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METAmORFOSI: LO SCARAFAGGIO SOCIALE A PANCIA IN SU

All’interno del variegato programma del Torino Fringe Festival 2017 troviamo con diverse repliche  lo spettacolo, vincitore di Maldipalco 2014, METAmORFOSI della compagnia Officina per la scena. La rappresentazione, di e con Luca Busnengo e con la supervisione artistica di Michele Guararldo, si tiene presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli, un luogo intimo e raccolto, particolarmente adatto per un tipo di lavoro  quale quello proposto da Busnengo.

Sembra infatti quasi di scendere in un sotterraneo, i soffitti sono a volta e le sedie per accomodarsi poche, situate vicine al palco, che è molto basso. Ed è proprio per questo che quando l’attore fa il suo ingresso e inizia a parlare, non si può fare a meno di sentirsi parte della sua narrazione, di sentire il suo respiro; non c’è distanza tra il pubblico e chi gli si sta rivolgendo, siamo immersi insieme a lui nella storia. L’attore è talmente vicino a noi da farci sentire tutto il dolore del personaggio, e l’empatia cresce sempre di più, mano a mano che lo spettacolo prende vita. Dobbiamo accettare l’idea che assisteremo ad uno spettacolo che non ci vuole passivi, che proveremo emozioni intense,  e che ascolteremo argomenti che forse ci toccheranno nel profondo.
Tutti gli elementi per una forte immedesimazione sembrano quindi essere presenti, ma grazie all’uso della luce, talvolta colorata e psichedelica, e della musica, che vede l’utilizzo di brani di Caparezza o Giorgio Gaber, si crea un’atmosfera straniante che porta lo spettatore a distaccarsi quanto basta per poter ragionare razionalmente sui temi trattati.

Colpisce l’estrema attualità di quello che viene narrato: il disagio che le generazioni provano in questo tempo dove i cambiamenti e le regole della società sono talmente rapidi che per stare al passo non si può far altro che abbandonare la propria identità. Per parlare di questo vediamo sulla scena un personaggio anonimo che racconta cosa succede a coloro che invece non vogliono omologarsi, ma che finiscono con il sentirsi inadeguati alla vita poiché questa società non premia più la diversità come una ricchezza.
Storie comuni di disagi, di suicidi, storie individuali e collettive, di cambiamenti e di trasformazioni, prendono vita attraverso le parole di uno “scarafaggio” che rappresenta tutti e nessuno. Il richiamo a Kafka è chiaro e la capacità di Luca Busnengo di muoversi e modificare la voce per ricordare l’insetto è ammirevole. Lo scarafaggio non è altro che colui che decide di uscire allo scoperto e mostrarsi nella sua particolarità, sicuro di essere protetto dalla sua forte corazza. Ma, come viene detto  nella parte finale del monologo, se lo scarafaggio viene capovolto dalla società e non viene aiutato da nessuno, non può far altro che mostrarsi vulnerabile, soffrire per la sua condizione personale e annegare nelle proprie lacrime. Perché quando viene accesa la luce e non ci sono più le tenebre a nasconderti, non si può più scappare.

Oltre al richiamo letterario a La metamorfosi di Franz Kafka, è presente anche quello a Amleto di William Shakespeare, in particolare al  celebre monologo “Essere o non essere…”, usato nel momento in cui la soluzione di chi soffre sembra essere solo quella del suicidio, ovvero quella di abbandonarsi ad un sonno senza sofferenze che possa anche includere sogni.

La scenografia è composta da uno sgabello nero e anche i costumi usati dall’attore sono scuri, eccezion fatta per la camicia bianca, che viene però coperta per la maggior parte del tempo da un cappotto. Non siamo quindi di fronte ad un’ambientazione naturalistica e questo non può far altro che attivare l’immaginazione del pubblico, che cerca di dare un luogo e un tempo nella sua mente alle storie narrate. L’unico oggetto colorato che viene usato come un simbolo è una mela verde, bellissima e perfetta, in grado proprio per questo di adattarsi ad ogni situazione, esattamente come le regole sociali vorrebbero che fosse ogni individuo.

di Alice Del Mutolo

di e con Luca Busnengo
supervisione artistica Michele Guaraldo
spettacolo vincitore MALDIPALCO 2014
Tangram Teatro

 

 

QUESTI FANTASMI! Guardare ma non vedere, o vedere ma fingere di non vedere?

 

“Pasquà ma dove hai preso tutti ‘sti soldi? E‘sto diamante?” chiede, in preda alla rabbia e al nervosismo, Maria (Carolina Rosi) a suo marito Pasquale Lojacono (Gianfelice Imparato).

Così si apre il terzo e ultimo atto di Questi Fantasmi, commedia scritta da Eduardo De Filippo nel 1945, che ben si presta però anche ai giorni nostri.

Quanti di noi, almeno una volta nella vita, non hanno non pensato al fatto che, seppur il denaro non fosse tutto, qualche spicciolo in più non avrebbe guastato per essere felici? Questo, il protagonista- interpretato da un composto Gianfelice Imparato-  lo sa bene: egli, difatti, rinunciando ai suoi valori di uomo e ai suoi doveri coniugali,  e accogliendo con estrema passività le vicende della vita, si dimostra un uomo debole, ma soprattutto, un inetto disposto a tutto pur di possedere del denaro. È un personaggio per cui è impossibile non provare un po’ di tenerezza; un uomo apparentemente normale, che anzitutto pensa a se stesso e che non intende rinunciare ai piccoli piaceri della vita: un pollo caldo e del buon cibo; le sigarette e il caffè che si prepara in assoluta autonomia, dal momento che la moglie -essendo, a detta sua, di un’altra generazione- non è in grado di prepararlo come si deve. Pur di non abbandonare tutto questo, Lojacono, spogliatosi oramai di qualsiasi “virtus” in senso lato, accetta qualsiasi cosa: cosa sono, infatti, un tradimento e la perdita dell’onore in confronto alla perdita dell’agiatezza economica? Per Lojacono sicuramente alcunché di tollerabile: tant’è vero che, alla domanda che gli rivolge la moglie, quest’ultimo non è in grado di rispondere, né è interessato a farlo: entrambi, infatti, sanno che tutto il denaro e i gioielli ricevuti in dono, sono una gentile “offerta” da parte di Alfredo Marigliano, amante della moglie, che ripaga Lojacono per l’accordo che, tacitamente tra i due, è venuto a stabilirsi.

È questo il vero dramma: entrambi sanno di sapere eppure fingono di non vedere, un po’ per vergogna di loro stessi, un po’ per comodità; ecco perché, fino alla fine della commedia, indosseranno, senza mai togliere, la loro maschera, qui rappresentata da uno dei temi più cari al pubblico napoletano, quello del “munaciello”, ossia del fantasma. In una società dove è più importante l’apparenza rispetto alla sostanza, dove è meglio sembrare anziché essere; dove è necessario possedere per sopravvivere, anche al prezzo di svendere la propria identità, indossare un velo bianco da fantasma sembra quasi inevitabile. Lojacono stesso arriverà ad affermare che “I fantasmi non esistono… li creiamo noi, siamo noi i fantasmi!”.

 

Lo spettacolo si apre nell’ingresso di una casa che- come leggenda vuole-  sarebbe infestata da diversi e stravaganti fantasmi, e per questo sino a ora disabitata. Nonostante ciò, e al corrente di tale fatto, accompagnato dallo sgrammaticato portiere, interpretato da un esilarante Nicola Di Pinto, Lojacono decide di trasferirsi nell’abitazione- a titolo gratuito- insieme alla moglie, ignara del fatto. Non è, però, il solo ad aver mentito, o meglio, ad avere omesso dettagli apparentemente insignificanti ma che in realtà racchiudono il succo della vicenda: Maria, infatti tradisce il marito con Alfredo Marigliano (Massimo De Matteo).

Lojacono non paga alcunché di affitto, deve però, rispettare alcuni “rituali” stabiliti, in precedenza, con i vecchi proprietari: sbattere un tappetto sui sessantotto balconi della casa, cantare e apparire sempre felice e spensierato per sfatare la leggenda agli occhi dei vicini. Ecco che anche qui, ci imbattiamo nuovamente, nel tema della maschera, tanto caro alle opere pirandelliane, e cardine di tutto lo spettacolo.

