Chiusura Festival “Differenti Sensazioni” XXX Edizione

L’11 novembre scorso si è concluso alle officine CAOS il festival “Differenti Sensazioni”, giunto alla sua 30esima edizione. Dedicato alle arti contemporanee dello spettacolo, quest’anno, come non mai, si è concentrato sul rapporto tra teatro e società, cercando di superare le barriere ideologiche e materiali che spaccano l’uomo e la sua identità, costringendolo a rifugiarsi in etichette e scatole di pregiudizi. Attraverso il rinnovo e la ricerca di nuove forme di espressione e comunicazione sul palco, il festival ha cercato di legare il pubblico proveniente da diversi ambienti, sensibilità e pensieri con un continuo scambio e dialogo con essi. Un dibattito muto fatto per l’appunto di sensazioni, di brividi sulla pelle, occhi attenti e scambi di energia. Diciotto spettacoli con lingue diverse, modalità di approccio variegate, ma tutti aperti a nuove forme di comunicazione e disponibili alla crescita. Importante l’apporto degli attori di “Stalker Teatro” presenti al festival con diversi spettacoli.
Nella serata conclusiva di questa variegata rassegna il pubblico ha intrattenuto due conversazioni totalmente agli antipodi potendo assistere a due spettacoli differenti.

Il primo, “Mad in Europe”, con unica protagonista Angela Demattè nei panni sia della narratrice che quelli di personaggio, comunicava un messaggio di disperazione e crisi di identità, insistendo sulla potenza della parola, la lingua. La sua storia, scritta e interpretata, narra della “Mad”, una donna sulla quarantina che lavora presso il Parlamento Europeo. Una donna indipendente, aperta di pensiero, femminista, la cittadina del mondo per eccellenza, conoscitrice di più lingue. Un giorno però impazzisce all’improvviso, si ritrova sola circondata da medici e sconosciuti che non la comprendono per via delle parole che sembra vomitare a casaccio. Parla un miscuglio di lingue differenti, mescolate a rantoli e mugugni. Il detonatore di questa trasformazione è lo scontro con le sue origini, la cultura del suo paese che riemerge attraverso il regalo di una madonnina della nonna. Un passato sepolto, imbarazzante per lei, simbolo del vecchio, del patriottismo chiuso nella sua sfera. Una vita in cui lei non si riconosce più, anzi, se ne vergogna ma che non riesce a sotterrare e inizia a scalfirla e graffiarla fino a distruggere la sua mente. Il buio del palco trafitto da luci asettiche, la lingua della Mad e la narrazione ironica della narratrice, a volte timorosa di poter dire cose “politicamente scorrette”, infastidisce e punzecchia lo spettatore
che rimane nudo davanti a quella semplice messa in scena: sei sedie, scheletri e simboli di un parlamento falso e corrotto, la bandiera europea, straccio e fantasma di un ideologia alta e dimenticata, e la madonnina, le origini e le tradizioni che ognuno di noi, in parte o totalmente cerca di dimenticare. E’ un urlo e uno schiaffo per risvegliarci da questa situazione di stallo, per farci accorgere delle bugie che televisione, giornali e noi stessi ci raccontiamo per sentirci parte di una struttura di carta. Angela Demattè riesce alla perfezione in questa sua impresa e attraverso le due figure che propone instaura subito il contatto necessario allo spettatore per sentirsi parte di quel ragionamento rilevatore.

Il secondo spettacolo, sempre immerso nel buio, nella messa in scena povera e dalle luci soffuse, decide invece di parlare attraverso i movimenti. La parola è quasi assente per l’intera vicenda, nei pochi momenti in cui compare si rifà a un libro, a qualcosa di già scritto e sentito. Le frasi della “Gerusalemme liberata” risuonano così nell’ambiente, come contorno, presenza sospesa in un contesto non suo. Gli attori della “Cie Twain” ci parlano attraverso i loro movimenti, il loro sudore, i loro corpi sotto sforzo e gli sguardi in continuo movimento delle spaccature moderne, dei conflitti sociali e interiori. Gli otto ragazzi diventano ognuno un Tancredi e una Clorinda al periodo delle crociate, ma anche studenti del ’68 con la rivoluzione negli occhi, oppure poliziotti disumanizzati pronti e reprimere, picchiare e schiacciare in nome di governi sordi. La capacità degli attori nelle coreografie e delle loro espressioni ti disarma, vorresti alzarti e proteggere il debole, insultare il repressore. Nonostante l’assenza della voce e quindi la difficolta di cogliere il significato dietro ad ogni gesto, nulla cade nel vuoto senza colpire, anche in minimo, chi guarda. Alla fine, quando ogni cosa sul palco si placa, cade nel sonno, si è stanchi come gli attori, si è abbattuti e carichi di speranza come le persone che si sono rievocate in quell’ora e mezza. Ci si sente rivoluzionari e vittime, repressori e repressi, i pensieri corrono e riecheggiano, cercando di riordinare tutti gli stimoli visivi ricevuti. L’unica cosa chiara risiede nel passato che la compagnia ha fatto riaffiorare senza mezze misure. Un passato di lotte, di ingiustizie, di grandi figure schiacciate dal dovere e gli
ideali, da voci fatte tacere con la violenza e da traguardi raggiunti col sudore di tante persone unite da un sogno. La domanda e la riflessione con cui si viene lasciati all’uscita dal teatro però è molto più pesante e gravosa, quella sul presente e sul ruolo che vogliamo avere in un periodo di crisi e ingiustizie.

Due spettacoli, due linguaggi, due storie ma entrambi con lo scopo di riscuotere lo spettatore, farlo riflettere sulla modernità, sulla realtà da cui ci allontanano la quotidianità e lavoro. Due spilli per far scoppiare la bolla di cecità che ci chiude gli occhi sui veri problemi del nostro secolo.

LE BARUFFE CHIOZZOTTE, UNA COMICA MALINCONIA CON INTERVISTA AD ANGELO TRONCA

Le Baruffe Chiozzotte, regia di Jurij Ferrini, è in scena al Teatro Gobetti di Torino dal 21 Novembre al 17 Dicembre 2017.

