COPENAGHEN: DIALOGO TRA SCIENZA E ETICA

Nel 1941 il fisico tedesco Werner Karl Heisenberg si reca a Copenaghen per incontrare il suo maestro, Niels Bohr. Dall’ultima volta che si sono visti, le cose sono molto cambiate: l’occupazione nazista, le leggi razziali (anche se in quel momento non ancora valide in Danimarca) e il velo cupo di terrore che si era depositato sull’Europa. In questo contesto i due fisici hanno una conversazione che li porta all’estrema rottura, Bohr infatti lo caccia di casa. Ma cosa si sono detti? Di cosa hanno parlato di preciso? Quali sono state le esatte parole che hanno utilizzato?

Questo è ciò che il testo e lo spettacolo cercano di indagare, per fare i conti con il passato e dare un senso a parole e azioni di più di cinquant’anni fa: gli attori parlano infatti con noi, come se volessero spiegarci che cosa sia avvenuto in quel fatidico incontro.

Come se si ritrovassero dopo anni e anni, dopo la loro stessa morte, in un tempo e uno spazio sospesi tra formule fisiche e un passato che schiaccia le loro coscienze, i due fisici e la moglie di Bohr, Margrethe, vogliono ripercorrere nei minimi dettagli il loro incontro, in primo luogo per capire loro stessi. Margrethe è un personaggio strategico, con le sue osservazioni funge come da punto di vista esterno, un ago della bilancia che, quando la rievocazione di ricordi fra i due fisici si fa troppo nostalgica, li riporta al punto principale dell’indagine.

La scenografia, alta, nera e imponente, è composta da una serie di lavagne poste asimmetricamente, piene zeppe di formule matematiche e fisiche. Le luci giocano molto sul chiaroscuro, creano una scena introspettiva e la musica, presente solo in pochi momenti, funziona da contrappunto per aiutare lo spettatore a mantenere sempre l’attenzione vigile. Inoltre i costumi degli attori sono tutti composti dai toni del grigio e per tutto lo spettacolo i personaggi orbitano l’uno attorno all’altro, spostandosi come in una danza scientificamente studiata. Tutto questo contribuisce a dare la sensazione di trovarci proprio nella loro mente, nei loro ricordi, partecipi di questa ricerca di risposte.

La recitazione dei tre attori è davvero magistrale: ognuno di loro costruisce un personaggio estremamente sfaccettato e allo stesso tempo coerente in ogni dettaglio e, nonostante durante le conversazioni si raggiungano picchi di tensione altissimi, nessuno di loro perde mai la concentrazione.

La forza delle loro parole è sottolineata anche dal fatto che fossero molto statici e che quasi mai si toccassero o interagissero fra di loro. Le questioni etiche sui limiti della ricerca scientifica, o i dialoghi sulla condizione umana, solo affrontati in questo modo potevano arrivare allo spettatore taglienti come lame.

Perché sì, questo spettacolo, oltre ad intrecciare piani temporali e a rievocare ricordi apparentemente sconnessi tra loro, è anche un susseguirsi di interrogativi legati alla filosofia, all’etica, alla scienza, a cosa sia lecito e cosa non lo sia più in determinate circostanze.

Entrambi i fisici erano vicini a un traguardo che avrebbe portato alla realizzazione della bomba atomica. Bohr accusa Heisenberg ferocemente, perché accetta di lavorare sotto il regime nazista, regime che si stava macchiando dei peggiori crimini pensabili, e lo condanna proprio per le sue ricerche collegate ad un arma che avrebbe potuto distruggere l’umanità. Ma Heisenberg non riuscirà mai a creare la bomba atomica, poiché, come lui stesso ci confessa, non riusciva (o forse non voleva?) risolvere una formula. Invece Bohr, che sarà costretto a scappare negli Stati Uniti perché per metà ebreo, userà le sue conoscenze e il suo sapere per contribuire alla realizzazione della bomba che sarà poi sganciata dagli americani sul Giappone.

Ed è questa la grandezza dello spettacolo: gli attori, con la loro forza recitativa, ci pongono continuamente delle questioni da risolvere, ma ci fanno uscire dal teatro più confusi di prima e senza una risposta. Alla fine, l’interrogativo che ci risuona nella mente, è solo uno: chi è da condannare, Heisenberg o Bohr?

 

Di Alice Del Mutolo

 

di Michael Frayn
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio
e con Giuliana Lojodice
regia Mauro Avogadro
scene Giacomo Andrico
costumi Gabriele Mayer
luci Carlo Pediani
suono Alessandro Saviozzi
Compagnia Umberto Orsini e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
in coproduzione con CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
si ringrazia Emilia Romagna Teatro Fondazione