Egli poi, vorrebbe affittare le restanti stanze della casa e adibirle a pensione. Purtroppo però, i piani non vanno come aveva sperato: nessuno si presenta per l’affitto; inoltre, Lojacono non gode nemmeno più dei benefici economici del “fantasma buono”, il quale ha smesso, di punto in bianco, di far trovare danari nella tasca della giacca appesa all’appendiabito nell’ingresso. A Pasquale non resta che sperare in un suo ritorno e per farlo, tenderà una trappola al fantasma, al fine di poterlo sorprendere e chiedergli quanto ha bisogno. Fingerà quindi, di partire, ma invece si nasconderà sul balcone.

Finalmente sorprenderà Alfredo, il fantasma venuto per fuggire con la sua amante, il quale commosso dalla disperazione di Pasquale, decide di concedergli un ultimo aiuto economico, a patto che quest’ultimo acconsenta alla sua fuga con Maria; gli lascerà sul tavolo un ultimo fascio di banconote, prima di scomparire per sempre.

Nel frattempo la donna- interpretata da una fredda e decisa Carolina Rosi-  stufa del comportamento vile del marito, sceglierà la libertà, slegandosi da ogni tipo di dovere coniugale: ma non per fuggire con il suo amante, bensì per “fuggire” con se stessa, dimostrando di avere molto più carattere del marito Pasquale.

In questa regia, affidata a Marco Tullio Giordana, -vincitore di quattro David di Donatello, e due Nastri d’oro per I cento passi e La meglio gioventù– che ormai da tempo affianca la regia cinematografica a quella teatrale, il personaggio di Maria diventa padrone del proprio destino.

Nel frattempo, Pasquale conta le banconote sul balcone di fronte al professor Santanna – l’anima utile, che non si vede-,  lo ringrazia per lo stratagemma da lui suggerito, con quelle che sono le ultime parole dell’intera commedia: “Mi ha lasciato una somma di denaro… però dice che ha sciolto la sua condanna… che non comparirà mai più… Come?… Sotto altre sembianze? È probabile. E speriamo…”!

C’è chi va dall’oculista per vedere meglio; altri, per lo stesso motivo, utilizzano una lente di ingrandimento mentre leggono o sono alla disperata ricerca di minuziosi dettagli; chi invece, come Pasquale Lojacono, seppur dotati di un’ottima vista, si ostinano a non voler vedere. Costruirsi un alibi, una scusa quando qualcosa non ci piace è un tipico atteggiamento che riguarda ognuno di noi; è una sorta di medicina che ci auto prescriviamo, un’automedicazione essenziale e inevitabile per delle creature fragili e spaventate quali siamo, ma come tutte le medicine, bisogna, però, esser capaci di saper dosare, altrimenti è un attimo cadere nel baratro e perdere tutto, ma soprattutto perdere noi stessi.

In questa commedia, che valse a De Filippo un successo europeo, egli, con strema franchezza, ci mette di fronte al fatto compiuto: siamo tutti alla ricerca del quieto vivere e della fantomatica e agognata felicità. Si sa, il lavoro modesto non paga molto e chi vive una vita dignitosa, sogna di diventare milionario; chi è milionario, invece, sogna di poter tornare a star bene e in buona salute; ogni persona e ogni famiglia ha il suo cruccio; ogni persona vive come un’anima in pena e trovare la serenità di questi tempi, sembra, sempre di più, diventare una ricerca utopica.

 

Martina Di Nolfo

 

QUESTI FANTASMI!

Di Eduardo De Filippo

Regia Marco Tullio Giordana

Con Gianfelice Imparato, Carolina Rosi, Massimo De Matteo,

Paola Fulciniti, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto,

Viola Forestiero, Giovanni Allocca, Gianni Cannavacciuolo, Carmen Annibale

Scene e luci Gianni Carluccio

Costumi Francesca Livia Sartori

Musiche Andrea Farri.

ELLEDIEFFE- LA COMPAGNIA DI TEATRO DI LUCA DE FILIPPO

 

 

XXII Festival delle Colline Torinesi , Conferenza Stampa

Mercoledì 19 aprile presso il Goethe-Institut ha avuto luogo la conferenza stampa di presentazione della XXII edizione del Festival delle Colline Torinesi, un appuntamento da non perdere dedicato alla creazione teatrale contemporanea. Dialogano sull’argomento: Jessica Kraatz Magri, direttrice dell’Istituto Culturale della Repubblica Federale di Germania, Sergio Ariotti, direttore del Festival, Antonella Parigi, assessore della regione e Barbara Graffino (Compagnia di San Paolo).

Qui si racconta e si anticipa un’edizione tutta dedicata alla donna, che porta alla ribalta moltissime autrici (come Sasha Marianna Salzmann, Mirjana Bobic Mojsilovic, Milena Costanzo..), registe (tra le quali Paola Rota, Daniela Nicolò, Fiona Sansone, Chiara Guidi..) nonché interpreti e performer di altissima qualità. E, come se non bastasse, di una donna è anche il segno d’artista del Festival 2017: parliamo di Marisa Mertz, artista italiana di altissimo talento, per di più unica rappresentante femminile della corrente dell’Arte Povera. Ventisette sono le compagnie che presentano i loro lavori, alcuni dei quali sono in prima assoluta (altri in prima nazionale o quantomeno regionale), con nomi di spicco della creazione contemporanea. Diciannove i giorni a disposizione (4/22 giugno).
Italia, Germania, Grecia, Serbia, Somalia e Libano sono invece i Paesi ospiti da cui provengono gli spettacoli internazionali.
Segio Ariotti ha guidato i presenti nella lettura del programma, attraverso un breve ma efficace focus sugli spettacoli, raggruppabili per famiglie tematiche. Delle ventisette rappresentazioni complessive, sei presentano al centro dell’attenzione poetesse e letterate. Tra queste vanno ricordate: Lettere della notte, che vede l’incontro tra Chiara Guidi e Nelly Sachs, scrittrice e poetessa tedesca di origine ebraica, Premio Nobel 1966; L’amica geniale, che prende spunto dal notissimo ciclo di romanzi dell’autrice senza volto Elena Ferrante; Il cielo non è un fondale, un atto drammatico apparentemente “senza trama e senza finale” che prova a restituirci i continui spostamenti di senso tra quello che noi siamo e quello che ci succede intorno; Emily di e con Milena Costanzo, seconda parte del progetto su Sexton, Dickinson e Weil; Amelia la strega che ammalia and friends (dove Amelia è Amelia Rosselli) di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Corale numero uno, di e con Elena Bucci, che racconta di una singolare e sventurata eroina zingara, Bronislawa Wajs (nome d’arte Papusza), poetessa anch’essa, liberamente tratto dal testo Sputa tre volte di Davide Reviati, uno dei più interessanti autori di graphic novel internazionale.
Hanno invece a che fare con l’identità di genere, tema principe dell’edizione passata, dal quale il festival non sembra essersi ancora liberato del tutto –continua a spiegare il direttore- , lo spettacolo dei Motus, che ritornano a furor di popolo con Raffiche, reinvenzione di una pièce minore di Jean Genet, in una versione provocatoriamente al femminile; Pedigree, messa in scena di un testo inedito, firmato da Valeria Raimondi e Enrico Castellani, dedicato alle famiglie arcobaleno; 50 Grades of Shame, lo spettacolo del collettivo femminile tedesco She She Pop, appuntamento clou del cartellone 2017; Masculu e Fiammina di e con Saverio La Ruina, che interpreta un uomo che racconta se stesso e la propria identità sessuale davanti alla tomba della madre, e infine un performer greco, Euripides Laskaridis, il quale con Titans, nome dello spettacolo, propone le sue trasformazioni, cercando di comprendere perché facciamo ciò che facciamo e di cosa abbiamo realmente bisogno.
Un altro gruppo di titoli combina teatro e musica. Allora nominiamo: Abebech-Fiore che sboccia fiore che sboccia, spettacolo di Saba Anglana, cantante italo-somala, dedicato al sacro nella cultura d’Etiopia, con un personaggio meraviglioso di nonna sullo sfondo; Personale Politico Pentothal che vede in scena Marta Dalla Via, accompagnata dal vivo da cinque rapper; The black’s tales tour di Licia Lanera, al dancing neo-liberty Le Roi Music Hall, la cui architettura, particolare e suggestiva venne progettata nel ’59 dal famosissimo architetto Carlo Mollino.
Infine l’ultima famiglia tematica, che raccoglie tra gli spettacoli del cartellone quelli che presentano interessanti legami con il cinema. Tra questi: Roberta va sulla luna, Ifigenia in Cardiff, con le regia di Valter Malosti, Pixelated Revolution, So little time, Elephant woman, Zoo(m)out, ed infine il lavoro dei fratelli De Serio, Stanze/Qolalka, pronto ad anticipare il nuovo triennio dedicato alle diaspore. Un altro percorso che si completa al Festival è quello di Elvira Frosini e Daniele Timpano. I due presentano Acqua di colonia che affronta il tema del colonialismo italiano. Da non dimenticare, ovviamente, i molti giovani artisti, in relazione ai quali menzioniamo: Diario di una casalinga serba, tratto dal romanzo omonimo di Mirjana Bobic Mojsilovic, L’inquilino, Human animal, Educazione sentimentale. Un cenno finale naturalmente va alla drammaturga prescelta: Sasha Marianna Salzmann, la quale porta in scena Lingua Madre Mameloschn, il cui spettacolo fa parte del progetto Fabulamundi.Playwriting Europe della Pav di Roma ed è coprodotto dallo Stabile di Genova.