Il famoso testo di Carlo Goldoni, uno dei più divertenti scritti dall’autore, ritrae l’atmosfera della vita popolana del Veneto del ‘700: uomini un po’ rozzi, istintivi, bloccati nel rispetto dell’onore e delle tradizioni, prima fra tutte il matrimonio, che è il motore centrale che governa tutte le azioni dei personaggi. Ci sono cinque donne che cuciono merletti in attesa del ritorno degli uomini, in attesa di essere chieste in spose: due di loro sono già maritate e fanno quasi da madri alle altre tre ragazze che non vedono l’ora di andare in spose all’uomo che più le affascina. E da un piccolo corteggiamento mal riuscito scaturisce la grande baruffa che porterà tutti i personaggi di fronte alla legge: Isidoro, interpretato dal regista, è il cogitore veneziano che non solo riuscirà a portare la pace tra le due famiglie in litigio, ma combinerà anche i tre matrimoni.

La traduzione in italiano dell’opera, scritta in dialetto veneto,  restituisce alla perfezione il ritmo originario e rende comprensibile a tutti la storia. L’unico a parlare in dialetto (che in realtà si trasforma in una lingua inventata splendidamente comica e incredibilmente chiara a tutti) è il personaggio di Fortunato (Angelo Tronca). Tutti gli  attori hanno ottimi tempi comici e usano il corpo in  armonia con lo spazio. I personaggi sono dipinti con affetto, sono tutti simpatici e in fondo al loro cuore buoni, con valori puri nella loro semplicità; ognuno di loro è ben tratteggiato, e soprattutto i personaggi femminili hanno una personalità definita e forte. Infatti, sono  loro a causare e alimentare i litigi, mentre gli uomini sembrano quasi marionette mosse dalle  gelosie e dalle chiacchiere femminili.

Questa commedia però non è solamente risate e ironia, racchiude un nucleo problematico e malinconico, come rivela lo stesso regista. Parla, infatti, di uomini che stanno dieci mesi in mare, facendo una vita molto dura  e tenendo in pensiero i loro cari rimasti a casa. Le  fanciulle sono ossessionate dal matrimonio, visto più che come un momento gioioso, come un modo per andarsene di casa. Per sposarsi basta darsi la  mano, gesto che può diventare meccanico, come meccaniche e ripetitive appaiono le vite di questi giovani. Inoltre, mancano figure genitoriali di riferimento, sebbene siano poi gli uomini più maturi a cercare di far ragionare tutti e a voler riportare la serenità.

Interessante la scelta di Ferrini di trasporre la vicenda in un contesto meta teatrale: stiamo infatti assistendo a una prova aperta, non esiste la quarta parete né l’illusione del teatro, solo un abbozzo di  scenografia. I costumi sono normali abiti di tutti i giorni, anche se ogni attore ha uno stile che lo differenzia dall’altro e che richiama il carattere del proprio personaggio. A ricordare l’epoca storica di questa commedia stanno dei manichini sullo sfondo vestiti con abiti settecenteschi. Così il passato e il presente si fondono nelle Baruffe senza tempo.

di Carlo Goldoni
traduzione Natalino Balasso
con Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Christian Di Filippo, Sara Drago, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecc a Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca, Beatrice Vecchione
regia Jurij Ferrini
scene Carlo De Marino
costumi Alessio Rosati
luci Lamberto Pirrone
suono Gian Andrea Francescutti
regista assistente Marco Lorenzi
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

di Alice Del Mutolo

INTERVISTA AD ANGELO TRONCA

Oggi è qui con noi Angelo Tronca, un attore che ha collaborato con il teatro Stabile di Torino interpretando il personaggio di Fortunato nello spettacolo. Insieme a lui, cercheremo di capire meglio il suo ruolo, la sua formazione e le sue passioni.

L’arte del teatro rappresenta spesso una missione. Talvolta questa strada si intraprende per talento. A volte, invece, per gioco. Tu come mai hai deciso di intraprendere la carriera attoriale?
E’ una domanda a cui non so dare una risposta ben precisa. Sono stati un insieme di fattori a indirizzarmi su questa strada. Il primo fra tutti è stato frequentare un corso di teatro al liceo. Lì, ho incontrato anche delle compagne di scuola molto carine. Dopo poco tempo avevo iniziato a divertirmi, riuscivo ad esprimere quello che avevo dentro, provando, di conseguenza, nuove emozioni. Così, terminato il liceo, ho fatto il provino per entrare al teatro Stabile di Torino e mi hanno preso. 
 
Spesso la comprensione del proprio dono di attore passa attraverso la conoscenza di un ruolo, di un carattere, di un personaggio. Quale personaggio teatrale ti è piaciuto interpretare di più? Quale ti ha segnato?
 
In realtà sono due i personaggi che mi hanno colpito maggiormente. Il primo è Aspettando Godot sempre sotto la regia di Jurij Ferrini, in cui ho interpretato Pozzo: un soggetto fuori di testa, tratto dalla piéce di Samuel Beckett, in questo testo e attraverso questo ruolo, mi sono dovuto liberare di ogni tipo di freno. Il secondo invece è il personaggio di Don Sallustio portato recentemente con Marco Lorenzi tratto da Ruy Blas, un dramma di Victor Hugo. Questo testo ha un contenuto molto avvenente, strutturato su passioni sfrenate e su una scrittura ottocentesca. In questo caso, ho dovuto interpretare un uomo spietato ed estremamente malvagio. 
 
Le Baruffe Chiozzotte, testo seminale nella carriera drammaturgica di Goldoni, è scritto per essere recitato in dialetto. Come mai sei stato l’unico nelle Baruffe Chiozzotte a parlare nella lingua che dà il titolo al lavoro? 
 
Allora, Goldoni ha scritto questa piéce teatrale dove tutti i personaggi parlavano Chiozzotto, un particolare dialetto di Chioggia. Solo il personaggio di Isidoro parlava Veneziano mentre tutti gli altri “pescatori” comunicavano un dialetto più duro. Tra questi pescatori ce n’era uno che parlava in dialetto talmente stretto che lo capivano solo poche persone come ad esempio sua moglie e questo era un motore comico che utilizzò Goldoni. Oggi sarebbe stato difficile per il nostro pubblico riuscire a portare in scena queste differenze dialettali. Così Jurij Ferrini ha modificato il testo facendo parlare tutti in italiano tranne il mio personaggio, Fortunato, per lasciare quella chiave comica come nell’ epoca di Goldoni. –
 
Le particolarità dialettali presso rendono difficile la caratterizzazione di un personaggio, soprattutto se comico. E’ stato complicato interpretare il ruolo di Fortunato? 
 
