TUTTA CASA, LETTO E CHIESA!

Tutta casa, letto e chiesa è uno spettacolo scritto da Franca Rame e Dario Fo.

Nessuno più di Franca Rame sarebbe stata adatta a descrivere la condizione femminile ed in particolare le servitù sessuali della donna: nel 1973 la Rame fu infatti rapita, stuprata e picchiata per ore. Uno stupro “punitivo ” dovuto al suo impegno sociale e civile nonchè una vendetta dei neofascisti nei confonti del suo compagno di vita.

A partire dal 1975 la Rame ricorre all’analisi teatrale: non sul lettino di uno psichiatra ma davanti al pubblico, portando in scena il monologo Lo Stupro e raccontando senza remore l’accaduto.

Nel 1977 il debutto di Tutta casa, letto e chiesa alla Palazzina    Liberty di Milano.

Oltre quarant’anni anni dopo, figure di donne pensate e messe in scena negli anni Settanta vengono interpretate da Valentina Lodovini con parole che sanno essere più attuali che mai. L’attrice recita sola sul palco, accompagnata da continui giochi di luce, rivolgendosi indirettamente al pubblico tramite un dialogo immaginario che avviene talvolta col marito e talvolta con una vicina. La presenza dell’uomo incombe per tutta la rappresentazione, pur essendoci in scena unicamente una donna.

Il pubblico è partecipe, ride e si appassiona alla vicenda, ma spesso si crea un silenzio quasi irreale. Tra le pieghe di un testo comico, sarcastico e graffiante si nascondono infatti problematiche, richieste di aiuto e domande senza risposta, che emergono in maniera quasi inevitabile tramite le parole della protagonista. Lo spettacolo, suddiviso principalmente  in tre parti , ci presenta alcune situazioni tramite un’ironia amara e tagliente sapientemente espressa dalla Lodovini.

Nel primo monologo, Una donna sola, la protagonista interpreta una casalinga, dolcemente svampita, che si ritrova chiusa fra le mura domestiche avendo apparentemente tutto, meno che l’amore e la considerazione  del marito. E’ madre, domestica, moglie impeccabile, ma non donna. Un’eterna bambina intrappolta in una realtà che non le appartiene.

Abbiamo tutte la stessa storia è invece la rappresentazione di un rapporto erotico in cui la donna è adoperata come mero oggetto sessuale. Non ha possibilità di scelta, se non quella di sottostare ai desideri del proprio uomo.

Nel terzo brano, Il risveglio, l’attrice interpreta una donna operaia stremata, ai limiti dell’alienazione, sfruttata in casa, in fabbrica e a letto.  Attraverso la ricerca delle chiavi di casa smarrite ripercorre la sua intera giornata mostrandoci così la sua profonda malinconia.

L’epilogo è affidato ad una Alice, in un paese che ha perduto le sue meraviglie, quasi a volerci risvegliare da un sogno.La Lodovini (seppur molto lontana dalla Rame) è riuscita, forse anche grazie all’antitesi tra fisicità e personalità, a portare in scena con disinvoltura parole che celano il loro spessore dietro una vena comica e talora grottesca.

Al termine dello spettacolo ho avuto il piacere di poter chiacchierare con la protagonista: mi ha rivelato che il testo non è stato in alcun modo modificato, ad eccezione di alcuni tagli necessari e qualche sostituzione (per esempio “euro” al posto di “lira”).

Le modifiche apportate non riguardano però in alcun modo i personaggi delle donne create dalla Rame: questo ci permette di constatare, a malincuore, quanto queste circostanze siano attuali, quanto ancora oggi le donne si ritovino in situazioni analoghe e quanta sia quindi ancora la strada da percorrere.

 

Ilaria Stigliano

 

Produttore: Pierfrancesco Pisani, Parmaconcerti

Regista: Sandro Mabellini

Luci: Alessandro Barbieri

Scenografia: Chiara Amaltea Chiarelli

Autore: Dario Fo, Franca Rame

Protagonista: Valentina Lodovini

produzione: TPE, Teatro Piemonte Europa

ONE BLOOD FAMILY

E LE RESIDENZA TRAMPOLINO DI COLLEGNO

Un nuovo progetto triennale vede coinvolta la Lavanderia a Vapore di Collegno, centro di residenze coreografiche che da 4 anni mette a disposizione i propri spazi per sperimentazioni e ricerche nel campo dei differenti linguaggi della danza contemporanea. In linea con il nuovo decreto ministeriale si propone un nuovo dispositivo in aperto dialogo con il territorio torinese attraverso residenze, che prendono non a caso l’appellativo di Trampolino, con lo scopo di sostenere e guidare lo sviluppo artistico di alcune progettualità individuate e selezionate nel corso del 2018.