Ma il festival non si riduce al cartellone. Al contrario, porta con sé interessanti appuntamenti, approfondimenti ed esposizioni, che arricchiscono e coronano l’appuntamento torinese. Prosegue il progetto “Mezz’ora con..” a cura di Laura Bevione, che consiste in incontri con gli artisti del Festival (e non solo), al quale si aggiungono “Un teatro pieno di interrogativi”, tre incontri per ricordare il Convegno di Ivrea, che nel giugno 1967 radunò alcuni protagonisti del cambiamento teatrale allora in atto e “Cinema in scena” in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, che prevede, come ogni anno, proiezioni abbinate agli spettacoli in cartellone. Non solo. Ritorna l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori.

Per concludere, e a voler sottolineare la forte transculturalità che permea il Festival e che quest’ultimo a sua volta effonde e restituisce, uso l’espressione inglese “last but not least”, per parlare della complicità necessaria e vitale dello spettatore, al quale si richiede, come ogni anno, curiosità e partecipazione. Per i più affamati e impazienti segnaliamo allora le due settimane speciali (20/4-3/5) durante le quali i biglietti possono essere comprati online a prezzi scontatissimi. In alternativa i punti vendita dal 20 aprile sono il Teatro Astra, Rivendite vivaticket, infopiemonte-Torinocultura, vendita serale (online: www.vivaticket.it).
Vi aspettiamo!

@Contatti (per info e abbonamenti):+3901119740291; +393462195112; +info@festivaldellecolline.it
@Luoghi: Le Roi Music Hall (Via Stradella 8), Scuola Holden (Piazza Borgo Dora 49), Polo del ‘900 (Corso Valdocco ang. Via del Carmine), Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Ristorante Marechiaro (Via San Francesco d’Assisi 21), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Teatro Marcidofilm!, Serming- Arsenale della Pace (piazza Borgo Dora 61), Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Le Petit Hotel.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

La sacralità della vita nel teatro civile. Pasolini e la morte: un rito culturale

“È teatro sociale”, esclama Mauro Avogadro, uno degli attori dello spettacolo Pasolini e la morte: un rito culturale, dopo il debutto al Teatro Baretti di Torino, mercoledì 15 Marzo scorso.

Con una sigaretta in bocca, il sorriso di chi è stanco ma soddisfatto, scambia qualche parola con me e altri curiosi che vogliono sentire qualcosa in più su uno spettacolo che ha lasciato a tutti qualcosa su cui riflettere. “Non esiste più” continua Avogadro, “ma io credo che sia essenziale. I greci hanno iniziato a fare teatro per questo. Io in questo spettacolo inizio a parlare con calma, perché gli argomenti sono importanti e non voglio spaventare lo spettatore. Poi cerco di evocare qualcosa su cui riflettere tutti insieme”. Ed è questo che lui e i suoi due colleghi hanno fatto, con l’aiuto di una troupe fantastica. Ma facciamo adesso un passo indietro.

Mauro Avogadro

Il Teatro Baretti è intimo, raccolto, un luogo dove la magia del teatro non fa fatica a materializzarsi. Questa volta però, gli spettatori entrando non si trovano di fronte a un sipario chiuso, curiosi di sapere cosa nasconda. Il sipario è aperto, gli attori sono già sulla scena e camminano immersi nei loro pensieri, mentre il resto dei collaboratori sistema le ultime cose. La quarta parete viene quindi abbattuta, noi sappiamo che quelli sono gli attori che, attraverso le loro parole, ci faranno intraprendere un viaggio in cui lo spettatore non potrà essere passivo e coccolato, e sedendoci non possiamo far altro che accettare la sfida.

Quando le luci si abbassano, gli attori attirano la nostra attenzione con le loro bellissime voci e subito comprendiamo che la storia è semplice: un regista (Mauro Avogadro) vuole girare un documentario su Pasolini. Egli stesso interpreterà lo scrittore che risponde alle domande di un giornalista (Gianluca Gambino), che sembra incarnare un po’ l’idea dell’”uomo medio” tanto odiato da Pasolini e bersaglio di Orson Welles ne La ricotta, mentre Lorenzo Fontana interpreta Pasolini durante alcuni momenti di stasi della narrazione.

Lo svolgimento e i temi dello spettacolo però sono tutto tranne che scontati: partendo dall’ipotesi che Pasolini sia stato coscientemente regista del film della sua vita, viene ripercorso sinteticamente il montaggio di esso, attraverso stralci di un intervista lasciata a Duflot e alcune sue poesie. Del resto, come mi suggerirà più tardi Avogadro “si parla solo della morte di Pasolini e del mistero attorno ad essa. Ma è importante parlare dell’uomo che è stato, perché quello che ha scritto è incredibilmente attuale”.

Ma andiamo con ordine: gli argomenti toccati dall’intervista sono molti ed eterogenei. Il giornalista e Pasolini sono seduti su due sedie bianche, che contrastano con il nero dello sfondo e dell’impalcatura. Su quest’ultima si muove l’alter-ego di Pasolini, al quale è affidata la declamazione delle poesie, accompagnate da proiezioni di immagini o di fotogrammi dei suoi film. In particolare questi momenti creano un’atmosfera sospesa, grazie anche all’uso della musica e, mentre la voce profonda e ferma di Avogadro sembra dare vita ai pensieri più profondi di Pasolini, la voce sottile e drammatica di Fontana recita le poesie con un dolore, una sofferenza e una consapevolezza che presagiscono già il terribile epilogo da tutti conosciuto.

Pasolini

Uno dei primi temi trattati è quello della sacralità della vita, molto caro a Pasolini: egli affermava infatti che tutto è santo, ma la santità è al tempo stesso una maledizione. Diceva di avere nostalgia del sacro perché rimaneva legato agli antichi valori, tanto che sperava che venisse costruita una democrazia senza cancellare il sentimento del sacro.

Successivamente viene trattato un argomento attuale più che mai, l’immigrazione, parlando di un’integrazione necessaria alla convivenza nelle città, perché se si accetta il “colore” di quelli che vogliono entrare con “innocente ferocia” nella nostra società, potremo arricchirci grazie alla loro “sacra tribalità” e così raggiungere un effettivo progresso.

Purtroppo però Pasolini si era già reso conto che non solo essi spesso vogliono occidentalizzarsi e non mantenere la loro cultura, ma anche che la maggioranza degli italiani è diventata di una “intolleranza violenta”, persone che non vogliono ricordare la povertà che li aveva caratterizzati.

Memorabile e commovente è stato sicuramente il momento in cui è stata proietta una parte de La ricotta, ovvero quella della citazione figurativa della Deposizione di Pontormo (1526-28).