Sì, perché lo scoglio linguistico era molto forte, quindi la prima necessità era rendere armonico e fluido l’eloquio. Il personaggio doveva, infatti, risultare naturale, senza forzature
 
Il lavoro di squadra, di gruppo e l’interazione con ogni genere di operatore del settore sono caratteristiche indispensabili per un buon attore. Che rapporto hai con la compagnia dello Stabile? 
 
Direi buono, nel senso che è il secondo teatro più importante d’Italia, mentre come teatro Nazionale è il primo. La compagnia è giovane e stimolante ed è sempre interessante lavorare in questo contesto. Purtroppo a causa dei tagli alla cultura, per questioni economiche, accorciano sempre di più i tempi di prova. Noi ci siamo trovati con sole tre settimane disponibili a ridosso del debutto. In questo modo sai già che non puoi metterti nella condizione di rischio, devi sapere già cosa devi fare. 
 
Il futuro dell’attore di teatro è spesso considerato incerto.Come ti vedi tra 10 anni? 
 
Mi vedo bene, forse migliore: sarò un uomo maturo di 43 anni. Spero di fare ancora teatro costruendo una realtà mia dove poter costruire e stabilizzare una mia poetica. Ho voglia di sperimentare un percorso autoriale. Infatti è il secondo anno che scrivo piece originali da dirigere e interpretare. Mi piace questa linea anche perché in Italia ci sono poche persone che intraprendono questa strada soprattutto scrivendo delle piece che coinvolgono altri attori. Il lavoro artistico è anche un impegno nei confronti dell’altro, del sistema e del mondo contemporaneo.

 

 

intervista a cura di Alessandra Nunziante

 

Amelia la strega che ammalia and friends

Eccoci qui, siamo davanti al teatro Marcidofilm incuriosite da quello che ci aspetta. Notiamo la porta semiaperta quasi come se ci stesse invitando ad entrare e così con decisione la varchiamo. Constatiamo subito la diversità tra il quartiere difficile e l’interno caldo e ospitale, essenziale ma con dei dettagli che rimandano ad un cabaret. Le pareti bianche creano contrasto con il pavimento e le sedie di un rosso cremisi. Il soffitto si adorna di un lampadario d’acciaio composto da una serie di lampadine che illuminano tutto il foyer. Ci sentiamo frastornate dal chiacchiericcio delle persone accanto a noi. Si percepisce il fermento e la curiosità di gustare il primo spettacolo della nuova stagione dei Marcido Marcidorjs. D’altronde questo piccolo spazio è stato inaugurato solamente il 23 novembre 2015 dopo una lunga attività teatrale di trent’anni lavorando in svariati palchi della città. Ecco, finalmente tutti hanno il biglietto in mano e insieme ci dirigiamo verso la grande tenda nera che separa il foyer dalla sala. Rimaniamo immediatamente colpite dallo spazio molto piccolo, dotato di una cinquantina di poltrone rosse. Il palco sembra assente ma troviamo un sipario che funge da schermo. Prendiamo posto.

Parte quasi subito un sobbalzo di voci e avvertiamo che lo spettacolo sta per iniziare. Con nostra sorpresa si alza il sipario rigido illuminato da disegni e finalmente ci accorgiamo della presenza del palco. Non ci sono scenografie elaborate attorno ad esso, vi troviamo solamente un uomo dialogare a voce alta appoggiato su una ruota rialzata in legno. Man mano che lo spettacolo va avanti sbucano da dietro la ruota altri otto personaggi, sembra quasi il richiamo di un gioco illusorio. L’oggetto viene capovolto e i nove attori si mettono in fila. Notiamo subito il loro abbigliamento spoglio ma contrastato da colori sgargianti quasi come se la compagnia volesse dare un effetto intimo tra spettatore e attore ma allo stesso tempo dire “noi siamo qui”. Incomincia un gioco di dialoghi e coro perfettamente preciso, quasi matematico. Le voci sono così sincronizzate da far sembrare che sul palco ci sia un solo attore. Man mano che lo spettacolo prosegue capiamo che non c’è solo un lavoro estremamente preciso sulle voci ma anche sulle luci, alternandosi anch’esse ad un ritmo ben definito. La ruota è il fulcro della scena: gli attori girano intorno ad essa, ci salgono sopra, ci giocano e si piegano a lei. L’esaltazione della voce a tratti stridente e delle loro movenze che si attorcigliano ad essa toglie l’attenzione allo spettatore sul testo e lo porta a concentrarsi maggiormente sul suono. Verso la fine dello spettacolo viene appesa sulla parete frontale un’installazione luminosa, la costellazione del carro maggiore che fa da sfondo all’interpretazione di un testo di Nietzsche.

 La rappresentazione si conclude con la canzone resa celebre da Sordi “Ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai” che coinvolge tutti gli attori. Questa rappresentazione, della durata di un ora e venti, appare forte per la sua imponenza sonora e piacevole per il suo modo disinvolto di affrontare una tecnicità matematica diversa da altri spettacoli.

(a cura di Alessandra Nunziante)

 

 

Il testo portato in scena dalla compagnia non è un semplice copione teatrale, ma il prodotto di un lungo lavoro di selezione di scritti poetici condotto dal regista Marco Isidori. Oggetto di questo studio sono le tre poetesse Amelia Rosselli, Sylvia Plath e Emily Dickison, affiancate da altri testi tra cui alcuni dello stesso Isidori, e da qui nasce il titolo Amelia, la strega che ammalia and friends.

La poesia diventa quindi materia prima dello spettacolo e lo spettacolo a sua volta si piega a favore di essa, disegnando nuove forme per potersi adattare a un linguaggio che non gli è estraneo ma neanche così vicino. Per questo i Marcido, noti al pubblico anche per spettacolari e imponenti apparati scenografici ideati da Daniela Dal Cin, rinunciano quasi del tutto alla scenografia e ai costumi e si concentrano sulla parola, sulla sua potenza e sulla sua deformazione. La recitazione è estremizzata, portata all’esasperazione, mentre il testo viene ridotto a suono e gesto. Gli attori alternano momenti solistici a momenti corali coreografati alla perfezione, il ritmo è sempre sostenuto e incalzante, i cambi di scena giocati su silenzi volutamente marcati. L’accurato lavoro di analisi linguistica conferisce allo spettacolo una cifra stilista sicuramente originale e ricercata. Per quanto questa impronta artistica sia riconoscibile e in qualche modo godibile anche per un pubblico totalmente ignaro, il testo arriva allo spettatore completamente destrutturato nel suo senso grammaticale. È molto difficile che chi avesse ingenuamente assistito a questo spettacolo senza essersi informato prima su ciò che sarebbe andato a vedere, possa aver capito qualcosa del testo. Non c’è nessun indizio che permetta di orientarsi all’interno dell’esibizione, si viene semplicemente travolti dall’energia prorompente degli attori in scena. Attori che sembrano sempre sul punto di “scoppiare”, schiacciati dal peso di uno sforzo fisico e interpretativo esagerato.

