spiegare qualcosa a un’altra […] Credo che il teatro sia una possibilità data all’uomo di accrescere durante un certo tempo l’intensità delle sue percezioni. E’ tutto qui, ma è enorme.

Credo che l’intento dello spettacolo possa essere stato questo ma l’effetto, vittima del bisogno giustificativo di una narrazione e di immagini ridondantemente didascaliche, sia stato quello che alla fine potremmo riassumere in un: “oso ma non troppo”.

Nina Margeri

Scritto e diretto da: Silvia Mercuriali

colonna sonora: Tommaso Perego

video designer: Susanne Dietzs

supporto drammaturgico: Gemma Brockis

art work: Peter Arnold

disegno luci: Kristina Hjelm

sound engineer: Michele Panegrossi

tradotto da Marina Mercuriali