In questa occasione l’intervistatore chiede a Pasolini della sua misoginia ed egli risponde di non essere affatto misogino, ma di “raffaellizzare le donne, di voler donare loro una forte aura di sacralità”.

Questo in particolare è stato un momento in cui il pubblico ha tenuto il fiato sospeso e si è ritrovato a riflettere su tutte le tematiche che lo spettacolo ha tirato fuori e che sono in realtà insite in ognuno di noi, solo che a volte serve un po’ d’aiuto per ragionare sulla realtà.

ricotta_deposizione

 

A spettacolo quasi finito, in un momento di buio dominato dalla musica, Fontana-Pasolini si spoglia, rimanendo nudo in scena: questo gesto vuole forse alludere alla morte dello scrittore, interpretando la vita in maniera circolare e quindi la fine di essa come un ritorno al ventre materno. Dopo questo gesto, infatti, l’attore si rannicchia su una poltrona, coperta da un telo bianco, in posizione fetale e recita un’ultima poesia, con una certa quiete e serenità. Questa tranquillità è sottolineata dall’uso della luce calda che crea quasi un’immagine caravaggesca di un uomo che nella morte ritrova una condizione di umanità.

L’ultima battuta è affidata ad Avogadro che nel frattempo è salito sull’impalcatura per annunciare agli spettatori di sapere che “siamo tutti in pericolo”, una delle frasi dell’ultima intervista che Pasolini ha rilasciato proprio il giorno prima di morire. Sicuramente un finale che ha fatto correre a tutti un brivido lungo la schiena, anche a coloro che non conoscevano bene le vicende e i pensieri dell’intellettuale, ma hanno seguito con attenzione lo spettacolo.

Gli attori hanno mostrato in scena di aver profondamente interiorizzato la lezione di Pasolini e incontrando successivamente Avogadro dietro le quinte ne ho avuto la conferma, poiché ha rivelato di averlo da sempre amato e studiato e che sentiva fortemente l’esigenza di realizzare uno spettacolo non di Pasolini, ma su Pasolini.

Da segnalare la scenografia, essenziale ma ben costruita, che in realtà è parte integrante dello spettacolo proprio perché su alcune sezioni specifiche vengono proiettate non solo scene da film pasoliniani ma anche riprese dal vivo della performance da angolazioni invisibili allo spettatore, ricordando proprio i documentari pasoliniani; scenografie che sottolineano anche la poliedricità degli argomenti trattati. Inoltre, tramite le riprese proiettate in real-time, si è potuto sottolineare ancora di più la forte contemporaneità degli argomenti, ma anche della figura stessa di Pasolini in quanto uomo.

Le luci sono state usate in modo da sottolineare la drammaticità degli argomenti e dei momenti rappresentati.

Tutti questi elementi hanno richiamato l’attenzione di un pubblico che di certo ha avuto molto da metabolizzare ed è stato così invitato a riflettere anche sulla nostra attualità attraverso le parole di un uomo davvero contemporaneo e che rimarrà per sempre nella Storia.

di Alice Del Mutolo

 

“Pasolini e la morte: un rito culturale”

Drammaturgia di Ola Cavagna

Con Mauro Avogadro, Lorenzo Fontana, Gianluca Gambino

Regia e allestimento Ola Cavagna, Ginevra Napoleoni, Massimiliano Siccardi

Regia video live Umberto Sareaceni

Musiche a cura di Tommaso Ziliani

Luci Alberto Giolitti

Associazione Baretti

 

“Mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”: Natale in casa Cupiello

Martedì 10 Gennaio 2017 debutta al Teatro Carignano di Torino “Natale in Casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, con laregia di Antonio Latella.

La tragicommedia è stata scritta nel 1931 e De Filippo la porta in scena con la sua compagnia fino agli anni Settanta, apportando continue modifiche. Attraverso la figura del protagonista Luca Cupiello, che cerca di riunire la famiglia ispirandosi all’ideale del presepe, che diventa per lui quasi un’ossessione, l’autore vuole mettere in evidenza l’impossibilità di ricreare il nucleo familiare, ormai sfasciato, solo durante una ricorrenza annuale come il Natale.

Antonio Latella supera il naturalismo della rappresentazione di De Filippo, rivolgendosi al pubblico attraverso simboli e invitandolo a immaginare il contesto in cui si svolge la storia. Il sipario si apre rivelando una disposizione lineare e simmetrica degli attori, con al centro il protagonista, Luca Cupiello, interpretato da Francesco Manetti, vestito di bianco, diversamente dagli altri personaggi che indossano abiti di tonalità scure e con gli occhi coperti da una mascherina. Al segnale del bastone di Luca, immagine della malattia incombente, tutti i personaggi iniziano a camminare verso il proscenio mentre dietro di loro viene calata una grande stella cometa, che rimanda al presepe tanto amato dal protagonista, e unico oggetto della scenografia presente nel primo atto. Latella utilizza pochi oggetti di scena, ma fortemente simbolici. Infatti ad ogni personaggio nel corso del secondo atto verrà attribuito un “pupazzo” raffigurante un animale che lo rappresenta (ad esempio Nicolino ha un maiale che rimanda ai suoi comportamenti rudi verso la moglie Ninuccia), ad eccezione di Concetta, moglie di Luca, che traina un carro grande quanto il peso delle vicende familiari che ricadono tutte sulle sue spalle. Nel terzo atto invece l’oggetto predominante è una grande culla, all’interno della quale si trova Luca ormai in fin di vita, circondato dai familiari disposti a formare il presepe, che richiama il tanto agognato sogno familiare del protagonista, che a quanto pare può realizzarsi solo in prossimità della morte. È chiaro dunque che Latella riduca la scenografia lavorando su immagini metaforiche che diventano macroscopiche.

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Tornando al primo atto, dopo il posizionamento della stella cometa, gli attori, sempre su segnale del bastone di Luca, iniziano a recitare coralmente e fedelmente le didascalie mentre vediamo Luca che muove la mano come se stesse scrivendo: Latella sembra così voler sottolineare la fedeltà al testo eduardiano immettendo eccessi di teatralità, ad esempio quando gli attori pronunciano, all’interno delle battute, anche gli accenti (gravi, acuti o circonflessi) accompagnandoli con movimenti che ricordano passi di danza. Inoltre Luca “scrive” l’opera mentre si sta compiendo quasi per ricordare al pubblico la presenza dell’autore, poiché la storia dello spettacolo è un patrimonio di confronto che non deve essere dimenticato tanto che, nel secondo atto, risuona costantemente la voce di Eduardo De Filippo “mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”, per rammentare la sua presenza persistente, mentre gli attori si guardano spaesati attorno, come per cercarlo.

Da segnalare sono sicuramente due aspetti: in primo luogo l’uso sapiente delle luci, statiche per quasi tutto lo spettacolo e che mettono così in risalto l’intensità delle azioni e dei sentimenti, che diventano poi intermittenti e artificiose a metà del secondo atto, dove la tensione accumulata a causa del triangolo amoroso che vede protagonisti Nicolino, Ninuccia e Vittorio, esplode in una danza frenetica durante la quale risuonano versi di animali come in una “giungla” di conflitti familiari. Nel finale le luci tornano a creare un’atmosfera cupa, che rimanda all’incombenza della morte, e forti chiaroscuri che rendono la scena come un dipinto. In secondo luogo, gli attori sono molto abili a passare dall’italiano delle didascalie al dialetto napoletano delle battute e dei dialoghi repentinamente, in particolare possiamo mettere in evidenza la bravura di Monica Piseddu, che interpreta Concetta.

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È rilevante il cambiamento apportato da Latella al finale: il figlio Tommasino uccide, soffocandolo con un cuscino, Luca, con l’approvazione di tutti i presenti, ponendo così fine alle sue sofferenze. Da un lato questo può essere considerato un gesto di amore e pietà nei confronti del padre, nonostante per tutta la vicenda Tommasino si sia dimostrato ingrato e scansafatiche, dall’altro potrebbe anche essere uno spunto del regista per esortare le nuove generazioni a fare tesoro dell’insegnamento della tradizione ma, al contempo, a superarla, rinnovando e sperimentando, facendo così rinascere il teatro.