Una recitazione che destruttura e scompone così violentemente le parole per esaltarne la sonorità, determina sicuramente un lavoro molto sofisticato e poetico, ma interpretando in questo modo il senso letterale delle poesie stesse viene quasi completamente perso. Pochi, per non dire praticamente assenti, sono i cambi di ritmo e di intenzione: una volta ingranata la marcia (non la quinta, ma la sesta) si procederà così per tutto lo spettacolo. Per questo motivo la performance, pur essendo indubbiamente carica di un’espressività travolgente, risulta poco dinamica. I meravigliosi cori e le coreografie degli attori danno un ritmo incalzante che tuttavia rimane sempre uguale, e questo porta inevitabilmente a una perdita di attenzione da parte di chi guarda.

Se l’obiettivo che si voleva raggiungere era quello di lasciare il pubblico incantato dall’esaltazione del gesto e del suono, ma confuso e frastornato da un senso logico-narrativo che manca, allora si è raggiunto pienamente. Dopo un po’ si smette di ascoltare con l’intelletto e ci si abbandona all’orecchio. Quello che rimane impresso è un lavoro fatto di sonorità e fisicità sorprendenti per la loro forza e la loro composizione, ma prive di un contenuto che vada oltre l’apparenza estetica. O per meglio dire, il contenuto c’è ed è considerevole, ma la trasfigurazione estrema delle parole non ci permette di coglierlo quanto avremmo voluto.

(a cura di Eleonora Monticone)

Intervista con l’attrice Beatrice Vecchione :” Il rapporto col corpo nasce dal rapporto con la lingua”

È Spontanea e dolcissima, l’abbiamo incontrata al teatro Gobetti dopo aver finito lo spettacolo Arialda di cui è stata protagonista.

È Beatrice Vecchione, nata il 26 marzo del 1993 in una clinica con vista sul mare a Napoli. Ultima di sette figli è cresciuta in un paesino di tremila abitanti in provincia di Avellino. Diplomata alla scuola del Teatro stabile di Torino diretta da Valter Malosti.

Dopo il diploma ha preso parte a molte produzioni dello Stabile stesso  tra cui La morte di Danton con la regia di Martone e Come vi piace con la regia di Leo Muscato. Nell’estate del 2017 viene selezionata dal Centro teatrale di S. Cristina Fondato da Luca Ronconi e Roberta Carlotto. Attualmente è impegnata con Le baruffe chiozzotte con la regia di Jurij Ferrini.

L’intervista di Abdelmjid El Farji (MAGID)

Lei è una ex allieva di Valter Malosti, direttore della scuola per attori del Teatro Stabile e regista di Arialda, di cui è stata protagonista. Risulta difficile oppure facile lavorare con il proprio maestro? 

È bello perché Valter mi ha visto crescere nei tre anni di scuola. E in questo tempo ho avuto modo di conoscere bene il suo linguaggio e questo è solo un vantaggio per lavorare bene insieme.

La presenza del corpo molto forte nel testo L’Arialda: secondo lei, la sua bellezza l’ha aiutata?

Il rapporto col corpo nasce dal rapporto con la lingua, in questo caso con la lingua di Testori che è pulsante, materica, violenta, popolare e lirica e visionaria al contempo.

Ti ringrazio del complimento, comunque non credo che Valter abbia scelto me per l’aspetto fisico, comunque dovresti chiederlo a lui (Ridendo)

E come ha sviluppato  il suo rapporto con il corpo dell’Arialda, che, come abbiamo visto da spettatori, era fortemente presente (sensuale, maturo)  sul palcoscenico? 

Comunque più concretamente ho cercato di lavorare, aiutata anche da Alessio Maria Romano, in una direzione più controllata mentendo quindi  una certa tensione nella verticalità, nella prima parte dello spettacolo e man mano che l’Arialda sprofondava nel suo delirio ossessivo, ho cercato di rompere il respiro e quindi il corpo… di andare verso una volgarità, uno stato più bestiale che liberasse gli istinti, le parole, le ragioni, i dolori repressi.

Lei rappresenta un personaggio che vive negli anni ’60 con la sua dimensione sociale e psicologica diversa dai personaggi della società attuale.  Qual è  stata la sua modalità di  indagine e ricerca del personaggio di Arialda?

Ho cercato di conoscere Testori prima di tutto, di entrare nel suo immaginario nel suo modo di vedere la vita, di leggere la realtà che viveva.

Era un uomo che si interrogava profondamente  sul mistero della  vita e quindi della morte

Nell’Arialda, che Testori scrive anni prima della  sua conversione, si sente forte la domanda sul perché dell’esistere soprattutto di fronte alla  sofferenza. Eros dopo la morte del Lino, l’unica persona che ama veramente, dice guardando il cielo :” ma se il Padreterno fa così cosa può pretendere che facciamo noi?”

Il rapporto tra alcuni personaggi  si mescola tra il senso della  morte e della vita, come ha affrontato questa complessità ?

L’Arialda stessa non comprende (d’altronde non si può!) e quindi non accetta  la morte tanto che è perseguitata dai fantasmi e dunque non dice il suo sì alla vita, morendo lei stessa ogni giorno  nel passato.

Ma in lei vive comunque, anche se non riesce a vederlo, un gran desiderio d’amore e quindi di salvezza, di riscatto dalla miseria materiale ed esistenziale in cui lei e tutti gli altri personaggi vivono.

Dice infatti alla Gaetana “lei un uomo l’ha pure avuto, uno con cui parlare uno da chi farsi abbracciare, uno con cui fare quelle tre o quattro scemate che mettono a posto tutto”.

L’impossibilità di realizzare tale desiderio e quindi di vivere pienamente la propria condizione umana, la spingerà ad un delirio di distruzione.