La classe operaia va in paradiso

Attore o personaggio? Uomo o macchina? Operaio della B.A.N. o lavoratore odierno? 1968 o 2018?
Sono queste le dicotomie su cui gioca La classe operaia va in paradiso, spettacolo di Paolo di Paolo diretto da Claudio Longhi, liberamente tratto dall’omonimo film di Elio Petri del 1971. Una scelta audace, trasporre in immagini teatrali quegli scomodi fotogrammi che cinquanta anni fa destarono tanto scalpore da intimare la distruzione di tutte le copie. Una scelta audace se si pensa a quanto siano cambiate la società e le prospettive individuali in questo mezzo secolo.
L’idea dello spettacolo nasce nell’estate del 2016, durante un incontro tra Claudio Longhi e Lino Guanciale (che nello spettacolo interpreta il complesso protagonista Lulù Massa). La volontà è quella di inseguire il disegno per cui il teatro è un particolare specchio del presente, uno “specchio anamorfico”, per usare le parole dell’antropologo Victor Turner molto care a Longhi. Una superficie non liscia e asettica, ma che riflette deformando, rimpicciolendo, ingrandendo la realtà: la traveste. E il film nella sua inattualità viene a sua volta trasformato divenendo vividamente e tremendamente attuale, caricato anche di quella forza che solo il teatro, accadendo ogni sera davanti, intorno e con lo spettatore, riesce a dare. Il tema centrale del film quindi si sposta in questa messa in scena: non è più la lotta in sé di quegli operai alienati che caratterizzò i movimenti sociali di cinquanta anni fa, ma il lavoro nella società odierna che vive il 2018.
Parlare del lavoro attraverso la classe operaia si traduce in un gesto del tutto brechtiano. Portare in scena un mondo così lontano e distante ci aiuta a guardarci meglio. Questo specchio distorto che è il palcoscenico ci pone davanti a noi stessi, come individui e come società, riflettendoci e lasciandoci riflettere. L’immagine riflessa di noi individui è un’immagine che non siamo più disposti a vedere: quella del proletario.  Quella di noi società è invece un’immagine che crediamo di intravedere, mentre ci ha abbandonati da tempo: l’immagine della coscienza di classe. E’ su questa visione che si aggomitola la sensazione di perdita che attraversa tutto lo spettacolo: la perdita di quella pulsione ideologica, scaturita da una consapevolezza di massa, che spinge a desiderare il cambiamento inteso come miglioramento. A sottolineare quest’elemento di perdita ricompare di nuovo Brecht, in una recitazione straniata, oggettivata, quasi in terza persona, di attori che sul palcoscenico calcano e ricalcano un contesto storico che non hanno vissuto e non potranno mai sperimentare.
Lo spettacolo vive di quelle vibrazioni che l’inseguimento ossessivo dell’ideale emetteva in quegli anni agitati. Lo spettacolo vive e trema. Trema di ossessione, di disperazione e di speranza e fa tremare il pubblico. Lo spettatore è scaraventato in una visione che lo mette in crisi, lo induce a porsi delle domande, a chiedersi a cosa stia assistendo esattamente. Come mai la rievocazione di un’epoca lontana e inafferrabile colpisce come un secchio di acqua gelida sul viso? E come mai quella disperazione esasperata, quell’ossessione, quel sentirsi un po’ uomo e un po’ macchina risultano così familiari da rabbrividire? E perché al contrario quella speranza e quell’arrampicata vigorosa di chi aspira a qualcosa di meglio sembrano così aliene ai nostri occhi?
La forza evocativa dello spettacolo sta nel suo continuo entrare ed uscire dalla narrazione. Gli attori interpretano più di un ruolo, alternando il tempo della storia con tutto ciò che è stato prima e dopo il film. La sua ideazione e costruzione, attraverso le parole del regista del film Elio Petri e del suo sceneggiatore Ugo Pirro, che sul palco osservano distanti ma allo stesso tempo interagiscono con il racconto; il carico e l’effetto che la pellicola ha trascinato dietro di sé, con gli attori che si immedesimano nel pubblico del cinema del ’71 ed esprimono i loro pareri e le loro critiche contrastanti sul film; la giovane coppia omosessuale che parla del film allo stesso modo in cui si chiacchiera tra amici del più e del meno, a dimostrare quanto i risultati del Sessantotto siano inconsciamente radicati dentro ognuno di noi; quella sorta di narratore-cantastorie che interrompe
bruscamente il racconto passeggiando tra il pubblico ed intonando con un pizzico di triste ironia i testi di Fausto Amodei e strappando qualche enigmatico sorriso.

Foto di Giuseppe Distefano

La messa in scena, nonostante la sua durata di più di 2 ore e 30 minuti, rimane sempre chiara e incredibilmente fluida, dimostrando l’immane lavoro organizzativo alle sue spalle. L’ingegnosa scenografia permette cambi veloci e di grande impatto visivo, lasciando che lo spettatore venga catapultato da un luogo all’altro, dal passato al presente, dalla trama del film alla narrazione quasi senza accorgersene. La fabbrica incombe prepotente sui protagonisti e sul pubblico, senza mai abbandonare la scena. Il nastro trasportatore che ricorda la catena di montaggio scorre al centro del palco, trasportando elementi scenici ed attori, che, come oggetti, seguono il corso incessante della macchina inermi e impotenti, posseduti da essa. Il pannello quadrettato su cui vengono proiettate le scene del film ingabbia i personaggi inequivocabilmente. Li rinchiude senza via di uscita, se non quella di lasciarsi trasportare dal nastro senza opporre resistenza. Li rende prigionieri della fabbrica, delle loro case, dei loro pensieri, della loro vita e della loro ossessione. Con l’inganno rende anche noi pubblico prigioniero dell’inattesa presa di coscienza. Prigioniero di una gabbia da cui, paradossalmente, si è in grado di liberarsi solamente identificandosi nel Militina, l’uomo che dopo una vita chiuso in fabbrica si è tolto le catene perdendo il senno, divenendo paladino e profeta visionario di un sogno di rivoluzione. Uomo portato in scena da una donna, Franca Penone, a rimarcare la perdita di identità e di certezza, ma allo stesso tempo la scarcerazione dallo schema, dai modi che la società ritiene consoni e normali.
Come il Militina, tutti i personaggi assumono un valore proprio e vivono di una interiore polarizzazione. Non ci sono personaggi positivi e personaggi negativi. Personaggi per i quali parteggiare e personaggi contro i quali schierarsi. Sono tutti uomini che manifestano la loro dualità dal profondo. Sono, appunto, tutti uomini.