Il 16 dicembre scorso abbiamo assistito alla prima restituzione pubblica di una di queste: il gruppo One Blood Family ha prodotto una coreografia che verrà nei prossimi mesi utilizzata all’interno del nuovo videoclip musicale del gruppo. One Blood Family, costituitasi solo un anno fa, accoglie nel suo organico alcuni giovani profughi provenienti da paesi africani e arrivati in Italia in cerca di asilo internazionale presso Villa5 di Collegno, una casa allestita a centro di accoglienza gestita dalla Cooperativa Atypica. I ragazzi di One Blood Family sono stati coinvolti nella prima Residenza Trampolino e hanno condiviso un progetto di ricerca coreografica con alcune allieve selezionate provenienti dalle scuole amatoriali di danza con cui la Lavanderia è solita collaborare. Al fine di una buona riuscita artistica si è potuto contare sul prezioso contributo del coreografo Jérôme Kaboré della Compagnie Wendinm, selezionato e proposto della direzione di TorinoDanza Festival, e dell’assistenza di Simona Brunelli, generando così un percorso che ha visto l’accostamento e la fusione di diversi linguaggi artistici: musica, canto e danza.

Quello a cui abbiamo assistito è stato dunque una restituzione di una sperimentazione linguistica nella sua prima stesura, composta da una nomenclatura prodotta dall’accostamento di codici differenti che non trovano ancora una loro omogeneità ma che al contempo trovano molti punti di raccordo. In particolare, emerge una volontà di far risaltare ogni singolo preformar e di dare forma corporea, e talvolta sonora, ai pensieri e alle storie degli artistici coinvolti. A Simona Brunelli va attribuito il lavoro guida dei neo danzatori mirato all’assimilazione e al perfezionamento dei passi. Un lavoro grezzo che nella sua abbozzatura fa trasparire un alto potenziale per la creazione di una nuova espressività che integra culture lontane ma non così distanti.

Recensione a cura di Matteo Ravelli

 

Coreografo Jérôme Kaboré
Assistente alla coreografia Simona Brunelli
Danzatrici Silvia Di Monda, Alessandra Fumai,
Emanuela Pennino, Letizia Turchi
Musicisti e cantanti Seedy Badjie, Sanna Bayo,
Ebrima Saidy, Gilbert Dah, Keba Ndiaye, Adama Ndow, Giorgio Benfatti, Gabriele Concas, Matteo Marini,
Simone Pozzi, Manuel Volpe
Sound concept a cura dell’Associazione
Culturale Spazio Rubedo
Riprese video Giorgio Blanco

In collaborazione con TorinoDanza Festival e Teatro Stabile di Torino

Il Riflesso della Traviata – “La Traviata” di Giuseppe Verdi

Il sipario è aperto. L’orchestra, diretta dal Donato Renzetti, intona la famosa ouverture dell’opera, e con lo sviluppo della melodia la scenografia prende forma: agli occhi degli spettatori avviene il graduale innalzamento dello specchio, elemento scenico chiave della messinscena firmata da Henning Brockhaus (regia e luci) e Josef Svoboda (scene). L’allestimento, Premio Abbiati 1993, è anche conosciuto propriamente come “La traviata degli specchi”.

Siamo al secondo appuntamento della stagione 2018-2019 del Teatro Regio con la trilogia popolare di Verdi: La TraviataContinua la lettura di Il Riflesso della Traviata – “La Traviata” di Giuseppe Verdi

TIMELINE / BALERA – BALLETTO TEATRO DI TORINO

Una serata all’insegna di un sodalizio nato nella scena di danza contemporanea israeliana tra Andrea Costanzo Martini ed Ella Rothschild. I due coreografi hanno presentato alla Lavanderia a Vapore le loro creazioni unendo in un unica data due composizioni che mostrano i punti che accomuna i loro lavori, esprimendo allo stesso tempo il loro stile personale.