Avete lavorato in un spazio quasi vuoto, tranne una tavola e due porte mobili, e si vede un  lavoro figurativo nel Suo personaggio legato a un “Teatro Povero”: quanto è stato utile per lei  il metodo Grotowski in questo?

Non ho usato una tecnica particolare, mi sono lasciata guidare da Malosti ed ho cercato di aderire quanto più potevo a ciò che dicevo.

L’astrazione della regia ha dato al testo uno respiro più ampio mettendo in risalto la sua natura tragica, ed ha anche permesso a gran parte di noi attori, anagraficamente distanti rispetto al età dei personaggi, di risultare comunque credibili. E non ho avuto Grotowski come riferimento.

Eros e Danza- Elisa Vaccarino

Permettetemi di iniziare da un luogo comune: le certezze nella vita sono poche. Tra queste, soprattutto se ci si occupa di danza, c’è Elisa Guzzo Vaccarino, che lunedì scorso, 27 novembre, ha presentato il suo nuovo libro Eros e Danza, in dialogo con il Professor Alessandro Pontremoli, docente di storia della danza presso il DAMS di Torino. Elisa Vaccarino è giornalista, storica della danza, icona della critica e può vantare uno straordinario repertorio di studi e pubblicazioni fondamentali per la danza contemporanea. Continua la lettura di Eros e Danza- Elisa Vaccarino

Annamaria Ajmone – La costruzione spaziale come paradigma della condizione abitativa

Danzatrice dalla tecnica impeccabile, Annamaria Ajmone risponde a quella moda tutta contemporanea di una danza tanto precisa da esaurirsi in un’estetica del gesto iper-accurata e meravigliosamente plastica. Autrice emergente nel recente panorama coreografico, formatasi alla Paolo Grassi, è stata poi supportata da numerosi contesti progettuali (da Cango a Mosaico Danza), entrando di recente nella compagnia CAB 008, la cui direzione artistica è curata, fra gli altri, da Cristina Rizzo. Nel 2015 ha vinto il premio Danza&Danza come migliore “interprete emergente-contemporaneo”. Sarebbe però riduttivo parlare della Ajmone solo come di un’autrice in linea con la moda e semplicemente brava a rappresentarla. Quello che in questa sede si vuole sottolineare è ciò che, ai consueti linguaggi contemporanei, la coreografa ha aggiunto all’interno dei suoi lavori creati appositamente per gli spazi non teatrali. Quelle che l’autrice ha anche definito Pratiche di Abitazione Temporanea e che ha recentemente raccolto e raccontato in un libricino stampato in proprio, intitolato Arcipelago. Questi pezzi, numerosi e variegati, sono infatti accomunati da un’attenzione minuziosa, riservata allo spazio circostante, il quale, unito alla preparazione atletica di Annamaria, dà vita ad una qualità coreografica unica nel suo genere. Ad un togliere drammaturgico, insomma, corrisponde una poetica del movimento assai più elaborata ed in grado, da sola, di giustificare un’intera linea autoriale. Linea in cui la coreografia diviene scrittura dello spazio, ancora prima che scrittura della danza nello spazio. Una categoria, questa della danza come architettura, che se si conferma una tendenza già consolidata in molta estetica contemporanea (sienismi a parte), con la Ajmone acquista una rilevanza esclusiva in virtù della tonalità motoria che il caratteristico virtuosismo proprio dell’interprete le conferisce. Un corpo particolare si plasma attraverso una moda consolidata e, allo stesso tempo, una moda particolare si inscrive su di un corpo consolidato (che qui vale per preparato).

A questa serie di abitazioni temporanee appartiene Trigger, un breve solo scritto da Annamaria e da lei interpretato, nel quale l’azione si svolge in un piccolo rettangolo (e fuori di esso) appositamente tracciato per terra, in qualsiasi luogo la performance si svolga, che gli spettatori stessi andranno a ridisegnare sedendosi sui quattro lati. Lo abbiamo visto due volte, per meglio comprenderne variazioni e similitudini: la prima in uno spazio più contestualmente “teatrale”, il foyer della Lavanderia a Vapore (all’interno del Festival Interplay), la seconda, un anno dopo, in un luogo più elegante e più architettonicamente importante, il Palazzo de Grazia di Gorizia (nel contesto della NID Platform).

Foto di Andrea Macchia

La creazione sonora di Simone Bertuzzi, aka Palm Wine, che percorre interamente i venti minuti dello spettacolo, è tratta dal suo Mixtape Hypnomaghia e divide acusticamente e drammaturgicamente in due momenti l’azione. Nel primo, la danzatrice carica fisicamente un “grilletto” (la cui forma inglese, trigger, dà il titolo all’opera) con i movimenti ripetuti e spasmodici di un braccio che culminano più volte nel rilascio di una scarica tensionale che porta il corpo a riconfigurarsi più o meno aleatoriamente all’interno dello spazio. Nel secondo la danzatrice “vaga”, fuoriuscendo dal tracciato rettangolare, avvicinandosi (a volte quasi toccandolo) al suo pubblico, allontanandosene, sfidandolo, giocando con esso, ma sempre rimanendo dentro una percezione dello spazio accuratissima. Pur nella dicotomia di questi due momenti, di un giorno e di una notte, di un lato A e un lato B del mixtape, la performance è attraversata dalla stessa sottostante intenzione dell’interprete/autrice. È l’architettura, organica e inorganica, ad essere indagata, con una qualità interrogativa che mano a mano si rivelerà abitativa, nella misura in cui la danzatrice pare cercare riparo in un luogo che non ancora le appartiene.

Ecco che la Ajmone, con il suo personalissimo modo di interpretare quella che abbiamo definito una “danza dell’architettura”, si fa mediatrice coreutica della contemporanea attitudine umana ad abitare. La sua danza testimonia così di una disarmante dispersione abitativa che l’individuo è solito vivere, solitario, fuggiasco o viaggiatore. È l’episteme del moderno globetrotter trasposta in estetica coreografica, del quale mantiene le medesime difficoltà a dimorare, lo stesso sforzo incoffessabile a rendere domestico il luogo in cui si trova. Privo di un sentimento di riparo, il difetto abitativo diviene drammaticamente incomunicabile poiché non più percepito come difetto. Così Annamaria “trotta”, in conclusione allo spettacolo, al di fuori dello spazio scenico consueto, ben cosciente del vantaggio rappresentato da una tale vicinanza agli spettatori: la sua danza spesso si manifesta in minime variazioni muscolari, estetiche microscopiche che osservate da vicino rendono al meglio la loro studiata intenzione. Ecco che quell’incrollabile tecnica alla base di ogni suo gesto, in questo senso, si rivela la dimora vera e propria della danzatrice, il suo più autentico riparo. Allo stesso tempo il rischio della minima distanza col pubblico corrisponde ad una maggiore vulnerabilità, ancora simile a quella sociale di chi non dimora, costretto all’esodo forzato o alla fuga sottoforma di viaggio avventuroso. I sempre nuovi sguardi che sul suo corpo si poseranno, raramente le concederanno il lusso di nascondersi, come ogni attore saprebbe fare su di un grande palcoscenico o come chiunque normalmente fa trovandosi al riparo fra le mura di casa propria.