Foto di Giuseppe Distefano

Lino Guanciale porta in scena un Lulù Massa, operaio stakanovista che finisce col farsi divorare dall’ossessione del lavoro e dall’alienazione della fabbrica, in grado di far ridere e di far piangere. La genialità dell’interpretazione riesce ad esprimere un personaggio fondamentalmente molto semplice ma dilaniato interiormente, con grande pathos e allo stesso tempo dolcissima ironia.
Particolarmente intrigante il cronometrista (Simone Francia), il personaggio più vicino alla figura del padrone, l’emblema della posizione che tutti si trovano prima o poi ad assumere nella società odierna: quella dello sfruttato che all’occasione diventa sfruttatore. Adalgisa (Donatella Allegro), la figura della donna femminile e desiderata, che nel contempo è un po’ “scoordinata”, per dirla con le parole dell’attrice. Una donna che si ritrova giovanissima nel contesto virile della fabbrica; manifesto della donna di quegli anni che vive in un mondo di rivoluzioni, compresa quella sessuale, e ha la voglia e la possibilità di goderselo, di esserci, ma non sa ancora bene come. Lo studente (Eugenio Papalia), personaggio problematico già nella versione cinematografica, rappresentato come paroliere astratto che insegue una rivoluzione solo con la voce e si tira indietro davanti alle conseguenze reali. Non mancano tuttavia i momenti in cui anche la sua più accesa gioventù, che sfocia spesso in una fastidiosa spacconeria, vacilla dimostrando un lato più umano, di un ragazzo che si trova davanti ad una società in fermento, ma è forse troppo giovane per sostenerne da solo il peso. Il sindacalista (Simone Tangolo) che appare spesso pavido, spaventato dall’idea della rivoluzione, ma è quello che prende in mano la situazione e media, ottenendo risultati, che per quanto possano essere delle vie intermedie, sono pur sempre reali. Interessante notare che l’attore che interpreta il sindacalista sia lo stesso che interpreta il cantastorie che conduce la narrazione: si identifica in lui una figura più stabile, su cui fare affidamento nei momenti in cui ci si sta più perdendo. Lidia (Diana Manea), la moglie di Lulù Massa, donna forte, alta, con i capelli corti, lavora sin da quando era una ragazzina e ci ha fatto le ossa in questo mondo di lavoro e insoddisfazione. Continua a sperare che il marito, alienato ormai anche nella vita privata forse persino più che in quella lavorativa, la voglia, la desideri e la ascolti. Disperata nella presa di coscienza dell’inutilità dei sentimenti e del fallimento nella ricerca della realizzazione personale. La splendida attrice, carica di forza emotiva e dalla voce potentissima, cita il suo personaggio, che aspira a poter un giorno comprare il famoso visone, simbolo dell’emancipazione economica, nell’affermare che oggi abbiamo tutti indossato un visone e non riusciamo a riconoscere la nostra pelle, poiché la società ci nasconde, nascondendo a noi stessi la nostra individualità.
In ultimo, uno spazio dedicato merita il musicista Filippo Zattini, polistrumentista eccezionale, che si ritrova a dover affrontare il confronto con un colosso quale Ennio Morricone, che scrisse la colonna sonora del film. La via intrapresa è quella dell’allontanamento dalla versione originale, per seguire un modello del tutto diverso. Le musiche si rifanno al ‘700, in particolare all’Inverno di Antonio Vivaldi, che con la ripetitività e ricorsività dei suoi fraseggi e ritmi collima con l’ossessione della fabbrica. Secoli così lontani si ritrovano a condividere lo spazio scenico, in un turbinio di follia e note. Il musicista è costantemente sul palco, in un angolo poco illuminato, al di fuori della gabbia. Pur non essendo un vero e proprio personaggio, si fa personaggio, tramite delle emozioni e dello stesso ingranaggio della fabbrica, tanto che i protagonisti interloquiscono con lui, zittendo più volte le sue note che esasperano fastidiosamente l’ossessione che rimbomba nei loro pensieri. Diviene quindi anche lui operaio, operaio dello spettacolo, ugualmente legato ad una macchina, per l’esecuzione della folle melodia.
Lo spettacolo è una miscela di emozioni, sentimento, nostalgia e risata. Fa ridere in maniera sincera e al contempo malinconica. Lascia nello spettatore una strana sensazione di voler uscire dal teatro e andarle a sfondare quelle famose porte del Paradiso, assieme a Lulù Massa, al Militina e a tutti gli altri. “Io c’ero?” chiedono gli operai a Lulù che racconta il suo sogno di conquista del Paradiso, nascosto dietro ad un muro e ad una coltre di nebbia.
C’eravamo tutti.

Il mondo sociale ci sembra allora naturale come la natura, esso che si regge solo sulla magia. Non è forse veramente un edificio di incantesimi, questo sistema che poggia su scritture, promesse mantenute… tutte pure finzioni? – Paul Valery


liberamente tratto dal film di
Elio Petri
sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro
di Paolo Di Paolo
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini

Ada Turco

L’Elisir d’amore tra tradizione e musical

Un elisir di spirito è quello offerto dal secondo appuntamento della stagione lirica al Teatro Regio di Torino. L’Elisir d’amore risale al 1832, anno in cui il genio donizettiano incontra la penna del librettista Felice Romani. Secondo la leggenda, furono sufficienti sole due settimane per la realizzazione di quest’opera comica.  La vicenda è quella di Nemorino, ingenuo contadino che, innamorato della spietata fittaiuola Adina, si rivolge al sedicente dottor Dulcamara per acquistare un filtro d’amore.  Continua la lettura di L’Elisir d’amore tra tradizione e musical

VOGLIAMO TUTTO!

Il personale è politico”. E’ uno slogan usato dalle donne negli anni ’70 ad aprire lo spettacolo.
Le parole, lettera per lettera, vengono proiettate su un grande schermo come se fossero scritte con una bomboletta sul muro. Sin da subito un messaggio ci arriva forte e chiaro: quelle parole stanno a significare quanto cose personali come maternità, lavoro e famiglia dipendessero (e talvolta, dipendano tutt’ora) da decisioni politiche.
Agata Tomsic della compagnia “EROSANTEROS” si presenta a noi in maniera inusuale. Di spalle al pubblico, seduta su un piccolo sgabello, si rivolge ad un telefonino appoggiato su un cavalletto ed il suo volto viene proiettato sullo schermo. Un linguaggio espressivo che punta a stimolare l’immaginazione, l’arma migliore per trasformare il reale.

Scenografia assente ad eccezione di qualche oggetto e dello schermo, sul quale al volto dell’attrice si alternano immagini, video e scritte. Sono proprio le proiezioni ed il monologo della protagonista a costituire il filo conduttore dello spettacolo: le parole  scandite e taglienti, dal ritmo incalzante e le immagini che vengono incessantemente riprodotte ci trasportano all’interno del racconto in maniera quasi inevitabile. L’attrice è sola sul palco, recita in penombra. Non ci racconta una vera e propria storia, con una trama ed un finale: il suo è più un vortice di parole che tocca svariati argomenti: le lotte studentesche, gli scioperi operai, la condizione della donna. Il suo è un attacco diretto al pubblico, quasi un flusso di coscienza.

E’ il 1968: scongiurata l’ipotesi di una terza guerra mondiale, in quella che sembrerebbe un’apparente serenità, si sviluppa il germe della ribellione. La scintilla che accende la miccia proviene dagli universitari, che a Torino scocca con l’ondata di occupazioni delle facoltà a partire da Palazzo Campana. Ed è proprio sulle vicende accadute a Torino che si concentra la narrazione. La rappresentazione si apre con le testimonianze, pronunciate dall’attrice, dei protagonisti del ’68 e dei giovani attivi nel movimenti di oggi. La protagonista prosegue interpretando una giovane militante impegnata nelle proteste e nelle contestazioni del 1968: ci racconta dei duri interventi della polizia mirati alla soppressione delle manifestazioni, del fermento collettivo per una vita nuova.

Sullo schermo però, scorrono immagini attuali: i cortei contro la riforma Gelmini, i video dei manichini incendiati di Di Maio e Salvini, le proteste contro l’abolizione della legge 194.
Lo spettacolo scorre pertanto su due binari paralleli, che talvolta si incontrano mettendo in risalto analogie e discrepanze di due momenti storici differenti. ‘‘La lotta di classe, quando la fanno i signori, diventa signorile”, dice la Tomsic. Ci parla della Fiat e del sogno di migliaia di lavoratori partiti dal sud per costruirsi una vita migliore. Le sue parole ancora una volta calano taglienti come una ghigliottina: parla di “ lagherizzazione” e di riduzione degli operai ad automi, frantumando il sogno. E’ il momento degli scioperi degli operai per la riduzione dell’orario di lavoro e, successivamente, della nascita del femminismo. La donna non deve più essere arredo, “è molto più di una semplice legge sull’aborto”, afferma.

Riceviamo continui input e continue informazioni, apparentemente caotiche, che ci invitano a pensare che il fenomeno socioculturale del ’68 possa essere attuale, adesso come allora.

Un’ultima frase, con una struttura circolare, conclude lo spettacolo.
Forse, a voler contenere quel disordine di eventi che ancora oggi caratterizza la nostra vita: “Non è che l’inizio, la lotta continua”.

 

di Ilaria Stigliano

 

LA MALADIE DE LA MORT

                   

 

LA MALADIE DE LA MORT
Regia KATIE MITCHELL

In una stanza d’albergo, unica ambientazione dello spettacolo, assistiamo a un dramma amoroso, o meglio a un dramma erotico, perché di amoroso fra i due protagonisti non c’è nulla dall’inizio alla fine. Anzi, è l’impossibilità d’amare il motore centrale della storia, fra una donna (Laetitia Dosch) e un uomo (Nick Fletcher), una donna pagata per più notti con l’unico scopo di esaudire tutte le follie erotiche di un uomo che, come lui stesso dice durante lo spettacolo, non ha mai amato una donna, lasciando  presagire un suo lato omosessuale. La regista britannica Katie Mitchell, con l’aiuto di Alice Birch, ha deciso di raccontare una storia tratta dall’omonimo libro di Marguerite Duras. Una storia triste e malinconica con uno sfondo di speranza, una speranza di vita, che si evince da alcuni serrati dialoghi fra i due protagonisti, speranza che viene puntualmente stroncata dalle aggressive reazioni dell’uomo, dimostrando così di essere malato, di una malattia che verrà chiamata successivamente dalla donna “malattia della morte”. E’ l’incapacità d’amare che porta a non vivere e dunque a morire, la maladie de la mort. Morire pian piano dentro di sé, trovando come unica soluzione il voler togliere ad un altro la vita che tu non riesci a costruirti, ed i vani tentativi di uccidere la donna da parte dell’uomo ne sono la dimostrazione. All’instabile e imprevedibile rapporto fra i due si aggiunge un ricordo ancora acceso e vivo nella donna, che si ripete e torna in mente ogni qualvolta lei entra nella stanza d’albergo. La scena, che torna per tutta la durata dello spettacolo, solo alla fine si svela allo spettatore limpida e nitida in tutta la sua completezza: è un trauma che la donna, allora bambina, visse quando trovò il padre impiccato in casa. L’atmosfera triste e malinconica che è la conseguenza di una storia che non trova sbocchi di serenità, è rafforzata dall’effetto che la regista ha voluto infliggere sull’ambiente, estremamente provante e caratterizzato da una scelta di luci e musiche che sembrano andare in un’unica direzione, quasi a rafforzare il concetto, se ce ne fosse bisogno, gioco di ombre, ambientazioni prevalentemente oscure. Uno spettacolo stravolgente e coinvolgente che ti fa entrare quasi in scena. Quella stanza d’albergo sembrava allargarsi a tutto il teatro, come se ognuno di noi non avesse un seggiolino per guardare lo spettacolo ma una camera in quell’albergo e guardasse impotente quello che nella stanza affianco stava succedendo.