Alice Del Mutolo
Stefania Pero

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone,
Emilio Vacca, Alessandra Borgia
drammaturga del progetto Linda Dalisi
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino – luci Simone De Angelis – musiche Franco Visioli
Teatro di Roma

 

La notte porta consiglio

Niente di più attuale del testo di Hanoch Levin portato in scena da Andrèe Ruth Shammah, considerato negli anni della sua stesura “scomodo”, il quale affronta una crisi esistenziale tra le mura domestiche avuta dal protagonista Yona Popoch, interpretato da Carlo Cecchi. Una crisi, più di mezza età che coniugale, che porterà a riflessioni filosofiche e a considerazioni sulla vita e sulla morte, quasi preannunciata nelle battute iniziali dal dolore al petto di Yona che si manifesta più volte durante lo spettacolo.

Sipario aperto, letto matrimoniale ben in vista grazie al pavimento inclinato, si spengono le luci ed entra la coppia. Lui, beffardo e duro tanto da definire la moglie un“culo”, lei, Leviva (Fulvia Carotenuto), onesta, come spesso si definisce, e incredula alla reazione improvvisa del marito nel cuore della notte il quale, preso dai pensieri e, apparentemente, dal timore che la moglie lo tradisca, la butta giù dal letto insieme al materasso. Battute comiche si alternano a scene patetiche in cui viene messa a nudo la tristezza e la sofferenza dei personaggi, l’incapacità di comprendere a fondo questa loro vita e ti trovare una scappatoia. I personaggi, infatti, trascorrono più tempo a parlare, a lamentarsi e a insultarsi che ad agire. Leviva minaccia il suicidio ma tenterà sempre e solo di convincere il marito a restare e a invecchiare accanto a lei; Yona proverà ad andarsene di casa per rifarsi una nuova vita senza la moglie, ma nel momento decisivo ecco che sopraggiunge un loro amico, Gunkel (Massimo Loreto), un uomo solo, senza moglie, invidioso di loro. Sarà poi la solitudine di quest’ultimo e la sua infelicità a far cambiare idea a Yona, più che per amore verso la moglie per paura di morire solo. Gli atteggiamenti si invertono: Yona più remissivo, Leviva più audace. E’ lei ora a prendersi beffa del marito, servendosi dello stesso sarcasmo riservatole prima, chiedendo anche sostegno al pubblico, anime dell’aldilà che osservano la loro vita, tra cui si cela anche lo spirito della madre del suo compagno “che se la ride”. Rottura della quarta parete, dunque, così che il pubblico è costretto a vedere la finzione sotto una nuova luce e a guardare meno passivamente, forse un richiamo a Brecht, ben noto per rompere deliberatamente la quarta parete, per incoraggiare il suo pubblico a pensare in modo più critico ciò che stava guardando. Lo spazio del palcoscenico è dominato da Cecchi, quasi mai fermo, il quale trascina il pubblico nel suo sogno di libertà, ma è la voce di Fulvia Carotenuto a prevalere maggiormente, ad attirare l’attenzione del pubblico ed a riportarci con i piedi per terra. Intanto il tempo scorre. Il lavoro di vivere è un testo conflittuale, una commedia crudele e ironica, con battute pungenti. Niente è lasciato al caso come il rumore delle gocce d’acqua: durante l’arco dello spettacolo è possibile udire lo scarico del gabinetto che perde, goccia dopo goccia, come a scandire i secondi che passano, forse un altro modo per farci intuire che Yona ha i minuti contanti.

“Mistero Buffo” in Valsesia

Il sipario si apre e in scena niente, non una sedia, non uno sfondo, nessun elemento scenografico. Dopo alcuni secondi esce Ugo Dighero in maglietta e pantaloni neri, inizia a parlare agli spettatori di quello che vedranno in scena e, ancora prima che inizi veramente lo spettacolo il pubblico in sala è già conquistato.

Mercoledì 18 gennaio Ugo Dighero ha portato sul palcoscenico del Teatro Civico di Varallo, in provincia di Vercelli, due monologhi tratti dalla più celebre opera teatrale di Dario Fo, Mistero Buffo. Lui regista e unico interprete ha saputo calcare la scena brillantemente in entrambi i pezzi: Il primo miracolo di Gesù bambino e La Parpaja Topola . Composto nel 1969, Mistero Buffo è descritto (dallo stesso autore e primo interprete) come una giullarata popolare. Esso, come ci spiega Dighero, è un insieme di monologhi che si ispirano ad alcuni episodi dei Vangeli Apocrifi o a racconti popolari della vita di Gesù. La tecnica di rappresentazione è il grammelot, linguaggio inventato dal Premio Nobel. Esso è un insieme di suoni onomatopeici e di idiomi che assomigliano a diverse lingue o dialetti, i quali in realtà sono inventati. Nella fattispecie i due monologhi presentati hanno una cadenza molto vicina al lombardo, con suoni anche di altri dialetti, in particolare quelli dell’Italia centrale. Il tutto mescolato assieme crea comicità e diverte il pubblico proprio perché sconcerta vedere delle figure sacre o legate alla chiesa in questa veste, per così dire, “terrena”.

«Mi sono arrivate diverse lettere» dice Dighero «non oso immaginare a Dario Fo quante gliene siano arrivate in cui veniva accusato di blasfemia. Io però, fin dalla prima volta che ascoltai questi pezzi rimasi strabiliato e credo che lui abbia trovato un meccanismo straordinario per far empatizzare le persone con le figure sacre, che in genere […] siamo abituati a vedere con una certa distanza. Qui invece ne apprezziamo la profonda umanità, i drammi e le esperienze umane, il che ci svela un aspetto poco conosciuto e estremamente interessante.»

Il ritmo dei due monologhi è incalzante e la parlata è sciolta e spigliata. Il movimento del corpo è fluido e scomposto, non certo paragonabile alla scioltezza di Fo, ma decisamente giullaresco. Dighero pare quasi un bambino che salta, corre per il palco e a volte perde l’equilibrio. L’elasticità e la leggerezza nei movimenti sono dovute anche alla briosa interpretazione di questo attore che, da solo, entra e esce dai vari personaggi con grande maestria e, mantiene sempre, con il pubblico, un contatto diretto spiegando ciò che sta facendo; lo stesso modo in cui, come diceva Fo, i giullari medioevali intrattenevano il loro pubblico nelle piazze. I temi centrali di questi due monologhi sono il potente e il diverso, o forestiero e la difficoltà di integrazione dei nuovi arrivati in una comunità in cui non sanno cosa succeda all’interno, ma di cui vorrebbero far parte ugualmente. Così ne Il primo miracolo di Gesù bambino, che narra, a partire dalla fuga in Egitto, l’infanzia di Gesù, troviamo un episodio che inizia con un divertente sguardo al passato, l’arrivo dei tre re magi al presepe, per poi concentrarsi sulla vita del giovane Jesus a Jaffa, che per essere accettato dagli altri bambini decide di fare un miracolo, far volare con un soffio un uccellino di argilla. Arriva poi il figlio del capo del villaggio, un bambino dispettoso che distrugge tutti gli uccellini e “Palestina”, così viene soprannominato ironicamente Gesù, invoca suo padre Dio. Nella Parpaja Topola invece, il protagonista è un eremita che dopo aver ereditato una grande fortuna, per inganno sposa una giovane donna, l’amante del parroco di un paese vicino. Il monologo narra della prima notte di nozze e delle avventure di Giavanpietro alla ricerca della Parpaja smarrita, peripezie causate da un insieme di equivoci esilaranti che fanno provare empatia e tenerezza per il povero personaggio. Ogni episodio è all’insegna della comicità e della giocosità, dati da una mimica facciale policroma, fatta di tante sfaccettature che ricalcano ogni personaggio. I temi affrontati sono oggi attualissimi, conosciuti e vissuti da tante persone, ma Dighero li affronta con una tale leggerezza e ilarità che non può che suscitare risate; infondo è proprio questa l’idea di Mistero Buffo, rivisitare in chiave buffonesca temi sacri e attuali.