Annamaria disegna su pareti diverse le coordinate di un nuovo rapporto di fiducia tra spettatore e danzatore, dove i corpi sono reciprocamente coinvolti e mossi ad una coralità nella quale la danzatrice è corifera e non coreografa. Gli spettatori seduti intorno a lei sono, insieme, il limite del movimento ed il motivo della danza che indaga “termicamente” (usando un aggettivo della stessa danzatrice) lo spazio fisico ridotto ed accuratamente costellato di altri ingombranti corpi umani. Se nel lavoro della Ajmone, dunque, la danza può ancora dirsi sensuale, lo fa in un’etica della comunione, cioè come volontà di aggregazione e non di seduzione. Una sensualità, la sua, che con spiazzante sincerità ricerca l’ambiente domestico e non la relazione predatoria, sospinta a tale ricerca dall’assenza epistemologica di una dimora. Ma non è la rappresentazione di questa stessa ricerca già tragedia, al di là di ogni sensuale? La tragedia di tutte quelle isole che, nel tentativo di farsi arcipelago (e anche riuscendovi, talvolta) sono tuttavia costrette a rimanere isole.

Foto di Ela Bialkowska

Foto di copertina di Akiko Miyake

Tobia Rossetti

 

 

 

 

Filumena Marturano al Carignano di Torino

Si sono da poco concluse le repliche di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, andato in scena dal 31 ottobre al 12 novembre al teatro Carignano di Torino per la stagione del Teatro Stabile.
Regista Liliana Cavani che, per la prima volta, si cimenta nel teatro di prosa scegliendo di rappresentare uno dei testi più significativi del nostro Novecento.
La Cavani decide di restare aderente al testo, evitando voli di fantasia che sarebbero risultati poco coerenti con l’ idea di Eduardo.
Nei panni della protagonista, ad incarnare perfettamente , con i suoi capelli scuri e le forme generose, la figura della donna partenopea, troviamo Mariangela D’Abbraccio.
Alternando scatti d’ ira degni di Santippe (apprezzata la sonora sberla ai danni di Diana – Ylenia Oliviero, amante di Don Domenico) ad emozioni strappalacrime,come quelle che inevitabilmente colpiscono l’ animo dello spettatore che, coinvolto, ascolta il monologo della Madonna delle Rose, la D’Abbraccio ci restituisce, forse con un pizzico di drammaticità in più, l’immagine delle rappresentazioni passate, tanto fedele quanto lo sono le scelte registiche .
Al suo fianco, impegnato a ripercorrere le orme del maestro, Geppy Gleijeses che ricopre il ruolo di Don Domenico Soriano.
L’attore napoletano fa arrivare direttamente al pubblico un profilo ben delineato del personaggio, scivolando, ogni tanto, in contrappunti cabarettistici che la simpatia del dialetto e le battute ben congeniate rendono superflui.
Lanciandosi nel viale dei ricordi fatto di viaggi, amoretti e corse di cavalli, Don Domenico, dovendo fare i conti con il passare degli anni, affronta un percorso di maturazione che deve la sua genesi al meccanismo azione/reazione scatenato dal primo matrimonio con Donna Filumena, estortogli con l’ inganno.
I maggiori responsabili di questo cambiamento sono i tre figli di Filumena interpretati da Agostino Pannone, Gregorio De Paola e Adriano Falivene, ai quali Don Domenico, emozionandosi nel sentirsi chiamare papà, consegnerà le redini di quei cavalli che un tempo correvano per lui.
La D’Abbraccio e Gleijeses si spalleggiano bene, giocando a rubarsi la scena e sostenuti da due personaggi secondari ai quali il testo regala una comicità irresistibile, Rosina (Nunzia Schiano) e Alfredo ( Mimmo Mignemi), che si prestano bene a far comprendere al pubblico le incomunicabilità derivate dal contrasto tra i due protagonisti.
Compito gradito anche per le difficoltà generate dal dialetto napoletano in terra piemontese. E’ infatti consigliata una lettura peventiva del testo o una lunga vacanza a Napoli a tutti coloro che non hanno confidenza con il dialetto campano, onde evitare l’irritazione dei vicini di poltrona ponendo continuamente la domanda “che hanno detto?”.
Divergenze linguistiche a parte, il pubblico, soprattutto quello femminile composto sia da chi è madre sia da chi non lo è, reagisce bene alla commedia, identificandosi con facilità con la figura della donna che si sacrifica per un bene più grande: un lavoro, un uomo, una passione, così come per Filumena sono indifferenti i suoi figli, perchè ” i figl so figl e so tutt’egual”.

Emily Tartamelli

LET’S DO THE TIME WARP AGAIN: ROCKY HORROR SHOW

Nessun musical è stato probabilmente così amato, celebrato e venerato come il Rocky Horror Show fin dal suo debutto in teatro nel 1973: il testo e la colonna sonora innovativi infrangevano ogni tabù che la morale borghese degli anni ’70 imponeva. Scritto da Richard O’Brien, con delle chiare allusioni meta teatrali e cinematografiche, ha fin da subito stregato il suo giovane pubblico, che ha iniziato così a creare un vero e proprio culto attorno a questo spettacolo che presto avrebbe avuto anche una trasposizione cinematografica, il The Rocky Horror Picture Show. I personaggi bizzarri e la straordinaria capacità della storia di parlare del presente tramite comicità e musica coinvolgente, ha fin da subito reso lo spettacolo interattivo, rendendo il pubblico protagonista e scaturendo gag ogni sera differenti tra attori e spettatori.