Lo spettacolo con il suo procedere lento e angosciante, ha la caratteristica di tenere lo spettatore con il fiato in sospeso fino alla fine, in una condizione quasi di apnea. La stessa condizione nella quale era, per precisa volontà della regista, Jasmine Trinca, racchiusa in una cabina con la sua inconfondibile voce allo scopo semplicemente di narrare, rimanendo distaccata dalla scena, dove non è mai entrata, mantenendo piuttosto il ruolo di collante fra la scena stessa e il pubblico.
La storia è un set a cielo aperto. Le scene sul palco sono seguite, per tutta la durata dello spettacolo, da tre macchine da presa che insieme allo schermo situato sopra gli attori rappresentano un esperimento, fra teatro e cinema. Due mondi, due modi di fare arte paralleli ma che finora si sono incontrati di rado.

Grazie all’intraprendente regista britannica, nonostante le difficoltà, dovute alla lingua e alla scelta di realizzare uno spettacolo fuori dagli schemi, questo progetto internazionale è un coraggioso esperimento e merita il suo successo.

da Marguerite Duras
adattamento Alice Birch
con Laetitia Dosch, Nick Fletcher
narratrice Jasmine Trinca
regia Katie Mitchell
regista associato Lily McLeish
regia video Grant Gee
scene e costumi Alex Eales
musiche Paul Clark
sound design Donato Wharton
video design Ingi Bek

 

AVEVO UN BEL PALLONE ROSSO

Gli attori ci aspettano posizionati in scena, guardandoci dritto negli occhi, aspettando di poter iniziare a raccontarci la loro storia.

In scena la ricostruzione di un ambiente casalingo semplice, una piccola cucina, al tavolo della quale sta seduta Margherita Cagol, e una scrivania da studio con accanto una poltrona, dove siede il padre della giovane. In un angolo un televisore d’epoca, che starà accesso per tutto lo spettacolo, trasmettendo immagini di cronaca dell’Italia tra gli anni ’60 e ’70.

Ci sentiamo in effetti catapultati proprio in quell’epoca, un po’ per i vestiti, un po’ per l’arredamento, ma soprattutto per le conversazioni che ascolteremo tra il padre e la giovane Margherita. Si respira un’aria di speranza rivoluzionaria, che lentamente, durante lo spettacolo, si appesantisce, quasi presagendo i duri Anni di Piombo.

Attraverso le lunghe chiacchierate tra padre e figlia vediamo rappresentato lo scontro di due generazioni, che bene si esplicherà durante la stagione di protesta politica e ideale che colorerà l’Italia (e non solo) dal ’68 in poi, ma assistiamo anche al cambiamento della donna: da brillante studentessa di Sociologia, che combatte ardita per far diventare il suo indirizzo di studi una facoltà autonoma all’Università di Trento, dove studia, a donna talmente inaridita dalle ingiustizie sociali da decidere di fondare, con il marito, le Brigate Rosse.

I quadretti di vita familiare si alternano alla lettura di veri articoli di cronaca politica del tempo: l’intimità delle discussioni e delle dimostrazioni d’affetto all’interno delle mura di casa sono affrontate in dialetto trentino, mentre il resto è scandito da un italiano chiaro e asciutto. Ma anche Margherita, durante la sua crescita, perderà l’uso del dialetto che tanto profuma di casa: da ingenua studentessa con alti ideali di cambiamento della società e di libertà, “Mara” (così sarà chiamata all’interno delle Brigare Rosse) inizia a considerare la violenza legittima di fronte alle ingiustizie che è costretta a vedere e vivere, tanto da essere poi costretta a diventare latitante. Contemporaneamente anche l’atteggiamento del padre nei suoi confronti cambia. Inizialmente è percepibile un profondo affetto, da parte di entrambi, anche nelle piccole discussioni che colorano le loro giornate. In fondo egli era il capofamiglia di una cattolica famiglia conservatrice, che non riusciva a capire l’esigenza di superamento di certe rigide gerarchie, anche se la figlia prova a fargli capire il punto di vista degli studenti, in quegli anni tanto agitati. Ma dopo che Margherita si sposa e si trasferisce a Milano, il padre inizia ad essere sempre più preoccupato per lo stile di vita della figlia, come se sapesse già l’esito tragico delle sue decisioni. Cerca di persuaderla a tornare a casa, a lasciare perdere le lotte, ma viene sempre respinto e così le loro conversazioni, inizialmente fresche e colorite, si tramutano in pesanti silenzi, carichi di un amore doloroso.

Margherita Cagol morirà durante uno scontro con i Carabinieri a soli trent’anni, convinta dei suoi ideali ormai esasperati dalla logica terrorista. Verrà ricordata infatti dai suoi compagni come una fiera combattente, ma l’epilogo della sua vita viene riassunto in una visione onirica del padre, che la rivede in casa, accanto a lui, a preparare un caffè, con i vestiti di quando ancora era una semplice studentessa. Questo ci permette così di considerare il personaggio di Margherita non più unicamente come una terrorista, violenta mandante di sequestri ancora vividi nelle pagine nere della nostra Storia, ma come una fanciulla con un padre talmente accecato dall’amore da non voler vedere fino in fondo quello che la figlia stesse diventando.

E il dolore di un padre che dovrà seppellire la figlia, consapevole di non aver mai condiviso le sue scelte di vita, lo proviamo un po’ anche noi, dal pubblico, vedendo lo sguardo profondo di Andrea Castelli.

Ottima anche l’interpretazione di Francesca Porrini, che bene riesce a personificare l’intricato carattere di una donna tanto forte e risoluta.