Timeline - Balletto Teatro di Torino

Timeline” si apre con una dissolvenza che sembra presa in prestito da una pellicola cinematografica, dove il gruppo di danzatori del Balletto Teatro di Torino, nella completa assenza di rumore, esegue alla perfezione il gioco di sguardi e altezze pensato dalla coreografa israeliana.
 Il racconto si concentra su diversi eventi della vita, comuni alla maggior parte delle persone, e su come questi possano essere affrontati e percepiti in maniere differenti nelle diverse culture o personalità singole. Le complesse relazioni umane si sviluppano attraverso fermi immagine che interrompono il continuum coreografico, creando uno sguardo fisso sui momenti salienti, e dando vita a composizioni di nature morte di corpi plastici che rimarranno impresse nel pubblico come fotografie.
Ella Rothschild sfrutta la forte espressività dei ballerini non solo tramite movimenti corporei ma servendosi anche della mimica facciale e della voce, dando loro la possibilità di esprimersi su diversi livelli. Operazione perfetta per i performer del Balletto Teatro di Torino, che grazie alla loro sintonia sul palco e l’intensa capacità comunicativa, sono arrivati al pubblico come una freccia nel petto.
Esemplare il momento dell’indifferenza del gruppo che inizia un dibattito su argomenti sterili immediatamente dopo la morte di una componente abbandonata all’estremità opposta dello spazio. L’insensibilità protratta nel tempo, sotto lo sguardo giudicante degli spettatori, viene spezzata da un membro della comitiva, il quale dopo vari tentativi di scontro contro l’apatia dei compagni, riesce a smuovere in loro il ricordo della vittima.
Ci troviamo davanti ad una composizione che oltre ad offrire un fascino della forma riesce a scatenare un ragionamento nella platea su temi comuni nella vita di ognuno: coreografo, danzatore e osservatore.

La “Balera” presentata da Andrea Costanzo Martini assomiglia più ad un riformatorio che al luogo affollato da anziani danzanti. Le uniformi monocromatiche indossate dai performer e l’elemento scenografico di un imponente grammofono, offrono uno sguardo su uno scenario degno del romanzo di Orwell: “1984”.
 I momenti di perfetta sincronia del corpo di ballo si alternano a movimenti solistici dove vengono esplorate tutte le forme del danzare: dalle più note nell’immaginario collettivo come il balletto accademico, a quelle più istintive, specchio della natura animale dell’uomo. L’analisi si trasforma in parodia quando i gesti riconoscibili degli stili vengono esasperati creando situazioni ilari studiate per intrattenere il pubblico.
L’atmosfera viene interrotta quando il grammofono cattura l’attenzione su di sé da parte dei danzatori e degli spettatori. Una voce imponente comincia ad ordinare dei comandi, inizialmente incomprensibili e via via sempre più riconoscibili. Si produce una complessa sequenza che associa diverse parti del corpo a  movimenti imposti ai performer. Andrea Costanzo Martini ricrea una versione contemporanea dei giochi musicali tanto amati dai frequentatori delle balere citate nel titolo della composizione, spingendo il pubblico a desiderare di essere tra i sei ballerini ad eseguire le sequenze di azioni. Il ricordo della conclusione della coreografia e del brano musicale scelto per questo momento rimarrà persistente nelle menti degli spettatori per diversi giorni, come un tormentone radiofonico estivo.
Il mondo creato da Andrea Costanzo Martini è grigio e dittatoriale ma trasuda di desiderio di movimento e passione.

di Davide Peretti

 

TIMELINE
Coreografia Ella Rothschild

BALERA
Coreografia Andrea Costanzo Martini

Disegno luci: Yoav Barel
Costumi: Walter&Hamlet
Assistente: Lorenzo Ferrarotto
Danzatori del Balletto Teatro di Torino: Lisa Mariani, Viola Scaglione, Wilma Puentes Linares, Flavio Ferruzzi, Hillel Perlman, Emanuele Piras

Creazione 2018 per il Balletto Teatro di Torino

Con il patrocinio e il sostegno dell’Ambasciata di Israele in Roma

In collaborazione con la NOD – Nuova Officina della Danza

Foto Roberto Poli

La tragedia del vendicatore – Recensione

La tragedia del vendicatore, visto alle  Fonderie Limone di Moncalieri dal 20 al 25 novembre, è uno spettacolo diretto dal celebre regista inglese Declan Donnellan, alla sua prima direzione di un cast totalmente italiano e prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, su testo del giacomiano Thomas Middleton (contemporaneo di Shakespeare).

 

In un’Italia di un periodo imprecisato in cui il potere e la corruzione dilagano senza pietà sotto l’autorità del Duca, il giovane Vindice vuole rendere giustizia alla donna amata, che è stata stuprata e avvelenata  dal corrotto regnante nove anni prima. Già il nome del protagonista è collegato all’idea di vendetta. Da questa premessa si snoda una vicenda di sotterfugi e inganni, intrisa di sangue e di sesso, che mette a nudo la natura dell’essere umano.