Il 24 Ottobre 2017 ha debuttato al Teatro degli Arcimboldi di Milano la produzione BB Promotion Gmb del Rocky Horror Show, ma io ho personalmente avuto il piacere di vederlo durante la sua seconda tappa italiana, a Firenze, presso il Nelson Mandela Forum, ultima città che ha ospitato lo spettacolo dopo ben 200 repliche in tutta Europa. Una tournée innovativa prodotta da uno dei principali punti di riferimento del live – entertainment europeo che ha deciso, per ogni nazione, di far interpretare il personaggio del Narratore da un attore diverso, che accompagna il pubblico durante la visione dello spettacolo recitato in lingua originale. Per l’Italia la scelta è ricaduta su Claudio Bisio, che già durante gli anni dell’Accademia aveva lavorato allo spettacolo e fu tra i primi ad animare la proiezione della pellicola al Cinema Mexico di Milano, dove gli spettatori si presentavano mascherati come i personaggi e recitavano in coro le battute contemporaneamente agli attori nel film. Con la sua verve, Bisio è riuscito a coinvolgere ulteriormente il pubblico e si è inserito perfettamente all’interno del contesto dello spettacolo, ballando anche lui qualche passo del famoso Time Warp.

Durante una notte tempestosa ai due fidanzatini Brad Majors e Janet Weiss si buca una ruota della macchina, che avrebbe dovuto condurli in visita al loro professore dottor Evrett Scott. Cercando un telefono, si imbattono in un inquietante castello dove, a loro insaputa, si sta svolgendo l’annuale convegno dei Transylvani, extraterrestri provenienti dal pianeta Transexual. Verranno così anche loro coinvolti nella presentazione del padrone di casa del suo più grande esperimento: Frank’N’Further è uno scienziato che ha creato la vita, un uomo bellissimo di nome Rocky. Ma gli abitanti del castello sono personaggi eccentrici, creature singolari che faranno passare ai due giovani una notte difficile da dimenticare.

Inutile dire che la parte più bella dello spettacolo è stato vedere l’interazione tra il pubblico e gli attori: dialoghi inaspettati, battute anticipate, canzoni cantate e ballate in coro: ancora dopo più di 40 anni questo musical riesce ad unire generazioni in una frenesia di emozioni che si scatenano.

La messinscena, che si rifà tradizionalmente al fascino dei B-Movies, al burlesque e al Glam Rock, ha dato molto risalto agli attori, tutti molto  bravi e in grado di rendere giustizia agli interpreti del film che sono ormai degli “intoccabili” nelle menti dei più affezionati. La scenografia infatti non era esagerata, ma nella giusta misura eccentrica, e in grado di richiamare l’ambientazione dell’opera. In scena solo gli oggetti necessari allo svolgimento della storia e i colori principali erano dati dalle luci quasi psichedeliche e dal trucco degli attori. La band presente in scena ha dato un tocco in più, in quanto le voci e la musica si univano perfettamente e restituivano una melodia omogenea.

Anche volendo, credo che non sarei in grado di trovare delle pecche in questa recita, che è stata coinvolgente, unica, emozionante. La prova che ci sono testi che ancora riescono a parlare con un’attualità incredibile, che ogni volta sono in grado di stupire gli spettatori e che portano gli artisti a mettersi in gioco per creare qualcosa di contemporaneo.

RAZMATAZ LIVE in collaborazione con MURCIANO INIZIATIVE

RICHARD O’BRIEN’S ROCKY HORROR SHOW

 

musiche RICHARD O’BRIEN

coreografie Matthew Mohr

scene e costumi David Farley

regia SAM BUNTROCK

con la partecipazione straordinaria di

CLAUDIO BISIO nel ruolo del narratore

 

Alice Del Mutolo

Ma sono mille papaveri rossi-Tangram Teatro

Chi è il nemico? E dove si trova? L’identificazione del nemico e, in seguito, il passo successivo di elaborare una strategia per annientarlo, è una costante che permea tutta la nostra vita. Oggi, come cento o mille anni fa e così a ritroso. Il nemico c’è quando lo creiamo noi, è una nostra invenzione. Ne abbiamo bisogno per dare forse un senso alla nostra vita, per muoverci dal torpore della noia dandoci una spinta, facendo da catalizzatore o solo per giustificare qualche nostra azione. Se il nemico è sempre l’altro, noi ad un primo sguardo siamo autorizzati a far la parte dell’eroe, ma l’altro lato della medaglia mostra come tutti possiamo diventare il nemico dell’altro. Un discorso vivo anche tutt’ora, dove questa figura fa comodo, costruisce strategie politiche e militari, o in piccolo, strategie sociali di quartiere, che si portano dietro discriminazione e odio. Un camaleonte in questo mondo camaleontico.
Un passo ulteriore è stato fatto. Ora è superflua anche la domanda iniziale: siamo sicuri che il nemico è lì davanti a noi, però non sempre ha il fucile in mano. Il dubbio dell’errore non ci turba. Ma questo è solo un dettaglio.

Un passo indietro ora è necessario: ritornare almeno, se non possiamo farne a meno, a riflettere su quella domanda iniziale per poter cercare una risposta adeguata. Qui ci vengono in soccorso la grande storia dei libri e quella piccola di persone comuni, come Susanna, che sono state catapultate nel Novecento e che probabilmente un nemico lo hanno trovato. “Il nemico è dentro di noi”, dice Susanna, ormai nonna, al nipotino. Tutto questo sottovoce, meglio che la gente non lo senta, non può capire.

La regista e direttrice del Tangram Teatro Ivana Ferri, mette in scena la storia di Susanna, bambina al tempo marcio della Grande Guerra che crescendo vedrà e sarà toccata dai grandi eventi che hanno visto luce durante tutto l’arco del Novecento. “Un viaggio”, dice la regista, “attraverso un secolo alla ricerca del nemico, per crescere, imparare e capire con la saggezza dei semplici e l’onestà di chi non ha dimenticato i valori”.
Come un vero e proprio cantastorie, l’attore e co-direttore del Tangram Teatro Bruno Maria Ferrario, ci narra questa vicenda, districandosi tra le decadi del secolo, attraverso la storia Grande e quella piccola di Susanna, delle persone comuni e tendendo le fila con le canzoni d’autore di grandi cantautori italiani che hanno a loro volto raccontato di quei momenti, come Ivano Fossati, Roberto Vecchioni, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Lucio Dalla. La canzone d’autore è riuscita ad indagare il nostro tempo, accompagnando la crescita di generazioni, dando spazio alle figure emarginate, a spaccati sociali e alla rabbia del momento.