 

L’uso del dialetto trentino in molti momenti è stato però una limitazione sia per alcuni spettatori, che non capendolo non sono riusciti a comprendere fino in fondo la profondità di certe conversazioni, sia per gli attori, che in alcuni momenti, sebbene rari, si bloccavano brevemente.

 

di Alice Del Mutolo

 

DI ANGELA DEMATTÈ
TESTO VINCITORE DEL PREMIO RICCIONE 2009 E DEL PREMIO GOLDEN GRAAL 2010

REGIA: CARMELO RIFICI
CON ANDREA CASTELLI E FRANCESCA PORRINI
SCENE E COSTUMI: PAOLO DI BENEDETTO
MUSICHE: ZENO GABAGLIO
LUCI: PAMELA CANTATORE
VIDEO: ROBERTO MUCCHIUT
ASSISTENTE SCENOGRAFO: ANDREA COLOMBO
REGISTA ASSISTENTE: ALAN ALPENFELT
PRODUZIONE: LUGANOINSCENA, TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA, CTB – CENTRO TEATRALE BRESCIANO
IN COPRODUZIONE CON LAC – LUGANO ARTE E CULTURA

 

 

Arlecchino servitore di due padroni – Valerio Binasco

Fazz umilissima reverenza a tutti lor siori.

Come Arlecchino fa il suo ingresso in scena in casa di Pantalone, così Valerio Binasco, Direttore artistico del Teatro Stabile di Torino,  con il suo  spettacolo Arlecchino Servitore di due padroni, si fa spazio con umilissima reverenza nel salotto dei registi che hanno portato in scena uno dei testi goldoniani più famosi.  Arlecchino è un servo che entra in una casa in cui si sta consumando una festa di matrimonio. Con umiltà si presenta , ma allo stesso tempo ha quell’aria spavalda, forse ironica di chi sa già che quella sua interruzione avrà delle conseguenze interessanti. Binasco dopo l’inchino ad un maestro come Strehler, lo saluta con un sorriso impetuoso sapendo di fare altra cosa.

foto di Bepi Caroli

Lo spettatore è disorientato, le sue certezze si dissolvono, affondato nella  danza macabra in cui i due sposi e gli altri personaggi presenti al matrimonio si esibiscono per festeggiare. Marionette, corpi quasi paralizzati a cui è permesso solo un movimento a scatti, lento. Una festa mortuaria, o meglio che nasce da una morte, quella di Federico Rasponi. La sua morte ha permesso il matrimonio tra Silvio e Clarice, ma ben presto questo matrimonio sarà paralizzato, bloccato dalla comparsa di un servo che vuole annunciare il suo padrone: Federico Rasponi. Non troviamo nello spettacolo la comicità, il gioco fisico, il lazzo di Strehler oppure il lavoro di destrutturazione della tradizione, spogliata dagli orpelli e attualizzata, di Antonio Latella. Binasco si allontana da tutto questo. Pur rispettando il testo goldoniano con poche aggiunte personali, rende Il servitore di due padroni, molto cupo, con una comicità velata di tragico. I lazzi distraggono dalla storia che sta avvenendo, allontanando lo spettatore. Quei pochi che mantiene non si prendono la scena, ottengono sì la risata, ma non sono mai fini a se stessi. Arlecchino non è la maschera su cui ruotano gli altri personaggi, ma un personaggio come gli altri. Una volta spostata l’attenzione sulla storia si può capire come questa sia una storia tragica. Binasco, come ha detto all’incontro di Retroscena dedicato allo spettacolo,  ha voluto come cuore narrativo l’incontro tra i due amanti. Una scena di grande potenza liberatoria, in cui i due amanti che pensavano che il rispettivo partner fosse morto, si incontrano e piangono dalla gioia. Già nello spettacolo La Tempesta il motore della storia erano due persone divise, che poi si incontreranno. Momento spesso relegato in secondo piano. Nell’Arlecchino, sono due le coppie che vengono separate dai genitori. Arlecchino si pone come elemento di disturbo, un personaggio molto tetro che fa disperare due persone, Beatrice e Florindo. Binasco parte dalla domanda “se questa storia fosse vera?”, per creare il suo spettacolo. Spettacolo che vuole mostrare la verità della drammaturgia goldoniana, perché tutto quello che accade è in quel testo e  non inventato dal regista.

Chi può essere Arlecchino in una storia vera, nella società contemporanea?  L’Arlecchino di Natalino Balasso è il vero Arlecchino e l’attore ci fa capire come questa figura non rappresenti solo un marito divorziato che ha bisogno di lavori, ma può anche essere una ragazza che ha un figlio e deve poter vivere. In questo sta tutta la tragicità, sempre attuale di Arlecchino. Natalino Balasso è stato scelto da Binasco perché, a suo parere, l’attore mostrava un’aria impaurita e tenera allo stesso tempo, con la capacità di essere comico suo malgrado.

foto di Bepi Caroli

Il teatro di Binasco è un teatro d’attore, un teatro che vive e si modifica in continuazione. La sua regia è molto influenzata dalla sua interiorità attoriale. Gli attori di questo spettacolo sono consapevoli che il loro lavoro sul personaggio non viene fissato e replicato sempre uguale, ma è in continua evoluzione, per arrivare a capire ogni sfaccettatura del personaggio che interpretano. Un ulteriore lavoro è condotto dal regista per dare tridimensionalità e non nascondere personaggi che ad una visione addormentata possono risultare secondari. Un esempio può essere Florindo, spesso relegato a semplice amante di Beatrice: Florindo è un assassino che uccide Federico Rasponi per poter amare Beatrice, e questo suo lato tragico viene spesso sottolineato, un personaggio doppio, il tragico che si fonde nel buffo, come si può dire di tutto lo spettacolo.

È molto presente anche il tema della sopraffazione: padre-figlia, famiglia-coppia di amanti, padrone-servo. Siamo in un mondo in cui la donna ha bisogno di libertà, e questo risalta molto nello spettacolo. Qui le donne non hanno diritto di scelta e per ottenere quello che gli spetta devono camuffarsi da uomini, o chiedere al padrone il permesso. Binasco va in questa direzione fino a dove Goldoni lo permette, senza cadere in un dramma familiare. Lascia alla serva di Pantalone, Smeraldina, l’invettiva su la necessità di libertà da parte della donna e cerca di scuotere Clarice, proibendogli di continuare a far teatro per imporre i propri voleri e le scelte.

foto di Bepi Caroli

Uno spettacolo davvero riuscito. Non è mai facile riproporre un testo già affrontato ripetute volte in precedenza con intenti diversi anche secondo l’occorrenza dei momenti storici in cui veniva portato in scena, soprattutto se il confronto e l’immaginario collettivo porta subito a Strehler. Binasco non cade nella trappola didascalica o di omaggio al grande regista del passato, ma trova la sua strada. Una strada nuova, per ricercare la verità; la trova e ci mostra una storia cupa, tragi-comica di persone che in fondo cercano solo di amarsi o sopravvivere, ma che per farlo in una società in cui conta la pecunia o l’interesse privato, si uccide, si vende, o si mangia. Come all’inizio Arlecchino/ Balasso fa la sua comparsa in scena in punta di piedi, quasi non vorrebbe essere lì, vergognandosi, così alla fine sempre in punta di piedi chiede la mano di Smeraldina, senza esagerare sapendo che lui è un servo e sta chiedendo troppo. Lo spettacolo non ci dà risposte certe, non sappiamo se accettano la loro unione, forse possiamo immaginare che andrà così, ma non ci è dato saperlo. L’atmosfera cupa, accentuata dalla musica, è sempre in agguato anche in una delle scene più riuscite, quella in cui Arlecchino dichiara a Smeraldina il suo amore, con tutta la sua goffaggine buffa, una semplicità commovente. Ci sentiamo un po’ tutti Arlecchino e Smeraldina.  Già ci pregustiamo un finale romantico, dove alle due coppie si accosta un’altra, più semplice la loro, ma non sarà così. La festa c’è ma ci fa tornare in mente la danza macabra della festa iniziale.

Si ride notevolmente, ci si commuove, ma siamo subito portati con i piedi per terra perché intuiamo che c’è qualcosa che non va. Non ci resta che fare un umilissima reverenza a Valerio Binasco.

Emanuele Biganzoli

 

di Carlo Goldoni
con (in ordine alfabetico) Natalino Balasso (Arlecchino), Fabrizio Contri (il Dottore), Marta Cortellazzo Wiel (Smeraldina), Michele Di Mauro (Pantalone), Lucio De Francesco (servitore), Denis Fasolo (Silvio), Elena Gigliotti (Clarice), Gianmaria Martini (Florindo), Elisabetta Mazzullo (Beatrice), Ivan Zerbinati (Brighella)
regia Valerio Binasco
scene Guido Fiorato
costumi Sandra Cardini
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino
regista assistente Simone Luglio
assistente scene Anna Varaldo
assistente costumi Chiara Lanzillotta
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
con il sostegno di Fondazione CRT

“CHARLIE SONATA” di Douglas Maxwell

Con il festival di nuova drammaturgia IL MONDO E’ BEN FATTO, dal 17 al 21 ottobre, un progetto di Fertili Terreni (Tedacà, il Mulino di Amleto, Acti-Teatri Indipendenti e Cubo Teatro), abbiamo avuto per la prima volta in Italia la lettura scenica di Charlie Sonata di Douglas Maxwell, giovedì 18 ottobre e domenica 21 ottobre, da parte dalla compagnia dei Demoni. La Compagnia nasce nel 2006 dall’unione di attori diplomati alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova. Dalla sua fondazione, in dieci anni la compagnia ha prodotto 11 spettacoli e toccato più di 60 città. La compagnia ha sede a Genova, dove è nata ma ha iniziato una stretta collaborazione con Tedacà di Torino.

Domenica c’era Douglas Maxwell stesso a presentare il suo scritto, una presenza preziosa che ha permesso di vedere l’intreccio tra la vita dell’autore e la sua creazione. “Bere vino e scrivere è ciò che mi rende umano” dice il drammaturgo scozzese, raccontando quanto abbia fatto fatica ad emergere e come abbia dovuto fare tanti lavori diversi per sopravvivere non riuscendo mai a smettere di scrivere. Scrivere definisce ciò che l’autore stesso è e, trasformare le persone in eroi è ciò che lui sa fare.

Charlie Sonata, andato in scena per la prima volta dal 29 aprile al 13 maggio al Royal Lyceum di Edimburgo, è dedicato dallo scrittore al suo amico Bob, alcolista e drogato, con l’intento di fare di lui l’eroe del suo testo, di dare a Bob la rivalsa che in vita non è riuscito ad avere. Chip o Charlie Sonata incarna Bob, una persona di straordinaria bellezza interiore, forse troppo sensibile per un mondo spietato che spinge a muoversi eccessivamente in fretta, senza lasciare il tempo di trovare il proprio ritmo; Chip il suo ritmo non lo ha trovato ed è rimasto intrappolato nel passato rifugiandosi nell’alcol. ”Il viaggio nel tempo non accetta compromessi” questa frase ricorrente nel testo mette bene in luce il tema della difficoltà ad adattarsi. Il tempo è come un mazzo di carte con più regine di cuori in cui la stessa epoca si ripropone più e più volte e così gli eventi più bizzarri della vita continuano a ritornare con impercettibili variazioni. Il passato ti segna e sembra non esserci possibilità di riscatto: Chip è perseguitato da un passato ce ha il volto di un padre che lo ha sempre rifiutato, della donna amata che lo ha derubato e ferito, dell’amico Greg che non lo ha invitato al suo matrimonio. L’alcol è l’unico rimedio a questa sofferenza, un veleno che brucia, fa male ma anestetizza.