A chiusura della serata l’attore porta sul palco una poesia di sua composizione. Una “lirica populista” (definita così dallo stesso Dighero) che egli scrisse ai tempi della Guerra in Iraq, ma purtroppo sempre attuale visto come stanno andando le cose ancora oggi. Si intitola Ho deciso di esportare una merce nuova, che sarebbe poi la democrazia. Ironicamente Dighero suggerisce come le potenze occidentali siano andate a “liberare” i popoli del medio oriente, ma a modo loro, con tanto di armi, di bombe e di imposizioni culturali. «Facciamo una pazzia, esportiamo la democrazia chi non ce l’ha lo spaziamo via…» declama Ugo Dighero. La sua è una critica al potere, non solo americano ma anche europeo e italiano. Per possedere anche solo una piccola parte di oro nero, nessuno esita a spacciarsi per difensore di pace e libertà. «Pace e concordia al modo intero riempiendo il cimitero…» continua. E conclude: «Noi siamo i buoni abbiamo una mania esportare la democrazia, ma non la tua, la mia.» Il tema principale è sempre il potere, affiancato questa volta dalla bramosia di conquista di nuove terre e dall’imposizione di nuove ideologie. Ugo Dighero ha una grande forza espressiva, in grado di comunicare con chi lo sta ascoltando e, ancora una volta suscita negli spettatori la risata. Questa volta però è una risata più amara perché le ferite che queste guerre hanno lasciato e stanno lasciando sono ancora aperte.

Mi sono seduta al mio posto, prima dell’inizio dello spettacolo con qualche riserva, senza un vero motivo in verità. Alla fine però mi sono dovuta ricredere, Ugo Dighero è stato molto bravo e all’altezza delle interpretazioni del grande Fo. Il pubblico ha riso di gusto, me compresa e ha battuto le mani con calore e partecipazione, proseguendo per diversi minuti nel finale.

 

Trad-attori parricidi: il Natale in casa Latella

Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli; quando sono fedeli non sono belle (Carl Bertrand)


di Matteo Tamborrino

ph: Brunella Giolivo
Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Lino Masella (Nennillo) – ph: Brunella Giolivo

Questo estemporaneo avvio dedicato alle belles infidèles, ci permette in realtà di riflettere su quanto imprescindibile sia il nesso tra traduttologia, filologia e cultura teatrale. Si tratta di una relazione a tre che travalica le mere contingenze della messinscena  (per capirci, l’annosa questione: “Quale edizione del testo scelgo? Come lo traduco o rappresento?”), e che riguarda invece (e soprattutto) una condivisione di metodo, di approccio teorico e dunque di spirito.

Ripartiamo perciò da qui, dallo spirito. Da quella che i filosofi chiamano essenza. Siri Nergaard, docente di Lingua e letteratura norvegese all’Università di Firenze e di Teoria della traduzione presso la Scuola di studi superiori dell’Università di Bologna, ha pubblicato ormai 23 anni fa un’illuminante antologia dal titolo La teoria della traduzione nella storia (seguita poi dal volume, sempre edito per Bompiani, Teorie contemporanee della traduzione), che ripercorre – da Cicerone a Derrida – i maggiori contributi in merito alla questione della “trasposizione di codici e linguaggi”, un tema da cui registi e attori non possono prescindere.

Lettera o spirito? Erompiamo così dalla selva di richiami accademici e giungiamo lesti a ciò che più ci compete. Natale in casa Cupiello, per la regia di Antonio Latella, calca il palco del Teatro Carignano  – con il suo nutritissimo e meritevole ensemble di interpreti – tra il 10 e il 22 gennaio, destando – come prevedibile – reazioni alterne. Come costruire una relazione ottimale con un pubblico che, almeno in parte, si turba al solo pensiero di veder “stravolto” (sull’opinabilità poi di tale assunto torneremo) il divin Eduardo? «Non possiamo adeguarci supinamente alla domanda» è la risposta perentoria di Francesco Villano. «Noi dobbiamo imitare l’essenza di Eduardo, non scimmiottarne la forma attorica. Dobbiamo insomma trovare nuove forme per rendere viva, ancora viva, la sua natura di rivoluzionario, la sua parola d’autore». È il rispetto per lo spirito dunque la legge che governa la traduzione e la trad-azione (nel senso di trasposizione teatrale) di un classico, specie se si tratta di un attore-regista-autore come era l’erede di Scarpetta.

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Tormentato fu il lavoro di Eduardo su questo dramma, riscritto e meditato a partire dal 1931, anno di debutto con i fratelli nella compagnia del Teatro Umoristico, fino alla fine degli anni ‘70, con propaggini radiofoniche e televisive. Parimente tormentata risulta la cornice scenografica all’interno della quale si articola questo pregevole lavoro, che sembra contaminare l’umbratile genio pittorico di Bosch, Caravaggio e Füssli,. Dalla cieca fissità iniziale degli attori, esposti in proscenio e gravati da un’ingombrante cometa di vaporosità simile a un enorme corallo dorato, l’azione esplode poi in un trionfo bestiale di fisicità, tra il gioviale e l’effimero. Ad avvolgere l’intero allestimento, una luce funerea, un coacervo baroccheggiante di tensione geometrica e sensualità animalesca. La scena in cui Ninuccia/Valentina Acca viene rimbalzata come un testimone tra Nicola/Francesco Villano e Vittorio/Giuseppe Lanino racchiude in sé tale dialettica.

Francesco Villano è Nicola
Francesco Villano è Nicola

In un universo contraddittorio che alterna carnalità e mistica, cartapesta e simboli, in cui la tradizione è profanata in maniera irrevocabile, diventando mortifera consuetudine, Nicola è il più outsider di tutti: «Quello di Nicolino è un mondo frustrante, fatto di denaro e bottoni», spiega Villano parlando del proprio personaggio. «Il suo disagio nasce dal non riuscire a esprimere dei sentimenti, che pure egli prova. Non è cattivo, ma non conosce altri linguaggi. È questa situazione di umiliazione a condurlo poi verso il grido finale. Verrà infatti estromesso dai riti dei Cupiello». Villano è dunque un villain atipico: «Quella di Antonio è una regia “orizzontale”: ci offre degli spunti, dei suggerimenti sulla genesi dei nostri caratteri. Poi tocca a noi. Nel mio caso, sapevo di dover dar voce a un uomo innamorato sì, ma che in fondo non ha alcuno strumento per esprimerlo». È il vate del mercimonio, è il Buffalmacco che compra i capponi: «Parla di cibo, sempre: vuol comprarsi la benevolenza della famiglia».

Tradurre è tradire. Tradire (tradĕre) è consegnare. Offrire cioè in una lingua d’arrivo un certo contenuto, che possa sortire un effetto paragonabile all’originale in un pubblico diverso (per idioma e cultura) rispetto a quello per il quale l’opera era stata pensata. Tradurre è dunque l’utopia esperantista, la capacità di saper parlare a tutti, in una “lingua ideale” (cfr. Cicerone, Libellus de optimo genere oratorum), e in ogni tempo. Per rendere immortali delle parole, dei valori, e non le persone che se ne fanno temporanei vettori. Eduardo fu un Grand’attore, ma ora è tempo di farlo Grand’autore, di prender coscienza della sua dipartita (e, con lui, dei suoi mugolii, dei suoi silenzi, della sua inimitabile e inimitata maschera facciale).

“Cominciamo da capo tutto” è il loop disarmante che inquieta gli attori. L’Eduardo promiscuo, l’Eduardo attore s’intende, è morto il 31 ottobre 1984. Dal 1° novembre, rifarlo fu impossibile. Non si tratta di arte, ma di biologia. E se non è ancora morto va almeno debellato, consegnato alla storia (che Amleto, Edipo o anche solo il timido Pietro Rosi ce ne diano la forza!). E in tale “inattuabilità del lutto” ha avuto di certo un ruolo fondamentale (sembra assurdo dirlo) l’enorme quantità di materiale audiovisivo a nostra disposizione. Che ha continuato a renderlo vivo ai nostri occhi. Perfino Carlo Cecchi, che pure mastica De Filippo ad ogni sua nuova prova teatrale, ha saputo recuperarlo concretamente non  prima del Sik Sik del 2000.

È l’altro Eduardo, quello dei copioni, a dover diventare classico, tradizione, “presepio”. Come?

Annibale Pavone è parte del Coro
Annibale Pavone è parte del Coro che – al pari di una tragedia greca – segue lo sviluppo dell’azione

Il testo è rispettato con estrema fedeltà dal regista, ma – per così dire – sovra-costruito. «Da diverso tempo – racconta Annibale Pavone, direttore artistico e parte del coro – Latella conduce uno strenuo lavoro sui testi. Nel caso di Cupiello ha scelto di scavare in profondità, fino al non-detto, penetrando nelle tonicità della scrittura e nelle didascalie» (sempre così abbondanti, peraltro, nei testi dell’autore, il che denota una sua particolare cura nei confronti dell’attore). «Dopo le prime letture, ha definito quella partitura che avete potuto ascoltare», così straniante, così brechtiana: gli accenti gravi, acuti e circonflessi flettono gli attori, nel corso del primo atto, come se fossero tesi da un filo invisibile, intenti a giocare a “sacco pieno-sacco vuoto”. Nel frattempo, il protagonista redige un impercettibile brogliaccio. La fatica e la concentrazione degli attori raggiungono anche gli spettatori più lontani: «I primi quaranta minuti – continua Pavone – prevedono solo movimenti minimi e solo da parte di chi si è già tolto la benda. Per gli altri è un lungo lavoro d’ascolto, che non ammette distrazioni. La cecità ci confonde, ma ciò che deve essere esibito è in primis il testo di Eduardo». È come un’enorme mente, che silenziosa e buia, legge. Altri ostacoli si avvertono poi sul cammino: gli animali del presepe portati a zonzo per il palco (e che diventano opprimenti doppi), o il carretto funebre spinto dall’eccellente Concetta di Monica Piseddu.

Che cosa significa tuttavia confrontarsi con un mostro sacro? L’abbiamo chiesto a Francesco Manetti, l’efficace pater familias in giacca albina (che interpreta però anche la parte dello scrittore in fieri): «Credo che Latella si sia rivolto a me perché ho la fortuna di non avere nulla in comune con l’Eduardo attore. Per età, per provenienza (io sono fiorentino), per storia artistica e biografica. Mi sono approcciato a Luca Cupiello come ad un qualsiasi altro personaggio, ‘come se fosse – e cito Latella – un Checov’. L’intento di Antonio era di creare un padre fuori luogo, incapace di gestire quella famiglia. C’è stata poi da parte sua una richiesta precisa: che il napoletano fosse letto e non detto. Il che sarebbe invece venuto automatico dopo mesi di repliche». Ma d’altronde, compito degli attori non è illudere, “camuffare”. Sul tema, interviene di nuovo Villano: «Il teatro post-drammatico non lascia spazio all’immedesimazione. Il teatro è un gioco: un po’ lo fai, un po’ lo racconti, ma bisogna essere onesti con il pubblico, senza ingannarlo». L’attore persiste, insomma, sulla superficie del personaggio.

Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti
Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti

Checché se ne dica, comunque lo si voglia definire, il Natale latelliano – come già l’Arlecchino –  rappresenta una svolta notevoledeo gratias – in questa impasse storico-teatrale di inizio millennio, che troppo spesso si avventura su sentieri manieristici. E di tale neo-manierismo (dal gelo del 1985 in avanti) lo spettacolo in questione è acme e nemesi. Un Cupiello dunque filologicamente deferente. Non stravolto, né calpestato. Semplicemente ri-formato. Ne tradisce (qui intendi “sovverte”) l’estetica, ma ne tradisce (“consegna”) il senso. Perché solo con una “bella  (eccezion fatta per alcune lungaggini finali) infedele” questo testo può finalmente essere attraversato, capito e restituito alla propria grandezza (parafraso qui Manetti): «Per accettare un’eredità bisogna preventivamente constatare che il padre sia morto».

Plauso (non di rito) a tutti gli interpreti, “artefici magici” di un esempio incantevole di attore-testimone-interlocutore-restitutore. Di un attore, insomma, traduttore. Trad-attori.

Gli insoddisfatti si diano pace.

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
drammaturgia Linda Dalisi
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino
luci Simone De Angelis
musiche Franco Visioli
prodotto da Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Il lavoro di vivere: “più facile a dirsi che a farsi!”

Sono le due di notte, le tende delle finestre oscurano la stanza matrimoniale dei due coniugi Yona e Leviva Popoch. Al centro di quest’ultima: un letto, sottosopra e disfatto, quasi “sciupato”, metafora senile dell’individuo.

Dormono, quando improvvisamente l’uomo viene colto da un malore al cuore: è una meditazione sul “male di vivere” -molto simile ai due protagonisti calviniani de La vita difficile –  è il bruciore del rimpianto di cose mai fatte, è il desiderio impossibile di tornare indietro negli anni per intraprendere un nuovo ciclo di vita; ma è anche la bramosia di rinascita; infatti, Yona è come una fenice alla quale hanno tagliato le ali, ed ora sembra deciso a riprendersele. Arrabbiato e insoddisfatto, quest’ultimo, decide di destare la consorte dal suo sonno profondo e quieto, ribaltandola letteralmente giù dal materasso, buttandola per terra senza alcuna remora, come si farebbe con un sacco dell’immondizia, per poi, cinicamente, chiederle: “Perché sto con te, Leviva?”

Ed è proprio in questa stanza- che pare un quadro dai colori ormai sbiaditi a causa del tempo- che ha inizio una lunga e logorante guerra di trincea che vede l’alternarsi di ragionamenti filosofici, di insulti ironici e di divertenti sfottò; la rabbia viene “vomitata” l’una addosso all’altro, per sfociare, infine, in violenti e sarcastici atti carnali che ricordano tanto quelli di Philip Roth.

Il-lavoro-di-Vivere 2

“Guardatevi sembrate due cani rabbiosi” dice l’impertinente amico Gunkel, osservando la coppia. Gunkel è giunto nella stanza forse perché in cerca di un’aspirina contro il mal di testa, o forse a causa della sua sofferenza scaturita dalla solitudine, in cerca di un po’ di compagnia contro cui inveire. Così, questi due esseri umani mutati in bestie, sprecano parole su parole senza mai agire veramente. Sono inetti di fronte ai loro stessi desideri!

Yona ha preparato la valigia, si è vestito, ha indosso persino una cravatta sopra il suo pigiama preferito, è desideroso di ricostruirsi una vita e perché no, di trovare un nuovo “culo sodo” che sostituisca quella flaccido della moglie. È già in viaggio… sì, ma con la mente, di certo non fisicamente: i suoi piedi rimarranno, infatti, radicati in quella stanza “finché morte non li separi”! La moglie inizialmente inscena, in modo astuto, e pur di non perdere il suo compagno di vita, un gioco di adulazione verso il marito: si offre completamente a lui, inginocchiandosi al suo cospetto, quasi fosse una madonna vergine, per poi trasformarsi in un giannizzero disperato, che recluta il marito, affinché combatta al suo fianco quella cruda ed estenuante guerra di vecchiaia e di morte, che altro non è che il lavoro di vivere.

L’uomo sembra finalmente aver messo da parte la rabbia accecante, per rendersi conto che, in fondo, andare via di casa all’età di cinquant’anni non è poi una grande idea, che in fin dei conti non gli conviene poi tanto rinunciare alle comodità quotidiane, e dunque, a un bel frigorifero pieno, al piatto caldo, e a tutte quelle abitudini che solo trascorrendo una vita insieme, l’altra persona può arrivare a conoscere: dalla quantità di sale per condire le varie pietanze, alla quantità di zucchero da sciogliere nel caffè!

Andrée Ruth Shammah ci regala una regia d’effetto, quasi cinematografica e curata nell’estremo dettaglio. Carlo Cecchi che interpreta il burbero marito, è formidabile nella sua recitazione “stanca”, trascinata e a tratti persino “biasciacata”; estremamente vera la recitazione di Fulvia Carotenuto (Leviva) e Massimo Loreto (Gunkel); merito anche del testo di Hanoch Levin, israeliano scomparso prematuramente -purtroppo poco conosciuto in Italia- che mescolando una freddezza tipica dello straniamento brechtiano ad una violenza già cara al teatro sperimentale del secondo Novecento, ci pone di fronte a dei protagonisti che sono degli anti-eroi per eccellenza, inetti soldati che combattono piccole grandi battaglie quotidiane, ai quali non resta che lamentarsi e crogiolarsi  nei loro fallimenti.

Il lavoro di vivere è una piccola grande analisi sul trionfo delle parole sulle azioni, che spesso caratterizzano la vita di noi fragili esseri umani; è una amara celebrazione dell’abitudine sulla forza vitale, e dunque sulla nostra incapacità di agire, rimanendo stigmatizzati e incatenati ad una situazione che sappiamo peggiorare sempre di più…dunque non ci resta che lamentarci, continuamente lamentarci, perché in fondo ci piace e ci fa comodo così.

Un testo sulla difficoltà e sulla pesantezza di vivere, che vale la pena di essere visto, perché tutti noi, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo sentito o sentiremo, di non essere più in grado di andare avanti.

 

Martina Di Nolfo

 

Di Hanoch Levin

Uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah

Con:

Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto

Musiche Michele Tadini

Teatro Franco Parenti/ Marche Teatro

Lo specchio di Edith

Non si è mai vista una bella donna che non facesse smorfie davanti a uno specchio (William Shakespeare)


ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

Ogni specchio – si sa – è in grado di trattenere frazioni microscopiche del nostro animo: sguardi, smorfie, corrucci, pensieri. Ma che cosa ci attrae di più? L’epifania virtuale di noi stessi (che giunge puntuale, ad ogni successiva riflessione), oppure l’oggetto in sé, quel vetro “narciso” che ci dischiude mondi bislacchi, templi di illusioni rovesciate?

E più ci avviciniamo alla superficie del miraglio, più ci chiudiamo in noi stessi, più smarriamo quel senno che ci rende “ordinari”. Che ci rende, cioè, parte di un mondo “civilizzato”, fatto di altri. Ma nel podere selvaggio e viscerale di Big e Little Edie non c’è spazio per nessun altro. Qualsiasi evasione, qualsiasi pretesa (e pretendente), qualsiasi tentativo di fuga debbono essere arginati. Al di là dei loro corpi – l’uno più spigoloso e teso, l’altro più morbido e fanciullesco –  non c’è (più) nessuno: resta soltanto la “casa romita”. Che le incornicia, come una pala d’altare acuminata. E una ringhiera, che le imprigiona.

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ph. Luigi Ceccon

C’è un breve istante, nello spettacolo di Chiara Cardea ed Elena Serra, in cui la giovane Edith si guarda allo specchio. Spalle al pubblico, Madre di fronte. Entrambe sono ferme, protette dalle asfittiche mura di Grey Gardens. È solo un attimo, sia pur di intensa ambiguità: chi è, davvero, la bella del (quondam) reame che appare sull’orlo traslucido di quella delicata suppellettile? È la donna dai soavi turbanti o quella dalla pungente lascivia, che ne è – in fondo – doppione e contrario?

L’allestimento – che rievoca la relazione morbosa delle parenti reiette di Jackie O’, Edith Ewing Bouvier Beale e figlia  –  trasuda di decadentismo, con un’ottima costruzione delle cromie e della dimensione ottica. Di fine pregio è la palafitta mobile al centro del palco (realizzata da Jacopo Valsania), di color azzurro cielo: la porta, che sbatte fragorosamente ad ogni passaggio delle protagoniste, scandisce il ritmo della rappresentazione. L’abitazione viene presentata al pubblico sotto vari punti di vista, o meglio inquadrata da varie angolature (forse in onore degli antichi “natali cinematografici” di questo plot).

I costumi, cavati da due belle boutique torinesi e curati da Anna Filosa, hanno un’importanza strutturale nell’economia del racconto: essi rimangono tali per l’intero svolgimento dell’azione; restano cioè costumi di scena, conservando la propria essenza mimetica senza mai degradarsi in vestiti dozzinali. Tra pizzi rococò e vestaglie da belle epoque, le due Edie strisciano, ora sinuose ora scomposte, nei propri simulacri di tessuto. La giovane li sfoggia come ultimo lacerto di una carriera declinata (e forse mai cominciata davvero), l’anziana li sfrutta per deprezzare e “denudare” l’high society statunitense che, di quegli abiti, aveva fatto uno status symbol.

foto EDITH
ph. Luigi Ceccon

«Cercavamo un testo capace di indagare la coppia femminile», racconta Elena Serra/Big Edie, spiegando la genesi di questo lavoro. «Volevamo però al tempo stesso ampliare il nostro orizzonte di indagine, oltre il panorama drammaturgico tradizionale: da teatranti, infatti, pecchiamo spesso di auto-referenzialità. Parliamo tra di noi e con il nostro mondo di riferimento. Ma che cosa, chi c’è al di là?».

Dopo un infruttuoso avvio con le Serve di Genet, arriva l’illuminazione: «Un giorno, un amico ci mostrò Grey Gardens, docufilm del ’75 di Albert e David Maysles sulla vita delle Bouvier Beale, zia e cugina di Jacqueline Kennedy. Fu amore a prima vista: rimasi folgorata dalla naturalezza con cui queste due donne gestivano la propria femminilità. Non si limitavano a subire il proprio corpo, bensì lo ponevano continuamente in scena. Recuperare un rapporto sincero con la propria fisicità è molto complesso, soprattutto per le giovani attrici: me ne rendo conto da tempo, lavorando al fianco di Valter Malosti in Accademia».

Due donne; sociopatia q.b.; rapporto atipico con la drammaturgia. Gli ingredienti necessari per un delicato bignè ci sono tutti. Per quanto concerne l’aspetto testuale, Edith nasce – come detto – da una pellicola, che al di là della conduzione “in presa diretta”, resta pur sempre un film, fatto perciò di montaggi e discorsi sconnessi. Le due attrici-registe hanno così proceduto dapprima con l’estrapolazione di segmenti dialogici, traducendoli in italiano, dopodiché li hanno riordinati tematicamente, privilegiando tre nuclei diegetici: la vita di Little Edie e il desiderio di tornare in città, il passato della famiglia (e dei suoi uomini, presenti solo a mo’ di spettri vocali) e infine il rapporto con la casa. Non mancano le interpolazioni, significative per la biografia artistica delle due attrici: fra gli altri, il “Domani, e domani, e poi domani” di Macbeth.

Il progetto, nel complesso assai pregevole, merita di essere segnalato anche per l’attento studio storico e psicologico condotto dalle interpreti/outsiders: oltre all’obbligata full immersion fra i libri di storia americana, le due Edith non hanno trascurato l’allestimento di eventi collaterali, utili – spiega la Serra – «per sperimentare la vita del patriziato: abbiamo così ricostruito al Circolo dei lettori (grazie a Terre Spezzate, leader nella creazione di GdR) il party di debutto di Little Edie in società. Tre ore per provare a immaginare che cosa avessero perso».

ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

L’abitazione, alla fine, urta la protagonista, distesa sul palco come morta. Si compie così quel profetare antico: “vanitas vanitatum et omnia vanitas”. E Yorick – lo specchietto a mano, per intenderci – resta lì sepolto, tra procioni e bellettame.

 

EDITH
di e con Chiara Cardea ed Elena Serra
voci off Michele Di Mauro, Vittorio Camarota e Matteo Baiardi
regia Elena Serra
progetto sonoro Alessio Foglia
scena e luci Jacopo Valsania
costumi e trucco Anna Filosa
assistente alla regia Davide Barbato
direzione tecnica Loris Spanu
artwork Donato Sansone aka Donny Sansuca | foto Luigi Ceccon
produzione Serra/Cardea | produzione esecutiva Teatro della Caduta
coordinamento e organizzazione Davide Barbato | ufficio stampa Giulia Taglienti
con il sostegno di Renaise – abiti d’Altra moda | Tiramisù alle Fragole | Lumeria
progetto realizzato in collaborazione con Terre Spezzate | Arca Studios | il Circolo dei lettori | Il Piccolo Cinema
prima nazionale 14 gennaio 2016 (Torino, Teatro Gobetti)