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L’arte vivere di noi stessi. Su “Onirico. Il fiume dell’oblio”

Augusto Boal diceva che il teatro è l’arte di vedere noi stessi, un modo per rientrare in contatto con il nostro corpo, i nostri stati d’animo e ogni aspetto mentale o fisico che ci compone. Un’esperienza umana intima, ma anche difficile e, in alcuni casi, dolorosa. Un’esperienza che, grazie alla compagnia teatrale  “Stalker Teatro”, le donne della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno hanno deciso di vivere. Attraverso un laboratorio, all’aiuto di volontari e attori, il loro percorso le ha portate all’allestimento dello spettacolo Onirico. Niente palco, platea o professionalità attoriale, solo la sincerità degli sguardi, la voglia di rinascere e riemergere dal loro passato.
Lo spettatore entra nel “teatro” appena mette piede al di là di un cancello alto nove metri, per poi essere perquisito dalle guardie. L’atmosfera di leggera oppressione lo accompagna fino alla sala con le protagoniste della serata. Il nero lo inghiotta e a sorpresa si ritrova in un fiume blu circondato da sedie, un fiume in cui attori e attrici sono immersi. Lo spettacolo inizia dopo che tutti hanno preso posto, una musica leggera rilassa lo spettatore e i corpi iniziano a galleggiare. Il fiume Lete della mitologia greca  bagna e leviga,  cancellando la memoria del passato opprimente, restituendo la possibilità di sognare, quel mondo onirico che la realtà del carcere inevitabilmente strappa.  Ed ecco che i corpi si animano, iniziano a vivere di nuovo, producono piccole bolle che brillano alla poca luce, si scontrano, si abbracciano, rimpossessandosi della propria umanità. Qualche volta,  frasi delle detenute vengono lette, testimonianze di quel luogo, di quella voglia di immergersi e ritornare pulite. Chi guarda, a quel punto, però, è caduto con loro in quelle acque, non si ricorda più in che luogo sia o chi siano le persone che ha davanti, vede solo donne, con la sofferenza negli occhi, che appanna il loro possibile futuro.
La trasparenza e il coraggio con cui tutto questo viene trasmesso è disarmante e ti ritrovi come loro un corpo morto, trascinato, bisognoso di speranza, di altra acqua per continuare. Quella forza viene data alle donne non più dal fiume ma dai loro cari, dai figli, che le rivestono di rosso, facendole tornare indietro. Lo spazio scenico si anima di voci, risa, urla, di adulti bambini che giocano a prendersi.

E’ la svolta definitiva, il punto in cui il seme del rimorso è stato espulso per lasciar spazio a quello dello della forza vitale.  Il carcere si trasforma così in uno studio musicale, dove situazioni scomode si tramutano in possibili canzoni, cantate in coro, tra le luci di lanterne colorate danzanti. L’apice viene raggiunto allo sbucare di piccole campanelle. Ogni donna o volontario del laboratorio ne ha una e raggruppandosi al centro le innalzano facendole suonare, come un brindisi all’immensa impresa compiuta dal corpo e dalla memoria. Sciogliendosi il cerchio si scioglie anche la sottile barriera con lo spettatore. Piccoli segreti, pensieri o semplici saluti gli vengono sussurrati all’orecchio, preceduti dal risveglio della campanella, senza vergogna, paura o imbarazzo, con l’invito finale di ballare con loro. Ed è proprio con una ballo che lo spettacolo si chiude, con il fiume traboccante di sorrisi e le sedie vuote.
Questa serata è stata la dimostrazione che per far teatro non servono attori professionisti o grandi palcoscenici ma la forza di vivere in ogni momento dell’azione, di saper cogliere cosa i nostri istinti più profondi ci sussurrano alla mente, lasciando andare corpo, voce e sguardo, lasciando che i sentimenti e le sensazioni prendano le briglie dei nostri movimenti.
I volontari e, in primo luogo, le detenute, le donne che si sono spogliate delle loro maschere passate, hanno regalato allo spettatore un inno alla vita, frammenti di sogni e della forza che un solo essere può sprigionare.