Chip diventa eroe nella misura in cui vuole salvare Drew, la figlia di Greg e Kate, in coma per un incidente; è disposto a fare qualunque cosa per salvare la sua vita. Lui non ha paura di morire, non ha niente da perdere. Chip in ospedale è avvicinato da Meredith, sorella del medico che oscilla tra maniacalità e depressione, una donna sulla cinquantina con il trucco sbavato sugli occhi e un tutù da ballerina rosa, due ali nere, elementi che la rendono quasi surreale, un che di fantastico e grottesco allo stesso tempo. Drew è la bella addormentata che va risvegliata, vanno eliminati i rovi: questa è la missione che renderà eroe lui e farà raggiungere “l’apoteosi dai rottami” a lei.

La vicenda si svolge a Glasgow ma l’ambientazione vera è la testa di Chip, in cui presente e passato si mischiano; l’abilità della drammaturgia di D. Maxwell è proprio quello di coinvolgere lo spettatore a fondo nella testa del protagonista facendo vedere allo spettatore quello che Chip vede e vivere la sua stessa confusione. Tutti i personaggi sono incredibilmente umani seppure nello scenario di una fiaba. Realtà e fantasia si mischiano in un testo brillante che fa ridere e piangere, sognare e riflettere. La compagnia dei Demoni è riuscita a rendere autenticamente questo effetto con una lettura scenica molto ben fatta che passa con il giusto coinvolgimento emotivo il messaggio dell’autore.

“IL RE ANARCHICO E I FUORILEGGE DI VERSAILLES” PAOLO ROSSI

Il comico e cantautore Paolo Rossi nel Re anarchico e i fuori legge di Versailles indossa i panni di un Molière capocomico alla guida della sua compagnia in viaggio su una carovana diretta a Versailles: il presente viaggia verso il passato attualizzandolo.

L’attore prende spesso di mira “i potenti” d’oggi così come astutamente fece Molière nelle sue commedie. Paolo Rossi ironizza sul nostro presente alludendo ripetutamente ad alcuni i vizi sociali (la virale fruizione passiva di Netflix), così come Molière tentò di rappresentare criticamente numerosi “tipi sociali” (l’avaro, il misantropo, il Don Giovanni donnaiolo) sulla scena.
Inoltre il comico mantiene la caratterizzazione psicologica dei personaggi tipica in Molière: ciascun attore sul palco è guidato nelle azioni fisiche e nell’espressione verbale da una definita interiorità propria del ruolo ricoperto, processo analogo a ciò che avviene nella vita.

Paolo Rossi definisce il suo teatro “teatro all’improvviso”: recitare seguendo un canovaccio guida esercitandosi, in una situazione protetta, alla recita quotidiana.
Il convoglio racchiuso nel teatro rivela perciò il suo essere teatrale e, nell’esserlo, essere quindi un laboratorio di vita.

Il viaggio verso Versailles è inserito in una dimensione onirica sostenuta nella messa in scena da momenti musicali in cui lo spettatore è cullato dalle melodie e dai movimenti, a volte sinuosi a volte buffi, dei personaggi in scena.
Anche questa scelta riconferma la fedeltà di Rossi a Molière che spesso fu costretto a scrivere commedie-balletto per compiacere i gusti del re.

Inoltre il comico affida ad una delle sue attrici la maschera del dottore, in questa caso dottoressa, riprendendo la diffusa ossessione di Molière nei confronti della medicina e dei medici che hanno il solo scopo di “far fruttare la malattia con la frode, con l’inganno”.
Probabilmente la critica ai medici racchiude la visione pessimistica di Molierè verso la società composta d’esseri umani illusi, ad esempio, di potersi affidare ad un professionista in caso di malattia, interessato invece a guadagnare e non a guarirli.

Le affinità tra la modalità d’uso espressivo del teatro di Molière e quella di Paolo Rossi emergono gradualmente durante il viaggio della carovana.

La compagnia sospesa nel sogno di Paolo Rossi è lontana dalla realtà, i personaggi-attori sono impegnati nelle prove di vita guidati dal loro capo-comico che acutamente osserva il mondo e criticamente comunica le sue conclusioni.

REGIA PAOLO ROSSI
CON PAOLO ROSSI, MARCO RIPOLDI, RENATO AVALLONE, MARIANNA FOLLI, CHIARA TOMEI, FRANCESCA ASTREI, CATERINA GABANELLA
MUSICHE ESEGUITE DAL VIVO DA EMANUELE DELL’AQUILA E ALEX ORCIARI
LUCI JACOPO GUSSONI
FONICA CARLO FERRARA

Il trovatore al Teatro Regio di Torino

Che per il pubblico italiano il nome di Giuseppe Verdi sia immediatamente riconosciuto come parte di un patrimonio condiviso di hit-parade mai tramontate, come le canzoni di Mina o Domenico Modugno, è qualcosa di talmente assimilato che spesso finiamo per dimenticarcene. Eppure, quante volte abbiamo sorpreso qualcuno (o ci siamo sorpresi) a canticchiare «La donna è mobile» o a fischiettare «Libiamo ne’ lieti calici»? Per non parlare delle pubblicità e delle parodie. Il fatto è che, se è vero che l’umanità intera piange ed ama con la voce di Verdi (come scrisse Gabriele D’Annunzio), noi italiani Verdi ce lo abbiamo nel sangue, che ci piaccia o no. Continua la lettura di Il trovatore al Teatro Regio di Torino