Una natura debole, assoggettata alla sete di potere, alla lussuria e a ogni vizio e peccato possibile e immaginabile. Gli uomini raccontati da Donnellan, interpretati da un cast eccellente ed estremamente affiatato, sarebbero disposti a vendere l’anima al diavolo per la sete di potere (o 15 minuti di celebrità), per un momento di passione o per un se pur credibile e invitante, ma misero ed effimero, miglioramento di carriera e di condizione sociale. Sono assassini, patricidi e fratricidi il Duca e la sua progenie; sono madri snaturate (Pia Lanciotti) la Duchessa, per lussuria, e Graziana, madre di Vindice, Ippolito  e Castiza (interpretati da Fausto Cabra, Raffaele Esposito e Marta Malvestiti), che arriva quasi a scambiare la verginità della figlia per il lusso della corte.

 

La Vendetta è l’unico atto in grado di rendere giustizia, atto catartico all’ennesima potenza, in grado di riportare la Giustizia in un mondo corrotto e di infimi valori morali. Questo è ciò di cui Vindice (nomen omen) è fermamente convinto, sicurissimo di essere talmente al di sopra di quel mondo che lo circonda da non poterci finire dentro. «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». L’emblematico aforisma di Nietzsche riesce a catturare l’essenza del protagonista, e del fratello Ippolito, che, al momento cruciale della vicenda, in cui la vendetta sul Duca si compie, l’abisso scruta dentro Vindice, che, a mente fredda come un serial killer, trova conforto e piacere nel dolore del Duca. In scena c’è un cameramen che i riprende i dettagli di questa scena pulp e la esaspera, rendendo Vindice una sorta di voyeur. Voyeur in questo contesto è la traduzione più vicina al termine tedesco schadenfreude che definisce una persona che gode nel vedere situazioni di sofferenza o la sfortuna degli altri. Il termine però ha un’accezione preminentemente sessuale e che rende la scena quasi pornografica. Bisogna però intendere questo termine attraverso le parole dell’antropologo Geoffrey Gorer, dal suo libro The Pornography of the Death: « L’esperienza non menzionabile tende a diventare l’oggetto di fantasie private, più o meno realistiche, fantasie cariche di piacevole colpevolezza o colpevoli piaceri».

 

La vanitas vanitatum, resa simbolicamente dal teschio, di richiami shakesperiani, della moglie di Vindice, e la ciclicità del tempo sono enfatizzate dall’avverbio adesso, che è il termine più usato nello spettacolo, culminando nella danza macabra del finale in cui scorre a tempo di musica una serie di nuovi omicidi. L’ambiguità temporale dettata dalla dicotomia costumi/scenografia accentua nuovamente l’avverbio. Quest’ultima nel particolare proietta la vicenda nel passato, alla corte italiana del XVI-XVII secolo (a cui Middleton fa riferimento) attraverso dipinti di Andrea Mantegna, Piero della Francesca e Tiziano; i costumi invece sono più contemporanei  e sottolineano come le vicende umane siano destinate a ripetersi, in uno scorrere del tempo ciclico.

Come un serpente che si morde la coda, la tragedia del vendicatore, e di tutto il genere umano, è destinata a ripetersi nelle stesse modalità, ed è pronta a colpire, senza via di scampo, ogni essere umano.

«Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te»

Friedrich Nietzsche

 

di Thomas Middleton

drammaturgia e regia Declan Donnellan

versione italiana Stefano Massini

con Ivan Alovisio, Alessandro Bandini, Marco Brinzi, Fausto Cabra, Martin Ilunga Chishimba,

Christian Di Filippo, Raffaele Esposito, Ruggero Franceschini, Pia Lanciotti, Errico Liguori, Marta Malvestiti,

David Meden, Massimiliano Speziani, Beatrice Vecchione

scene e costumi Nick Ormerod

disegno luci Judith Greenwood, Claudio De Pace

musiche originali Gianluca Misiti

Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Emilia Romagna Teatro Fondazione

 

Lussurioso – Ivan Alovisio

Junior – Alessandro Bandini

Operatore TV/ Giudice/ Guardia – Alessandro Bandini

Vindice/ Piato – Fausto Cabra

Operatore TV/ Guardia – Martin Ilunga Chishimba

Supervacuo – Christian Di Filippo

Ippolito – Raffaele Esposito

Operatore TV/ Vescovo/ Guardia – Ruggero Franceschini

Duchessa/Graziana – Pia Lanciotti

Spurio – Errico Liguori

Castiza – Marta Malvestiti

Ambizioso – David Meden

Duca – Massimiliano Speziani

Operatore TV/ Medico/ Guardia – Beatrice Vecchione

LA SCORTECATA – EMMA DANTE

La vicenda che Emma Dante porta in scena è liberamente ispirata alla decima fiaba della prima giornata de Lo cunto de li cunti  di Gianbattista Basile (1556-1632), riproposta in un’originale chiave comico-grottesca.

La scenografia è ridotta al minimo: uno sfondo nero, due piccole sedie di legno, un castello giocattolo e pochi essenziali oggetti funzionali alla narrazione dei fatti, la quale viene affidata esclusivamente alla bravura dei due protagonisti: Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola.

 

Essi mettono in scena la vita di due sorelle vecchie, brutte e soprattutto sole.

Per combattere la lentezza del tempo, le due donne inscenano la favola della scortecata. Due vecchie vivono isolate in una casupola. Un re, passando nei pressi dell’abitazione, si innamora della voce della più giovane delle due. Questa decide di cedere alle lusinghe del re, illudendosi di giungere a un lieto fine che la dipinge come una donna finalmente apprezzata e desiderata.

Si concede dunque al sovrano, richiedendo una stanza senza luce, al fine di non mostrare la sua bruttezza, ma passata la notte, il re scopre l’inganno e caccia la vecchia dal palazzo.

Qui avviene il miracolo: una fata viene in soccorso della donna, e realizza il suo più grande desiderio, rendendola giovane e bella.

Nel suo nuovo corpo, è finalmente accettata dal re che la chiede in sposa.

La sorella, invidiosa, si farà invece scorticare da un barbiere, illudendosi che sotto la pellaccia nera potesse essercene una nuova, fresca e giovane.

[…] E, fattola sedere su uno scannetto, cominciò a fare macello di quella scorza nera, che piovigginava e piscettava tutta sangue e, di tanto in tanto, salda come se si stesse radendo, diceva: “Uh, chi bella vuol parere, pena deve patire!”

Nella rilettura di Emma Dante, il tentativo delle due sorelle di rivivere la favola fallisce nel momento in cui la più giovane delle due realizza la drammatica inconsistenza del loro sogno e prende un’atroce decisione.

L’essenzialità della scenografia e delle luci, sommata alla straordinaria bravura degli attori, crea un equilibrio efficace fra la comicità e la disperazione del racconto.

Il pubblico ha assistito alla rappresentazione con un atteggiamento curioso e volto a cogliere le giuste sfumature di significato delle battute, che, al di là del registro “basso”, enfatizzato dal dialetto napoletano , nascondevano una particolare intensità emotiva.

Un solo applauso durante l’intera esecuzione, alla fine, quando il pubblico, visibilmente commosso, arriva a comprendere il principale messaggio del racconto.

Improvvisamente tutta l’opera prende senso e la dinamicità degli eventi cede il posto a una lenta e angosciosa riflessione sull’utopia dell’eterna giovinezza.

Aurora Colla

 

liberamente tratto da: Lo cunto de li cunti
di Giambattista Basile;
con Salvator e D’Onofrio, Carmine Maringola;
testo e regia Emma Dante
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
assistente di produzione Daniela Gusmano
assistente alla regia Manuel Capraro

Prima rappresentazione assoluta

Spoleto – 60° edizione Festival dei Due Mondi

 

Cosí è (se vi pare) – Filippo Dini

E’ tra l’ombra della verità ed il mistero che prende vita lo spettacolo teatrale Così è (se vi pare) di Filippo Dini. La commedia presenta sfumature intense, realistiche e al contempo surrealisticamente ossessive. Protagonisti della vicenda sono i Signori Ponza e la Signora Frola, madre della moglie, trasferiti da poco in un piccolo centro. Si delinea in loro una forte sofferenza interiore causata dal terremoto della Marsica del 1915 durante il quale persero diversi familiari. È proprio questa sofferenza, dovuta dalla presa di coscienza della catastrofe, il punto di partenza del regista. Tutta la vicenda si svolge nella casa del consiglier Agazzi dove si riuniscono un gruppo di borghesi per scoprire cosa si cela dietro le stranezze dei tre. La signora Ponza vive reclusa in una casa in periferia col marito che più volte al giorno va a trovare la suocera che abita invece in un condominio dell’alta borghesia, proprio accanto alla famiglia Agazzi. Dini è fortemente affascinato dalla figura dei borghesi per il loro accanimento distruttivo, l’ossessiva ricerca della verità univoca e più vicina possibile alla realtà.

Inevitabilmente la scena si tinge di incognite che si susseguono e si alimentano nell’animo dei borghesi.
La duplice verità portata dal Signor Ponza e dalla signora Frola in merito all’identità della moglie accresce la curiosità dei maggiorenti del paese, i quali cercano di portare e far valere ognuno la propria teoria. Il timore, a volte cupo altre volte aggressivo, si manifesta anche nei borghesi, in particolare in Amalia, la moglie del consigliere. La fragilità si palesa in modo evidente, è la figura che percepisce con più coinvolgimento emotivo il segreto inconfessabile dei tre. Personaggio assai curioso e affascinante è il fratello di Amalia, Lamberto Laudisi, interpretato dal regista stesso.

Laudisi, cercando di dissuaderli dalla tragedia, involontariamente alimenta ancor più i dubbi nella mente dei personaggi. Elemento interessante è la menomazione di Lamberto dalla quale scaturisce il suo monologo allo specchio: un tripudio di suoni e riflessi di se stesso e di come gli altri lo percepiscono. Questo è il punto focale dell’impostazione di Pirandello che il regista ci ha saputo riportare: l’impossibilità di comprendere gli altri ed il fantasma di ognuno di noi, fantasma con il quale interagisce timoroso e arrabbiato allo stesso tempo. Pare la stessa sensazione percepita quando, nella scena finale, si alza dalla sedia a rotelle liberandosi da una sorta di costrizione mentale e regge tra le braccia la Signora Ponza, sostenendo quasi una verità camaleontica, capace di adattarsi a gli occhi di chi guarda, così come di noi stessi.
Emerge in questo lavoro un forte richiamo al cinema surrealista, in particolare a Bunel; la dimensione è onirica, l’unica verità è quella mutevole del sogno come contatto privilegiato col proprio inconscio. Ed ecco che Pirandello diventa terribilmente attuale, portatore di un messaggio che ha a che fare con il mondo contemporaneo. Filippo Dini ci ha saputo regalare una visione alternativa della pazzia rispetto al “Così é” pirandelliano: pazzi sono i borghesi, pettegoli che giudicano e scrutano dal di fuori, come pubblico di uno spettacolo vivo, com’è la vita.

Regia: Filippo Dini
Scene: Laura Benzi
Costumi: Andrea Viotti
Luci:Pasquale Mari
Musiche: Arturo Annecchino
Assistente regia: Carlo Orlando
Assistente costumi: Eleonora Bruno
Interpreti e personaggi:
Maria Paiato (la Signora Frola)
Giuseppe Battiston (il Signor Ponza)
Benedetta Parisi (la Signora Ponza/infermiera/spettro)
Filippo Dini (Lamberto Laudisi)
Nicola Pannelli ( il Consigliere Agazzi)
Mariangela Granelli ( la Signora Amalia)
Francesca Agostini (Dina)
Ilaria Falini (la Signora Sirelli)
Dario Iubatti (il Signor Sirelli)
Orietta Notari (la Signora Cini)
Giampiero Rappa (il Signor Prefetto)
Mauro Bernardi ( il Commissario Centuri/cameriere di casa Agazzi)
Andrea Di Casa (cameriere di casa Agazzi)

Marianna Sica

La classe operaia va in paradiso – Claudio Longhi

“Su questa terra verrà creato il paradiso migliore che sia, non sarà quello del proletariato, ma sarà quello della borghesia”. Una canzoncina ci culla, accarezzandoci dolcemente, è la Ninna Nanna del capitale di Fausto Amodei.

Claudio Longhi porta in scena al teatro Carignano di Torino lo spettacolo La classe operaia va in paradiso. L’adattamento teatrale dell’omonimo film di Elio Petri del 1971, opera cardine del cinema italiano e necessario per quegli anni, ha l’intento di usare il passato come specchio, o meglio travestimento, parola molto cara al regista, del presente. Il presente che ci troviamo a vivere è un tempo di crisi, in cui le strutture si mettono in discussione, un tempo interessante. Quindi guardare lontano per vedere meglio chi siamo oggi.

Lulù Massa (Lino Guanciale) è un operaio che deve mantenere due famiglie, stakanovista e sostenitore del lavoro a cottimo, grazie al quale, lavorando a ritmi infernali, riesce a guadagnare abbastanza da permettersi l’automobile e altri beni di consumo. Lulù è amato dai padroni, che lo utilizzano come modello per stabilire i ritmi ottimali di produzione, e odiato dai colleghi operai per il suo eccessivo servilismo. Non ha nessuna vita sociale, nessun dialogo con i propri cari, non riesce neppure più ad avere rapporti con la compagna. La sua vita continua in questa totale alienazione, finché un giorno ha un incidente sul lavoro e perde un dito. Sarà da qui che parte la sua discesa sulla terra, dove l’alienazione svanisce un poco per volta. Basta un infortunio per uscire dal paradiso della fabbrica e vergognarsi per la propria condizione di sfruttato. Così Lulù ha maggiore consapevolezza, ma nel mondo di fuori, nuovo ai suoi occhi è disorientato, non sa cosa fare. Lo guidano i suoi due angeli custodi, o meglio coloro che vorrebbero soddisfare tale ruolo, ma che finiscono per essere dei consiglieri mendaci. Lo studente e il sindacalista, il gatto e la volpe, randagi che chiedono l’elemosina, in questo caso di persone, per le loro lotte al padrone, e allo stesso tempo che apparecchiano inganni ai danni degli onesti lavoratori. Inganni che promettono la lotta contro Dio, senza un progetto compiuto e quindi ignaro delle conseguenze. Lulù perderà, a causa delle sue contestazioni, il lavoro, verrà meno la sua ragion d’essere. Ma Dio è misericordioso, e così Lulù sarà redento da questa sua devianza e verrà riammesso in Paradiso.

Lo spettacolo è intriso di Bertolt Brecht, nume tutelare chiamato in causa in diverse circostanze. L’intento di far riflettere su quello che accade sul palcoscenico, ma anche su quello che accade al di fuori, nella vita di tutti i giorni, si amalgama bene attraverso elementi di rottura della continuità scenica, come i personaggi di Pirro e Petri, e soprattutto dalla figura del narratore, un cantastorie che rilassa il pubblico con canzoni di Fausto Amodei, per poi spronarlo a continuare la sua riflessione. L’attualità è ampiamente evocata: dal lavoro al conflitto con il femminile, attraverso la figura di Adalgisa, una giovane all’interno del mondo virile della fabbrica, ma anche i rapporti familiari. La famiglia è il risultato di tutto ciò che si acquista. Il visone come stato sociale, per citare l’attrice. Abbiamo indossato tutti un visone e ora non sappiamo più riconoscere la nostra pelle naturale, viviamo in una società che tende a coprire le nostre individualità. Una società in cui l’unica via di fuga non è rappresentata da Lulù, che viene inglobato di nuovo nella fabbrica, ma da Militina, figura da tragedia antica. Un pazzo che vede la contemporaneità e chissà forse anche il futuro. Capace di sognare l’utopia per essere profeta di una rivoluzione.

Uno spettacolo necessario, intenso, che oltre a deliziare le nostre papille emotive ci induce a chiederci che cosa sia oggi il proletariato. La risposta a questa domanda sarò una lunga quete tra i meandri della nostra società, forse appagata solo alla fine dalla semplice constatazione che oggi il proletariato è tutto ciò che sogna non di andare in Paradiso, ma di avere un posto da vivere pienamente fuori da esso.

“Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Una vocina ci reca fastidio, ma presto scompare, silenzio. Cos’era? Tendiamo di nuovo l’orecchio, ma nulla. Distratta, la gente se ne va. Ma chi era? Forse proprio Lulù Massa? O quello studente fracassone e perdigiorno? E il sindacalista? No per carità! A casa presto, che domani si lavora. Era il Militina!!!

Emanuele Biganzoli

Liberamente tratto dal film di Elio Petri (sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro)
di Paolo Di Paolo
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios
Emilia Romagna Teatro Fondazione

Da Middleton a Donnellan: la brigata dei vendic-attori, tra voyeurismo maniacale e gusto splatter

Io desidero intendere da voi,/ Alessandro fratel, compar mio Bagno,/ s’in corte è ricordanza più di noi;/ se più il signor me accusa; se compagno/ per me si lieva e dice la cagione/ per che, partendo gli altri, io qui rimagno;/ o, tutti dotti ne la adulazione/ (l’arte che più tra noi si studia e cole),/ l’aiutate a biasmarme oltra ragione. (Ludovico Ariosto, Satira I, vv. 1-9)


di Matteo Tamborrino

Thomas Middleton (1580 – 1627), litografia

Lunghe pagine critiche sono state vergate, nel corso del tempo, a proposito delle arcinote (e quanto mai fraintese) revenge plays di stampo senecano, costruite – almeno per ciò che riguarda l’ambiente rinascimentale inglese – sul modello della Spanish Tragedy di Thomas Kyd. La Tragedia del vendicatore, emblematico esempio di questo filone drammaturgico, come risulta chiaramente fin dal titolo (d’estrema eloquenza), è di vent’anni più tarda: Thomas Middleton la fece infatti rappresentare nel 1606, pubblicandola in volume l’anno successivo, per i tipi di George Eld.

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Moliere / Il misantropo

Don Giovanni non stringere la mano del Commendatore, non lo fare!
Nel momento che lo fa, Don Giovanni viene trascinato all’Inferno, la punizione divina. Ma questo Inferno non è il classico inferno di cui noi supponiamo le caratteristiche. La punizione di Don Giovanni è ben maggiore. Il suo Inferno è in terra, dove sempre ha scorrazzato tra una preda e l’altra, il suo terreno di conquista. Ora si è reincarnato in un misantropo, da uomo decadente che viveva per il piacere della conquista è diventato un uomo che si sente superiore agli altri e li odia per la loro ipocrisia. Conserva lo stesso le sue qualità fisiche, il suo fascino irresistibile, ma non sa più come confrontarsi con l’universo femminile. Vive una relazione morbosa, di amore profondo e intenso per la sua Celimene, non può fare a meno di lei, ma al contempo la odia profondamente per le sue scappatelle con gli spasimanti.

Valter Malosti, direttore artistico del TPE, mette in scena al Teatro Astra di Torino lo spettacolo Moliere / Il misantropo.
Un grande affresco in chiaroscuro di “Diana e Attenone” del Pitocchetto quale fondo del boccascena, un palco bianco rialzato, una specie di ring con ai lati delle sedie. I personaggi si fanno allo stesso tempo spettatori di quello che sta accadendo, della trasformazione del Don Giovanni in Misantropo, che nel suo ring tiranneggia sulla stupidità umana e cade sotto la pugna dell’amore.
Gli attori, vestiti con abiti brillanti e moderni, prendono posto attorno a questo ipotetico palco/ring, le luci platea accese, si odono suoni come se si fosse in campagna compreso i cinguettii d’uccelli. Quasi un direttore d’orchestra, Alceste imita e sollecita cigolii e suoni, accompagnando lo scemare delle luci.
Lo spettacolo scandisce a pendolo riflessioni sulla contemporaneità, bagliori brechtiani si nascondono tra le ombre delle parole di Moliere. Un lucido saggio sul desiderio e l’impossibilità di esaudirlo, sul conflitto tra uomo e donna, uomo e società, uomo e cosmo. Il rapporto di Alceste e Célimène diventa quindi un violentissimo agone, una resa dei conti la cui posta in gioco è – per citare proprio Lacan – la Verità come “ciò che sempre resiste all’intelligenza”.


Alceste e Don Giovanni diventano i due volti di una lotta totale e disperata contro l’ipocrisia e il compromesso su cui è costruita la civiltà. L’Alceste di Malosti è un filosofo,un buffone che non rinuncia alla sottile linea comica, al farsesco che innerva il protagonista. Alceste si fa marionetta pendente dalla labbra di chi gli sta attorno. Tutti lo odiano, tutti lo desiderano, tutti tendono i fili di questa marionetta che si è ribellata. Non ci sta a vivere in un mondo vuoto, stupido, ma allo stesso tempo è costretta ad attaccarsi a qualcosa di questo mondo, alla sua Celimene. Unica via di fuga possibile è scappare in un posto lontano, via da questo inquinamento sociale, scappare con la sua Celimene, ma lei non è in grado di donarsi così ad un uomo. Don Giovanni prova la sua ultima fatica, a strappare la sua amata dalla propria aia di spasimanti, per potersi redimere. Fallisce, non si scappa all’Inferno, e allora non resta che farsi marionetta e farsi gioco per il piacere di altri.
E questo vale anche per noi.

Emanuele Biganzoli
Michela Cicilano

produzione TPE

VERSIONE ITALIANA E ADATTAMENTO
FABRIZIO SINISI E VALTER MALOSTI

UNO SPETTACOLO DI VALTER MALOSTI

ALCESTE … VALTER MALOSTI
CÉLIMÈNE … ANNA DELLA ROSA
ARSINOÉ … SARA BERTELÀ
ORONTE … EDOARDO RIBATTO
ELIANTE … ROBERTA LANAVE
FILINTO … PAOLO GIANGRASSO
CLITANDRO … MATTEO BAIARDI
ACASTE … MARCELLO SPINETTA

COSTUMI GRAZIA MATERIA
SCENE GREGORIO ZURLA
LUCI FRANCESCO DELL’ELBA
CURA DEL MOVIMENTO ALESSIO MARIA ROMANO
ASSISTENTE ALLA REGIA ELENA SERRA
CANZONE BRUNO DE FRANCESCHI
AL CONTRABBASSO FURIO DI CASTRI

PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA
TEATRO CARCANO CENTRO D’ARTE CONTEMPORANEA
LUGANOINSCENA
IN COLLABORAZIONE CON INTESA SANPAOLO