Aperiscena

A qualche settimana dal nostro evento, cogliamo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno partecipato,
coloro che sono venuti e si sono divertiti,
al Cafè della Caduta che ci ha ospitato,
e un forte ringraziamento anche ai Professori Armando Petrini e Federica Mazzocchi che sono i nostri pilastri!
Un grande Grazie e cogliamo l’occasione per augurarvi
BUONE FESTE!

La Redazione

CALL – OFFICINE SINTETICHE VIII

CALL – OFFICINE SINTETICHE VIII Contact-zones I. PAV – Parco Arte Vivente di Torino Contact-zones è un progetto ideato da Vanessa Vozzo e Laura Romano intorno al concetto di “confine/frontiera” come limite geografico, spazio politico, dispositivo di governo su corpi e territori. Il confine fisico terrestre e marino, attraversato dai migranti in transito per e tra l’Europa, si frammenta e riconfigura all’interno delle città e produce un dialogo tra migranti in arrivo e abitanti insediati. Siamo il frutto di spostamenti, migrazioni e movimenti ma i nuovi flussi migratori sembrano mettere fisicamente in crisi gli spazi urbani. Il progetto si concentra sulle contact-zones cittadine come nuovi spazi di interazioni possibili, dove il confine è un dispositivo semi-permeabile, adattato alla funzione che svolge. Contact-zones I. PAV – Parco Arte Vivente di Torino è un laboratorio produttivo, condotto da Vanessa Vozzo come prima tappa del progetto. Lavoreremo su materiali relativi all’area urbana del Parco Arte Vivente di Torino in quanto contact-zone significativa della città. La composizione dei materiali avverrà attraverso un sistema di tracciamento GPS e con lo sviluppo di una specifica applicazione per la localizzazione in spazi urbani di contenuti audiovisuali. Un sistema semplice ed efficace in cui potranno essere scaricati i contenuti direttamente sul telefono degli utenti/visitatori attraverso una specifica app. I contenuti audiovisuali seguiranno un modello narrativo e/o di contro-narrazione con l’obiettivo di riconfigurare la contact-zone attraverso un processo di embodiment, che faccia percepire lo spazio urbano in maniera differente. MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE Sono ammessi gli studenti dell’Università degli Studi, del Politecnico e del Conservatorio di Torino. Gli interessati dovranno inviare: 1) una lettera motivazionale; 2) una breve bio (max 5 righe) che includa eventuali precedenti esperienze e software utilizzati (es. pacchetto Adobe, Max MSP, Finalcut, Ableton etc.) con relativo livello; 3) eventuale portfolio o link a lavori che si ritengano in linea con il progetto sopra esposto. a formazione@officinesintetiche.it entro e non oltre il 19 gennaio 2018. Non sono richieste particolari esperienze e non sono necessarie particolari abilità tecniche. – I selezionati verranno avvisati entro il 26 febbraio 2018. A tutti verrà inviata una mail di risposta. Tempi: Sono previste 3/4 mezze-giornate di laboratorio al mese fa febbraio a maggio 2018. A fine maggio/inizi giugno è prevista la presentazione dell’opera presso il PAV – Parco Arte Vivente di Torino Luoghi. Il laboratorio avverrà presso StudiumLab del Dipartimento Studi Umanistici (Palazzo Nuovo) e presso il PAV – Parco Arte Vivente di Torino. VANESSA VOZZO è new media artist, curatore e docente di laboratorio presso Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione al Politecnico di Torino, ha co-fondato la piattaforma Officine Sintetiche nel 2007. LAURA ROMANO ha un dottorato di ricerca (PhD.) in Urban Studies presso l’Università “La Sapienza” di Roma, Ingegneria Civile, Edile e Ambientale e lavora ad un progetto sulle rotte migratorie nel contesto urbano. È inoltre esperta in strategie di produzione e sviluppo nel campo del documentario ed è curatrice di alcuni festival di documentario. Per maggiori informazioni: www.officinesintetiche.it Oppure scrivete a: a formazione@officinesintetiche.it

OMAGGIO A LUCIO RIDENTI

Mercoledì 29 novembre 2017 al teatro Gobetti si è tenuto un incontro del ciclo Retroscena diverso dagli altri: ospite non era una compagnia teatrale, ma l’Università di Torino che in collaborazione con il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino ha presentato il volume Il laboratorio di Lucio Ridenti. Cultura teatrale e mondo dell’arte in Italia attraverso “Il Dramma”  (1925-1973).  Erano presenti i docenti curatori del volume, cioè Federica Mazzocchi, Silvia Mei e Armando Petrini,  accanto al professor Franco Perrelli e a Pietro Crivellaro, quest’ultimo per molti anni direttore del Centro Studi e figura fondamentale per la valorizzazione del patrimonio archivistico legato a Lucio Ridenti. Il volume è il risultato di un convegno promosso dall’Università e dal Centro Studi nella primavera del 2016.

L’incontro è cominciato con un intervento di Pietro Crivellaro, che ha offerto una breve, ma dettagliata analisi della figura di Lucio Ridenti, nato a Taranto e trasferitosi poi nel 1925 a Torino, dove passò  gran parte della sua vita.

Pioniere della radio e della televisione, fotografo, protagonista della vita mondana, attore ma anche scrittore e giornalista. La sua carriera nasce con una serie di libri di successo negli anni venti che analizzano e descrivono il mondo teatrale, ma raggiunge l’apice con la fondazione nel 1925 del periodico “Il Dramma” con Pitigrilli. Scrive anche per la “Gazzetta del Popolo” e poi per il “Radiocoriere”; da ricordare è anche la fondazione negli anni quaranta della rivista di eleganza femminile “Bellezza”.

E’ seguito poi l’intervento di Franco Perrelli che ha cominciato a descrivere, anche attraverso ricordi ed esperienze personali, le forti differenze esistenti fra i due principali punti di vista dell’epoca di cui erano portavoce due importanti riviste “Il Dramma” e “Sipario”.

Vengono citate figure vicine agli ideali di Ridenti come Bragaglia, sostenitore dell’attore italiano che improvvisa e ha un’esperienza che non può essere diretta dalla regia, ma anche più distanti come  D’Amico, che voleva invece un regista che rispettasse i testi e che fosse in grado di tenere a freno l’attore.

Armando Petrini ha analizzato la figura di Ridenti in particolare nel suo ruolo di critico, molto affascinato e interessato all’attore e alla recitazione, per un motivo anche biografico, pur non essendo mai stato un vero teorico. Viene poi sottolineato come nei suoi lavori non sia presente solamente una certa nostalgia e volontà di recuperare qualcosa che sta morendo, ma un’attenzione nei confronti della storia del grande attore e della figura dell’autore-attore e attore-direttore.

Federica Mazzocchi ha proseguito  descrivendo i carteggi con Paolo Grassi, Ivo Chiesa e Vito Pandolfi, sottolineando la ricchezza dei punti di vista e la schiettezza dei rapporti che ha sempre legato questi protagonisti della vita teatrale italiana.  “Il Dramma” emerge quale rivista caratterizzata da una spiccata vivacità e libertà, all’interno della quale erano presenti numerose opinioni anche contrastanti fra loro e non un pensiero unico, soprattutto per quanto riguarda il tema della regia.

L’incontro si è chiuso con l’intervento di Silvia Mei che si è concentrato sul forte legame presente fra la figura di Lucio Ridenti, la moda e le altre arti, soffermandosi sulla raffinatezza con cui Ridenti concepisce “Il Dramma” soprattutto tipograficamente e sull’importanza dell’elemento visivo. Fortemente riconoscibile è l’approccio sintetico e trasversale rispetto a tutte le discipline, ma anche un forte umanesimo, un gusto per le immagini e per la cura nell’impaginazione. Da non dimenticare è la passione di Ridenti per la fotografia, alla quale si avvicinerà ancor prima del teatro e che lo accompagnerà per tutta la vita.

                                                                                           di Daniela Frezzati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE BARUFFE CHIOZZOTTE, UNA COMICA MALINCONIA CON INTERVISTA AD ANGELO TRONCA

Le Baruffe Chiozzotte, regia di Jurij Ferrini, è in scena al Teatro Gobetti di Torino dal 21 Novembre al 17 Dicembre 2017.

Il famoso testo di Carlo Goldoni, uno dei più divertenti scritti dall’autore, ritrae l’atmosfera della vita popolana del Veneto del ‘700: uomini un po’ rozzi, istintivi, bloccati nel rispetto dell’onore e delle tradizioni, prima fra tutte il matrimonio, che è il motore centrale che governa tutte le azioni dei personaggi. Ci sono cinque donne che cuciono merletti in attesa del ritorno degli uomini, in attesa di essere chieste in spose: due di loro sono già maritate e fanno quasi da madri alle altre tre ragazze che non vedono l’ora di andare in spose all’uomo che più le affascina. E da un piccolo corteggiamento mal riuscito scaturisce la grande baruffa che porterà tutti i personaggi di fronte alla legge: Isidoro, interpretato dal regista, è il cogitore veneziano che non solo riuscirà a portare la pace tra le due famiglie in litigio, ma combinerà anche i tre matrimoni.

La traduzione in italiano dell’opera, scritta in dialetto veneto,  restituisce alla perfezione il ritmo originario e rende comprensibile a tutti la storia. L’unico a parlare in dialetto (che in realtà si trasforma in una lingua inventata splendidamente comica e incredibilmente chiara a tutti) è il personaggio di Fortunato (Angelo Tronca). Tutti gli  attori hanno ottimi tempi comici e usano il corpo in  armonia con lo spazio. I personaggi sono dipinti con affetto, sono tutti simpatici e in fondo al loro cuore buoni, con valori puri nella loro semplicità; ognuno di loro è ben tratteggiato, e soprattutto i personaggi femminili hanno una personalità definita e forte. Infatti, sono  loro a causare e alimentare i litigi, mentre gli uomini sembrano quasi marionette mosse dalle  gelosie e dalle chiacchiere femminili.

Questa commedia però non è solamente risate e ironia, racchiude un nucleo problematico e malinconico, come rivela lo stesso regista. Parla, infatti, di uomini che stanno dieci mesi in mare, facendo una vita molto dura  e tenendo in pensiero i loro cari rimasti a casa. Le  fanciulle sono ossessionate dal matrimonio, visto più che come un momento gioioso, come un modo per andarsene di casa. Per sposarsi basta darsi la  mano, gesto che può diventare meccanico, come meccaniche e ripetitive appaiono le vite di questi giovani. Inoltre, mancano figure genitoriali di riferimento, sebbene siano poi gli uomini più maturi a cercare di far ragionare tutti e a voler riportare la serenità.

Interessante la scelta di Ferrini di trasporre la vicenda in un contesto meta teatrale: stiamo infatti assistendo a una prova aperta, non esiste la quarta parete né l’illusione del teatro, solo un abbozzo di  scenografia. I costumi sono normali abiti di tutti i giorni, anche se ogni attore ha uno stile che lo differenzia dall’altro e che richiama il carattere del proprio personaggio. A ricordare l’epoca storica di questa commedia stanno dei manichini sullo sfondo vestiti con abiti settecenteschi. Così il passato e il presente si fondono nelle Baruffe senza tempo.

di Carlo Goldoni
traduzione Natalino Balasso
con Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Christian Di Filippo, Sara Drago, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecc a Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca, Beatrice Vecchione
regia Jurij Ferrini
scene Carlo De Marino
costumi Alessio Rosati
luci Lamberto Pirrone
suono Gian Andrea Francescutti
regista assistente Marco Lorenzi
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

di Alice Del Mutolo

INTERVISTA AD ANGELO TRONCA

Oggi è qui con noi Angelo Tronca, un attore che ha collaborato con il teatro Stabile di Torino interpretando il personaggio di Fortunato nello spettacolo. Insieme a lui, cercheremo di capire meglio il suo ruolo, la sua formazione e le sue passioni.

L’arte del teatro rappresenta spesso una missione. Talvolta questa strada si intraprende per talento. A volte, invece, per gioco. Tu come mai hai deciso di intraprendere la carriera attoriale?
E’ una domanda a cui non so dare una risposta ben precisa. Sono stati un insieme di fattori a indirizzarmi su questa strada. Il primo fra tutti è stato frequentare un corso di teatro al liceo. Lì, ho incontrato anche delle compagne di scuola molto carine. Dopo poco tempo avevo iniziato a divertirmi, riuscivo ad esprimere quello che avevo dentro, provando, di conseguenza, nuove emozioni. Così, terminato il liceo, ho fatto il provino per entrare al teatro Stabile di Torino e mi hanno preso. 
 
Spesso la comprensione del proprio dono di attore passa attraverso la conoscenza di un ruolo, di un carattere, di un personaggio. Quale personaggio teatrale ti è piaciuto interpretare di più? Quale ti ha segnato?
 
In realtà sono due i personaggi che mi hanno colpito maggiormente. Il primo è Aspettando Godot sempre sotto la regia di Jurij Ferrini, in cui ho interpretato Pozzo: un soggetto fuori di testa, tratto dalla piéce di Samuel Beckett, in questo testo e attraverso questo ruolo, mi sono dovuto liberare di ogni tipo di freno. Il secondo invece è il personaggio di Don Sallustio portato recentemente con Marco Lorenzi tratto da Ruy Blas, un dramma di Victor Hugo. Questo testo ha un contenuto molto avvenente, strutturato su passioni sfrenate e su una scrittura ottocentesca. In questo caso, ho dovuto interpretare un uomo spietato ed estremamente malvagio. 
 
Le Baruffe Chiozzotte, testo seminale nella carriera drammaturgica di Goldoni, è scritto per essere recitato in dialetto. Come mai sei stato l’unico nelle Baruffe Chiozzotte a parlare nella lingua che dà il titolo al lavoro? 
 
Allora, Goldoni ha scritto questa piéce teatrale dove tutti i personaggi parlavano Chiozzotto, un particolare dialetto di Chioggia. Solo il personaggio di Isidoro parlava Veneziano mentre tutti gli altri “pescatori” comunicavano un dialetto più duro. Tra questi pescatori ce n’era uno che parlava in dialetto talmente stretto che lo capivano solo poche persone come ad esempio sua moglie e questo era un motore comico che utilizzò Goldoni. Oggi sarebbe stato difficile per il nostro pubblico riuscire a portare in scena queste differenze dialettali. Così Jurij Ferrini ha modificato il testo facendo parlare tutti in italiano tranne il mio personaggio, Fortunato, per lasciare quella chiave comica come nell’ epoca di Goldoni. –
 
Le particolarità dialettali presso rendono difficile la caratterizzazione di un personaggio, soprattutto se comico. E’ stato complicato interpretare il ruolo di Fortunato? 
 
Sì, perché lo scoglio linguistico era molto forte, quindi la prima necessità era rendere armonico e fluido l’eloquio. Il personaggio doveva, infatti, risultare naturale, senza forzature
 
Il lavoro di squadra, di gruppo e l’interazione con ogni genere di operatore del settore sono caratteristiche indispensabili per un buon attore. Che rapporto hai con la compagnia dello Stabile? 
 
Direi buono, nel senso che è il secondo teatro più importante d’Italia, mentre come teatro Nazionale è il primo. La compagnia è giovane e stimolante ed è sempre interessante lavorare in questo contesto. Purtroppo a causa dei tagli alla cultura, per questioni economiche, accorciano sempre di più i tempi di prova. Noi ci siamo trovati con sole tre settimane disponibili a ridosso del debutto. In questo modo sai già che non puoi metterti nella condizione di rischio, devi sapere già cosa devi fare. 
 
Il futuro dell’attore di teatro è spesso considerato incerto.Come ti vedi tra 10 anni? 
 
Mi vedo bene, forse migliore: sarò un uomo maturo di 43 anni. Spero di fare ancora teatro costruendo una realtà mia dove poter costruire e stabilizzare una mia poetica. Ho voglia di sperimentare un percorso autoriale. Infatti è il secondo anno che scrivo piece originali da dirigere e interpretare. Mi piace questa linea anche perché in Italia ci sono poche persone che intraprendono questa strada soprattutto scrivendo delle piece che coinvolgono altri attori. Il lavoro artistico è anche un impegno nei confronti dell’altro, del sistema e del mondo contemporaneo.

 

 

intervista a cura di Alessandra Nunziante

 

CONFERENZA STAMPA FERTILI TERRENI TEATRO: TRE REALTA’ UNITE PER IL TEATRO CONTEMPORANEO

Il 24 Ottobre 2017 si è svolta, presso il Centro Culturale Polo del ‘900, la conferenza stampa di tre teatri che ormai fanno parte da tempo dell’orizzonte teatrale torinese. La novità di queste stagioni teatrali non sta nel fatto che vogliano parlare di alleanza e integrazione attraverso lo spettacolo, ma che in prima persona ci mostrino cosa vuol dire la parola “unione”: tre spazi, tre realtà e tre storie diverse che per la stagione 2017/2018 hanno deciso di creare una collaborazione per portare nella città di Torino il teatro contemporaneo, per far conoscere la nuova drammaturgia e per offrire al pubblico nuovi stimoli.

Tre stagioni teatrali che si incontrano: La Dolce Rivoluzione, Schegge INforOUT e Santa Cultura in Vincoli, organizzate rispettivamente da Tedacà e Il Mulino di Amleto, Il Cerchio di Gesso e Acti-Teatri Indipendenti, che trovano la propria dimora in tre teatri della periferia di Torino che vogliono così porsi all’attenzione dei cittadini: BellArte nel quartiere Parella, Cubo Teatro nella zona di Vanchiglietta e San Pietro in Vincoli vicino Porta Palazzo. Durante gli anni questi tre teatri hanno cercato di formare il pubblico, di porre l’attenzione sul teatro d’innovazione contemporaneo e proprio per questo sono diventati un punto di riferimento per giovani compagnie che hanno trovato uno spazio di prova e rappresentazione, e per artisti di livello nazionale che hanno individuato una dimensione ideale per esprimersi. Vista quindi la comunanza di intenti, è stato quasi automatico per le tre realtà incontrarsi e generare una stagione teatrale innovativa e comune, in collaborazione anche con Concentrica 2017, organizzata dal Teatro della Caduta.

Il primo intervento della presentazione di queste “tre stagioni in una”, coordinata dal direttore artistico di BellArte Simone Schinocca,  è stato dell’Assessora della Città di Torino – Attività e Manifestazioni Culturali Francesca Paola Leon che vede in questa proposta la giusta strada da percorrere, quella di collaborazione e scambio tra giovani artisti. Lo scambio infatti è sempre una vittoria,   e grazie ad esso quest’anno il pubblico dei tre teatri potrà ampliarsi e i cittadini potranno conoscere nuove stagioni e nuove modalità di fare teatro rispetto a quelle a cui erano abituati.

In seguito il Presidente della circoscrizione 4 Claudio Cerrato, che si presenta come affezionato già da anni alle iniziative del teatro BellArte, sottolinea la grande capacità e l’impegno di questi giovani che, partiti da realtà periferiche, sono riusciti ad ampliare la proposta a tutta la città, con un cartellone ricco e interessante, di spettacoli autoprodotti in grado di far pensare e sensibilizzare il pubblico.

Questa avventura ha due partner: la Compagnia di San Paolo e la Fondazione Piemonte dal Vivo, che si mostrano entrambi entusiasti di come questo progetto abbia le potenzialità per dare visibilità ad un tipo di arte che mai come oggi può servire a capire il nostro tempo e che può favorire la comprensione dei linguaggi contemporanei.

La parola passa quindi ai direttori artistici delle compagnie: Beppe Rosso (San Pietro in Vincoli) ribadisce come la nuova drammaturgia e i nuovi linguaggi siano la vocazione di queste tre realtà ormai unite e che uno spazio piccolo come quello che loro possono offrire (i tre teatri infatti hanno pochi posti) sia in realtà una ricchezza perché può permettere uno scambio tra attore e spettatore e un dialogo impossibili in teatri più grandi e strutturati diversamente. Ammette che questo non è un momento storico che stimola il teatro, ma proprio per questo chi lo ama deve lottare e con la loro stagione teatrale vogliono proprio essere incubatori di idee, proporre riflessioni a tutta la città, non solo nel “sottobosco” della periferia nella quale hanno fino ad adesso lavorato: Torino era la città – laboratorio d’Italia e deve tornare ad esserlo.

Marco Lorenzi (Il Mulino di Amleto) ci racconta la nascita di questo progetto, che non è solo di programmazione, perché nasce da una domanda che si è visto porre da molti durante la visita per lavoro a varie città italiane: cosa sta accadendo in Piemonte dal punto di vista dell’innovazione teatrale? Forse manca un sistema che permetta alla creatività dei giovani di venire fuori, e con il loro progetto vogliono proprio sopperire a questo problema, dato che in realtà ci sono tantissimi giovani e non solo che difendono l’unicità del teatro e non vogliono vederlo scomparire.

Girolamo Lucania (Il Cerchio di Gesso) parla invece di quanto sia per loro fondamentale il lavoro con il pubblico e in particolare il coinvolgimento degli studenti universitari e delle scuole secondarie, che vogliono stimolare a scrivere di teatro, a fare scrittura critica. Inoltre spiega che una delle cose più importanti per loro è far sapere alle compagnie di giovani che le nuove proposte saranno ascoltate e che da loro potranno trovare uno spazio sicuro per esprimersi: Il Paese e la sua comunità devono essere raccontati per lasciare traccia di noi nella storia, e niente meglio del potere delle parole e del segno teatrale può farlo.

L’ultimo intervento è quello dell’Assessora Regionale alla Cultura e Turismo Antonella Parigi, che offre a tutti i presenti diversi spunti di riflessione: premettendo che nelle leggi italiane ci sono dei grossi limiti a causa dei quali gli artisti non sono riconosciuti e che il Paese non sembra creare un sistema che stimoli la nascita di una nuova drammaturgia italiana, la riflessione forse non va fatta sulla singola forma d’arte, ma sul perché la cultura non è più in grado di produrre trasformazioni sociali, creare consapevolezze, comunicare con un pubblico che non investe più nell’arte. Inoltre è forse necessario chiedersi, per chi lavora in teatro, perché il linguaggio teatrale ha subito un arresto nella ricerca e nell’innovazione ormai da anni e per quale motivo l’attenzione si è spostata verso altri linguaggi artistici come la danza e il circo.

Tutti noi abbiamo sicuramente cercato di rispondere interiormente a queste domande e la Conferenza in sé è stata un chiaro spunto di riflessione. Per iniziare non resta dunque che partecipare ad alcune delle iniziative proposte da queste tre rassegne teatrali.

Alice Del Mutolo