<<C’è un giorno che ci siamo perduti
Come smarrire un anello in un prato
E c’era tutto un programma futuro
Che non abbiamo avverato>>,
( Estratto di C’è tempo di Ivano Fossati.

Susanna ha tre anni quando nel 1917 è costretta ad accompagnare la madre nella sua discesa agli inferi, perché, stanca di aspettare, vuole riafferrare la vita, riportarla in superficie. Attraversa campi, soldati maciullati lì distesi. C’è il vento che porta le voci dei morti. Può desistere, la incitano a non desistere. Ma questo non è contemplato da lei. La vita, la voglia di portare fine a quell’ansia, a quel dramma personale, la necessità di voler rivedere suo marito. Va a Caporetto a cercare il marito, con la sua bambina Susanna. Una madre e una piccola ignara di ciò che accade intorno a lei, immerse in un mondo in disfacimento che vogliono andare oltre la consolazione di un papavero rosso. Susanna ritrova il suo papà. Tornano a casa. Eroe è colui che cerca e che continua a cercare.
La prima guerra mondiale si portò dietro la seconda guerra, e altro terrore e distruzione. Altro tempo in cui quello che abbiamo seminato non darà mai frutti. Nuovi nemici da annientare.

“Sogna, ragazzo sogna
Quando cade il vento ma non è finita
Quando muore un uomo per la stessa vita
Che sognavi tu”

( da Sogna ragazzo sogna di Roberto Vecchioni)

E intanto Susanna cresce. La mente rivolta sempre a Pierino, il suo grande amore scomparso chissà dove. Sposa, però, Giovanni a cui col tempo si era affezionata. Ha due figlie. La storia del mondo si intreccia ancora una volta con quella personale. Arriva in Italia il boom economico e Susanna si trova a confrontarsi con le nuove tecnologie, la TV. La prima e ultima volta.  Vedrà sì i primi computer e i telefonini, ma non rimarrà influenzata dalle innovazioni, tenendosi a debita distanza. Probabilmente non riuscirà a comprenderle sino in fondo, o forse le vedrà solo come un ulteriore faccia del nemico. Lei nella sua vita di nemici ne aveva visti tanti. Il soldato con la giubba diversa, il fascista, ora trasformatosi nel rosso comunista, o semplicemente il barbone, il nero. E così velocemente se ne va via anche il boom, con le sue contraddizioni. Lasciando sogni non propriamente realizzati, punte amare in bocca tentata.

Però la storia non si ferma
davvero davanti ad un portone
la storia entra dentro le stanze e le brucia
la storia dà torto o dà ragione

(Da La storia siamo noi di Francesco De Gregori)

Sì, la storia non si ferma, e così il malcontento scoppia nel ’68. Studenti, ragazzi, è un giorno in cui quasi tutta la gente si tende la mano. Così una delle figlie di Susanna, quella più combattiva sarà affascinata dalla rivolta, sarà parte degli eventi, della contestazione. Stato corrotto, povertà, mancanza di diritti. Il ribelle contro lo sporco poliziotto. Il comunista contro lo sbirro. Lo sbirro contro il rosso. Una folla borghese benestante che sfida il poliziotto ormai povero. Punti di vista diversi, nemici nuovi e diversi.
Susanna ormai nonna, vede mutare la sua Nazione, i suoi ideali si nascondono, sono vecchi e vanno verso la rovina. Un mondo in trasformazione, un mondo forse che non le appartiene più. Ma per stare al mondo basta la saggezza, quella semplice ricevuta in dono dal trascorrere dei giorni, da elargire gratuitamente a chi ha tempo per ascoltare. E con le sue parole cresce il nipotino. Parole a volte che non comprende, perché ancora troppo piccolo, ma che capirà in futuro, come la piccola Susanna comprese la ricerca di vita della madre. Si ricorderà le parole della nonna su il nemico che, prima, bisogna cercare dentro di sé. E i sogni. La nonna seppur anziana oltre ai crucci per il presente, sognava. Un sogno che tende al futuro, ma che si salda sul passato. Su quel giorno in cui non vide più Pierino e quello futuro, ormai novantenne, in cui al notiziario venne trovato il corpo del giovane congelato dal gelo di un ghiacciaio per tutto quel tempo. Fantasia e realtà si mescolano per dare un tono in più alla nostra vita.

Sogna, ragazzo sogna
Quando lei si volta
Quando lei non torna
Quando il solo passo
Che fermava il cuore
Non lo senti più.

(Da Sogna ragazzo sogna di Roberto Vecchioni)

Susanna si fermerà alle soglie del nuovo millennio. Vedrà gli stravolgimenti sociali, politici ed economici. Si è portata dietro, da bambina fino ad ora, cicatrici, esperienze e valori. Ne ha parlato, ha cercato di tramandarli pur sapendo che non potevano adattarsi ad un mondo nuovo. Lei se ne va e lascia spazio al nipotino, al futuro e quindi a noi. Con lei il Novecento con i suoi picchi e le sue voragini ci lascia. Cosa abbiamo imparato da Susanna? Cosa abbiamo noi di lei? È il caso che riflettiamo meglio sul nostro tempo perduto, per poter affrontare meglio le contraddizioni del nostro presente e poter tornare a cercare la vita.
Questo spettacolo ci invita a continuare a cercare e sognare, continuando ad alimentare la storia, magari senza generalizzare il nemico.
La storia siamo noi. La si trova nei libri, nei film, nelle canzoni, ma con più attenzione la si ritrova anche nelle parole di chi ha vissuto più di noi.

Emanuele Biganzoli

 

Scritto e diretto da IVANA FERRI con Bruno Maria Ferraro

Musiche di Ivano Fossati, Roberto Vecchioni, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Lucio Dalla

Voci fuori scena: Susanna Ferro e Niccolò Fortunato

Arrangiamenti musicali: MASSIMO GERMINI

Disegno luci: MASSIMILIANO BRESSAN

Montaggio immagini: GIANNI DE MATTEIS

Assistenza tecnica: ANDREA BORGNIN

Materiali tecnici: DB SOUND- ASTI

Organizzazione: ROBERTA SAVIAN

Segreteria di produzione: FRANCESCA ROSINI

Produzione: TANGRAM TEATRO TORINO con il sostegno del SISTEMA TEATRO TORINO- REGIONE PIEMONTE MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI