La famiglia Popoch, o come lavorare per vivere.

I due protagonisti Yona e Leviva appaiono come due figurine su uno schermo.  Se si accetta l’idea secondo cui tra attore e pubblico, a teatro, non dovrebbe ergersi un vetro, nel caso de Il lavoro di vivere non è del tutto chiaro se questo vetro esista o meno. Questa rappresentazione è un quadro dipinto perfettamente. L’atmosfera è talmente fedele che viene da domandarsi se si assista a una storia raccontata già mille volte o a un pezzo di vita vera che assomiglia troppo a una finzione. La risposta che viene da darsi è che forse gi attori desideravano rendere proprio questa sensazione ibrida.
Carlo Cecchi, che intrepreta un uomo stanco della vita coniugale, sul palco si muove proprio come se fosse a casa sua. Inciampando e balbettando si comporta davvero come un marito che discute con la moglie. Se la sua intenzione era di trasmettere un dubbio, è stato eccezionale.
La camera da letto che accoglie i due coniugi è costruita con precisione analitica. Le serrande abbassate e i dettagli di luce contribuiscono a creare quella sensazione di “essere a casa”. Il lavoro di Gian Maurizio Fercioni è stato pertanto sobrio e corretto. Al centro di questa stanza c’è il letto attorno a cui girano i due personaggi, è il campo di battaglia loro e degli attori.
Fulvia Carotenuto interpreta Leviva e senza di lei Cecchi e Yona avrebbero poco senso. Nelle prime battute la sua interpretazione pare sotto tono rispetto a quella di Cecchi. L’attrice sembra semplicemente meno a suo agio con la parte. A un certo punto, però, Leviva si prende uno schiaffo e la recitazione di Fulvia Carotenuto dà uno schiaffo al pubblico. Diventa talmente vera che in lei si riconosce – al di là delle potenzialità del testo che lo permette – la chiave di lettura per capire l’interpretazione di Cecchi e il gusto di tutta la rappresentazione. Carotenuto diventa davvero una donna ossessionata dal “mettere su del tè” per risolvere i conflitti. Entra del tutto nel personaggio. Allora quando il testo richiede agli attori di rivolgersi al pubblico apostrofandolo direttamente, Cecchi e Carotenuto non parlano al vuoto, per pura retorica testuale, come potrebbe apparire superficialmente, ma è davvero come se fossero a casa loro a palare agli angoli, da soli, come a volte succede.
Carotenuto lascia un po’ di amaro in bocca solamente nel finale, dal momento che non si è goduta la sua tragedia, è andata veloce alla chiusura della rappresentazione, e tutta la scena ha perso di intensità.
Gunkel, il terzo personaggio, interpretato da Massimo Loreto è un personaggio senza né lode né infamia e la resa dell’attore non si discosta molto da questa definizione. Indubbiamente era fedele al clima della rappresentazione, ma mancava delle sfumature degli altri due interpreti.
Questo clima così intrigante è diretto dalla regia di Andrée Ruth Shammah che ha evidentemente compreso il testo di Hanoch Levin in tutte le sue virtù e potenzialità inespresse.
Un lavoro dunque, per quanto rodato a lungo, che ancora colpisce con ironie sottili e frecciatine ben piazzate, che sembrano uscite spontaneamente  ed è per questo che risultano ancora più amare. Il testo è costruito per aumentare in asprezza più ci si avvicina al finale e gli attori nelle ultime battute sono ormai riusciti a portare completamente il pubblico nella intimità della loro stanza. I movimenti di Yona diventano sempre più stentorei – reso da Cecchi fisicamente molto bene – finché a un certo punto, carico di angosce, si ferma. Non si muove più. Si alzano le serrande ed è giorno. Nella casa in cui tutti ci eravamo abituati a stare entra la luce. Questo finale, scenicamente incisivo, illumina tutte le sfumature.

Tante facce nella memoria e le sue vedove “assenti”

Lo spettacolo, andato in scena il 17 gennaio 2017 alle Fonderie Limone di Moncalieri, è una drammaturgia a sei voci. Scenografia di Paola Comencini, disegno e luci di Gianni Staropoli e regia di Francesca Comencini (regista di “Gomorra la serie”). Interpretato dalle bravissime Bianca Nappi, Lunetta Savino, Carlotta Natoli, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli e Mia Benedetta che ne ha curato insieme alla regista i testi.tante-facce-6

Sei storie di donne protagoniste, a vario titolo, dell’eccidio di uomini a loro cari nelle Fosse Ardeatine quando nel 1944, a seguito dell’attentato di Via Rasella, i nazisti coadiuvati dai fascisti si vendicarono con atrocità devastante contro uomini colpevoli di aver difeso il loro onore, amor di patria e libertà. A causa della morte di 33 soldati delle SS furono arrestati e uccisi 335 italiani, l’ordine era “per ogni tedesco ucciso dovevano morire 10 italiani”.

Una voce fuori campo ci ricorda che non siamo di fronte ad uno sceneggiato né a racconti di fantasia, ma a testimonianze dirette raccolte da Alessandro Portelli, uno dei principali studiosi della storia orale, che ha ispirato la regista.                                                                       Lo spettacolo, incentrato sulla memoria e sulla necessità di ricordare, mette al centro la figura femminile ricordandoci quante donne coraggiose hanno partecipato attivamente come partigiane o compagne di partigiani. Non c’è ricordo più forte di chi realmente l’ha vissuto, ricordo che con grande abilità le sei attrici hanno incarnato con molta emotività e sensibilità tanto da non distinguere più l’attore dai personaggi realmente esistiti. Sei monologhi carichi di emozioni, ricordi e qualche nostalgico rimpianto.   Le tre donne partigiane (Bianca Nappi, Mia Benedetta e Chiara Tomarelli) rievocano in tono freddo, duro e umile le gesta violente quanto necessarie compiute.  Le donne non partigiane, con le eccellenti interpretazioni di Lunetta Savino,tante-facce-10Carlotta Natoli e Simonetta Solder, invece, raccontano con più pathos quei momenti di intime sofferenze e di privazioni vissute per la mancanza dei loro cari (padri e mariti).

Viene rappresentato un lutto mai veramente rielaborato perché per anni la storia non ha mai riconosciuto e ricordato abbastanza il sacrificio e il supplizio che quegli uomini e indirettamente quelle donne, ora finalmente unite nel ricordo, hanno vissuto per difendere un’ideale nobile e la patria. E’ un lutto strano, un lutto di figlie, madri e vedove assenti. Assenti perché per anni non hanno potuto raccontare, perché emarginate, perché parenti di antifascisti caduti; assenti perché madri sole con figli da accudire. Non avevano avuto neanche il tempo di piangere. Assenti perché non sapevano nulla, avevano visto arrestare i loro cari, avevano immaginato e anche sperato che fossero stati deportati nei campi di concentramento. Invece no, un trafiletto su “Il Messaggero” il giorno seguente diceva: “L’ordine è già stato eseguito”. Non restava che riconoscerei cadaveri quasi irriconoscibili.                                                                                                 Colpisce una scenografia scarna ma d’impatto, essenziale ma non spoglia: in primo piano le sei sedie e in quinta tanti cappotti appesi quante furono le vittime. L’attenzione è tutta focalizzata su quelle sei donne illuminate da una luce lieve. Sono sei voci che come un’orchestra ben diretta diventano un solo afflato di dolore ma anche di fiducia. E quando lo spettacolo, che ha tenuto un silenzio ingombrante in sala, arriva al finale, le sei donne si raccolgono sotto i cappotti come fossero un’unica persona e a chiudere la pièce teatrale viene suonata la canzone Sempre di Gabriella Ferri.  Le attrici sono sensibilmente commosse, quasi consapevoli che non ci sarà mai un altro ruolo che le farà ritornare a essere quelle donne così fragili ma forti, così comuni ma eroiche. A fine spettacolo tutto il pubblico le richiama con applausi svariate volte dalle quinte e le attrici rientrano sempre ringraziando e riapplaudendo a loro volta il pubblico.

Virginia Cappuzzo.

“IL LAVORO DI VIVERE” – UNA NOTTE TORMENTATA

Un enorme letto, posto su un piano inclinato verso il pubblico, domina la scena. Gli spettatori osservano, o per meglio dire “spiano”, come guardando attraverso le veneziane della camera da letto, l’aspro scontro che si scatena fra i due protagonisti, Yona e Leviva, sposati da trent’anni. Imprigionati nella routine di una vita ormai consumata e monotona, che per Yona è diventata così insopportabile da spingerlo ad alzarsi, in piena notte, e a svegliare la moglie, scaraventandola a terra con tutto il materasso, chiedendole: “Perché sto con te Leviva?”. E mentre lei cerca di placarlo, di parlargli con calma, lui, insultandola, si veste e prepara la valigia, pronto ad andarsene, per staccarsi da quella vita che ormai gli si stringe addosso come una prigione. A questo punto l’iniziale calma di Leviva viene meno. Anche lei comincia a rispondere aspramente alle offese del marito, dando così inizio a uno scontro spietato, dove i due infieriscono l’uno sull’altro, sputandosi addosso i rancori, le frustrazioni, le delusioni , incolpandosi a vicenda di non avere avuto la vita che avevano sognato. Quella camera matrimoniale, simbolo di intimità e affetto, si trasforma così, sotto lo sguardo del pubblico, in una sorta di ring, dove la coppia si affronta con ironia e ferocia. Sarà l’arrivo di un terzo personaggio, Gunkel, l’indiscreto amico di Yona, straziato dal celibato e dalla sua vita desolata, a portare a una sorta di svolta nel conflitto. Infatti, dopo la sua comparsa, Yona mette fine al suo proposito di andarsene e si arrende alla realtà delle cose. Lui non può andare via, gli manca il coraggio di apportare un vero cambiamento, perché ciò che lo tiene ancorato a quella vita che ormai disprezza è la paura schiacciante di rimanere soli, “soli nel buio della notte”. Ed ecco quindi la rivelazione che si spiega davanti ai due, loro stanno insieme, e staranno ancora insieme, continuando ad andare avanti nel loro quotidiano lavoro di vivere, preferendo quella vita grigia e ormai spenta, piuttosto che affrontare la solitudine. Solitudine che alla fine giunge comunque, Yona muore, l’infarto lo spegne, in quel letto che ha dominato la scena.

Con un’ottima recitazione, gli attori hanno saputo esprimere appieno la triste realtà in cui vivono i loro personaggi. Carlo Cecchi, con una recitazione un po’ trascinata, con delle frasi biascicate e il passo strisciante, ha saputo mostrare l’angoscia e lo sfinimento interiore del personaggio di Yona. Accanto a lui Fulvia Carotenuto, con una voce squillante e decisa, ha interpretato e ha reso vivo il personaggio di Leviva. Buona anche la recitazione di Massimo Loreto nei panni di Gunkel.

La regia di Andrée Ruth Shammah, grazie al grande lavoro degli attori, ha saputo mettere in scena al meglio il testo di uno dei maggiori drammaturghi israeliani, Hanoch Levin, poco conosciuto e rappresentato in Italia. Un autore criticato da coloro che non apprezzano il suo approccio libero e sincero nel raffigurare i tabù, lo stile di vita e il modo di pensare della sua gente. Il suo modo di rappresentare con sincerità il mondo che vedeva, senza censure o perbenismo, gli ha permesso di rendere vivi, veri, i suoi personaggi. Di creare un testo che svela le ombre e le meschinità che si celano dietro a ognuno di noi, e che fa riflettere sulle pieghe amare della vita e sulle debolezze dell’animo umano.

Gisella Marcuz

 

Slava’s Snowshow – Solo Animali da Palcoscenico

Per la terza volta, il teatro Bellini di Napoli ha ospitato lo spettacolo Slava’s Snowshow con la regia di Viktor Kramer e Slava Polunin riuscendo ancora a far sognare grandi e piccini.

Con una scenografia semplice fatta di stelle, costumi buffi, trucco appariscente e trovate tecnico-artistiche geniali, Slava e i suoi clown accompagnano il pubblico in un viaggio poetico, malinconico ed emozionante, trasformando il teatro in un luogo sorprendete.
Ma chi è Slava?
Nato in una piccola città russa, trascorre l’infanzia a stretto contatto con la natura sviluppando una grande creatività. Inizia il suo percorso di clown a Salisburgo che lo porterà a studiare mimo e a cambiare la figura del clown del XXI secolo; una figura non più legata al circo ma libera e teatrale.

Lo spettacolo  è anarchico come anarchici sono tutti i clown che si muovono sul palco e tra il pubblico. Tutto è possibile: può piovere, nevicare, ci si può trovare incatenati in una gigantesca ragnatela o in mezzo a una bufera, si possono smarrire oggetti o trovarsi in una spa.
Quello che fa Slava è spostare la quarta parete, quella parete immaginaria, che divide il pubblico dagli attori, creando un muro protettivo tra il teatro Bellini, luogo per due ore fantastico e il resto del mondo.

Il grammelot, con intercalari partenopei, è l’unico momento in cui il clown interrompe una musica narrativa, sempre presente. Una musica che accompagna movimenti precisi e silenziosi, ritmati e ben incastrati nello spazio scenico, ricordando il lavoro pantomimico portato avanti da due dei grandi artisti che lo hanno ispirato: Charlie Chaplin e Marcel Marceau.

La tenerezza, la semplicità e la fisicità di Slava coinvolgono tutto il pubblico. Il clown con la sua tragicommedia e travolgenza conquista tutti: dai più piccoli ai più grandi. Un pubblico in balia della follia dei clowns, un pubblico che deve sapersi divertire lasciandosi andare, dimenticandosi della propria età e che forse deve avere un po’ di pazienza.

Sembra non esserci una narrazione in Slava’s Snowshow per cui la forza dello spettacolo non va trovata nella storia, ma nelle emozioni, nelle sensazioni e nello stupore che le trovate artistiche e la presenza fisica dei clown, suscitano. Tutto è fuori dalle convenzioni e per un attimo non si comprende se si è pagato un biglietto per uno spettacolo teatrale o circense, se si è adulti o bambini o se si è fuori luogo, perché non si sono portati i nipotini a seguito. Ma una cosa è certa, l’esperimento di Slava riesce solo se ci si ricorda che si è stati bambini, tutti.

La tournée, per chi non volesse perderla, approderà a Bergamo e a Bologna rispettivamente a febbraio e a marzo.

È consigliato portare il bambino che è in ogni adulto; magari senza essere passati prima dal parrucchiere e non indossando quella giacca di camoscio che tanto ci piace.

 

A spasso nell’universo delle sorelle Alvarez

Il MINI SPECIAL side-show delle sorelle Alvarez, accompagnate dal venerato Bosis, viene portato in scena da Cinzia Cigna e Giorgia Goldini ogni martedì sera al Teatro della Caduta di Torino in via Buniva 24, con l’accompagnamento musicale di Niccolò Bosio alla fisarmonica, Cecile Delzant al violino e Ariel Verosto Pascaud, al flauto traverso, chitarra e pianoforte.
Lo spettacolo replica ogni settimana dal 12 Gennaio 2016 a questa parte, ponendosi come un insolito ed improbabile esempio di quel mondo “andato”, dal gusto teatrale retrò, un po’ esotico e un po’ bizzarro, a tratti grottesco, che le sorelle Alvarez, attrici, impresarie, medium, cantanti, danzatrici, addomesticatrici di serpenti ed infinite conoscitrici dell’animo umano, portano avanti da ormai più di un anno.
Si rivolgono al pubblico come a volerlo risvegliare da un sonno spirituale, catapultandolo però al tempo stesso in un universo surreale quasi magico, fatto di trucchi, riti, profezie ed evocazioni, inframezzati da canti e balli.
Ci sono poi una serie di artisti che, inoltrandosi nello spettacolo, vengono presentati dalle Alvarez: chi canta una canzone provocatoria seduto al centro del palco con la chitarra in mano, chi recita un monologo comico, chi prescinde da ogni canone interpretativo lasciandosi andare completamente al flusso delle emozioni, chi porta in scena uno spezzone dello spettacolo teatrale della propria compagnia e, ancora chi, direttamente dalla platea, sale sul palco improvvisando qualcosa. Non mancano quindi gli interventi del pubblico, che molto familiarmente partecipa in modo attivo alla finzione-condivisione che si è creata nel corso della serata.
Quello in cui si realizza il MINI SPECIAL side-show, insomma, è un ambiente che coinvolge, sia in ambito spettacolare, sia per quanto concerne il teatro in tutte le sue forme, un piccolo covo nascosto nelle vie di Vanchiglia che raccoglie artisti emergenti senza pregiudizi, ne crea qualcosa di originale e straordinario pur mantenendo quel sapore semplice e confidenziale tipico degli ambienti culturali alternativi, un rifugio artistico per chi non trova voce altrove, una tana che crea l’Atmosfera con la A maiuscola, quella capace di una matura esperienza teatrale nonché conoscitiva.
Per questo e per mille altri motivi si può dire che lo spettacolo abbia riscosso un notevole successo, e laddove il pubblico gradisce, il fantomatico cappello che serve a sostenere le spese del teatro, facilmente, si riempie.

Il lavoro di vivere in coppia

 

Il lavoro di vivere è una commedia “crudele e beffarda” di Hanoch Levin, autore israeliano, molto rappresentato in Europa. Andrée Ruth Shammah traduce e adatta il testo dall’ebraico, definito da diversi critici di alta complessità. A completare l’opera, che è stata in programmazione al Teatro Gobetti di Torino dal 17 al 22 gennaio 2017, sono Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto.

Il lavoro di vivere ha bisogno di soli tre attori per portare in scena una scatenata crisi coniugale, che si realizza sul palcoscenico nel quale campeggia al centro un bianco letto matrimoniale. Ma ascoltando con attenzione il lungo monologo di Yona (Carlo Cecchi) si scopre che è in gioco qualcosa di più e di diverso del suo matrimonio con Leviva (Fulvia Carotenuto).

Sono vite insoddisfatte. Due amanti incapaci di amare. Si sentono scaduti, abituati ormai alla decadenza del corpo e dei sentimenti.

Yona è un cinquantenne in crisi di mezz’età. Una notte si alza dal letto e s’interroga su chi dorma al suo fianco. Leviva è una donna concreta e leale, innamorata, forse, fin da minacciare il suicidio pur di non essere lasciata dal marito. Al culmine del litigio spunta un visitatore, un amico: Gunkel. L’uomo, in cerca solo di un’aspirina nel bel mezzo della notte, non lascia l’abitazione prima di aver dimostrato che è la paura della solitudine ad aver inchiodato i due coniugi per trent’anni l’uno all’altra. Se ne va lasciando una forte amarezza in quella stanza da letto che assomiglia sempre di più ad un ring.

Le commedie di Levin descrivono battaglie quotidiane della piccola gente, collocando l’azione in uno spazio ristretto. Questo testo in particolare riesce ad esprimere in modo non banale la durezza di una vera e propria lotta verbale, crudele ed ironica allo stesso tempo.

Il teatro di questo autore chiude le porte agli eroi e accoglie i cosiddetti “perdenti”, vestendoli di una vena poetica che li avvolge e li rende memorabili.

“Mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”: Natale in casa Cupiello

Martedì 10 Gennaio 2017 debutta al Teatro Carignano di Torino “Natale in Casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, con laregia di Antonio Latella.

La tragicommedia è stata scritta nel 1931 e De Filippo la porta in scena con la sua compagnia fino agli anni Settanta, apportando continue modifiche. Attraverso la figura del protagonista Luca Cupiello, che cerca di riunire la famiglia ispirandosi all’ideale del presepe, che diventa per lui quasi un’ossessione, l’autore vuole mettere in evidenza l’impossibilità di ricreare il nucleo familiare, ormai sfasciato, solo durante una ricorrenza annuale come il Natale.

Antonio Latella supera il naturalismo della rappresentazione di De Filippo, rivolgendosi al pubblico attraverso simboli e invitandolo a immaginare il contesto in cui si svolge la storia. Il sipario si apre rivelando una disposizione lineare e simmetrica degli attori, con al centro il protagonista, Luca Cupiello, interpretato da Francesco Manetti, vestito di bianco, diversamente dagli altri personaggi che indossano abiti di tonalità scure e con gli occhi coperti da una mascherina. Al segnale del bastone di Luca, immagine della malattia incombente, tutti i personaggi iniziano a camminare verso il proscenio mentre dietro di loro viene calata una grande stella cometa, che rimanda al presepe tanto amato dal protagonista, e unico oggetto della scenografia presente nel primo atto. Latella utilizza pochi oggetti di scena, ma fortemente simbolici. Infatti ad ogni personaggio nel corso del secondo atto verrà attribuito un “pupazzo” raffigurante un animale che lo rappresenta (ad esempio Nicolino ha un maiale che rimanda ai suoi comportamenti rudi verso la moglie Ninuccia), ad eccezione di Concetta, moglie di Luca, che traina un carro grande quanto il peso delle vicende familiari che ricadono tutte sulle sue spalle. Nel terzo atto invece l’oggetto predominante è una grande culla, all’interno della quale si trova Luca ormai in fin di vita, circondato dai familiari disposti a formare il presepe, che richiama il tanto agognato sogno familiare del protagonista, che a quanto pare può realizzarsi solo in prossimità della morte. È chiaro dunque che Latella riduca la scenografia lavorando su immagini metaforiche che diventano macroscopiche.

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Tornando al primo atto, dopo il posizionamento della stella cometa, gli attori, sempre su segnale del bastone di Luca, iniziano a recitare coralmente e fedelmente le didascalie mentre vediamo Luca che muove la mano come se stesse scrivendo: Latella sembra così voler sottolineare la fedeltà al testo eduardiano immettendo eccessi di teatralità, ad esempio quando gli attori pronunciano, all’interno delle battute, anche gli accenti (gravi, acuti o circonflessi) accompagnandoli con movimenti che ricordano passi di danza. Inoltre Luca “scrive” l’opera mentre si sta compiendo quasi per ricordare al pubblico la presenza dell’autore, poiché la storia dello spettacolo è un patrimonio di confronto che non deve essere dimenticato tanto che, nel secondo atto, risuona costantemente la voce di Eduardo De Filippo “mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”, per rammentare la sua presenza persistente, mentre gli attori si guardano spaesati attorno, come per cercarlo.

Da segnalare sono sicuramente due aspetti: in primo luogo l’uso sapiente delle luci, statiche per quasi tutto lo spettacolo e che mettono così in risalto l’intensità delle azioni e dei sentimenti, che diventano poi intermittenti e artificiose a metà del secondo atto, dove la tensione accumulata a causa del triangolo amoroso che vede protagonisti Nicolino, Ninuccia e Vittorio, esplode in una danza frenetica durante la quale risuonano versi di animali come in una “giungla” di conflitti familiari. Nel finale le luci tornano a creare un’atmosfera cupa, che rimanda all’incombenza della morte, e forti chiaroscuri che rendono la scena come un dipinto. In secondo luogo, gli attori sono molto abili a passare dall’italiano delle didascalie al dialetto napoletano delle battute e dei dialoghi repentinamente, in particolare possiamo mettere in evidenza la bravura di Monica Piseddu, che interpreta Concetta.

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È rilevante il cambiamento apportato da Latella al finale: il figlio Tommasino uccide, soffocandolo con un cuscino, Luca, con l’approvazione di tutti i presenti, ponendo così fine alle sue sofferenze. Da un lato questo può essere considerato un gesto di amore e pietà nei confronti del padre, nonostante per tutta la vicenda Tommasino si sia dimostrato ingrato e scansafatiche, dall’altro potrebbe anche essere uno spunto del regista per esortare le nuove generazioni a fare tesoro dell’insegnamento della tradizione ma, al contempo, a superarla, rinnovando e sperimentando, facendo così rinascere il teatro.

Alice Del Mutolo
Stefania Pero

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone,
Emilio Vacca, Alessandra Borgia
drammaturga del progetto Linda Dalisi
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino – luci Simone De Angelis – musiche Franco Visioli
Teatro di Roma

 

La notte porta consiglio

Niente di più attuale del testo di Hanoch Levin portato in scena da Andrèe Ruth Shammah, considerato negli anni della sua stesura “scomodo”, il quale affronta una crisi esistenziale tra le mura domestiche avuta dal protagonista Yona Popoch, interpretato da Carlo Cecchi. Una crisi, più di mezza età che coniugale, che porterà a riflessioni filosofiche e a considerazioni sulla vita e sulla morte, quasi preannunciata nelle battute iniziali dal dolore al petto di Yona che si manifesta più volte durante lo spettacolo.

Sipario aperto, letto matrimoniale ben in vista grazie al pavimento inclinato, si spengono le luci ed entra la coppia. Lui, beffardo e duro tanto da definire la moglie un“culo”, lei, Leviva (Fulvia Carotenuto), onesta, come spesso si definisce, e incredula alla reazione improvvisa del marito nel cuore della notte il quale, preso dai pensieri e, apparentemente, dal timore che la moglie lo tradisca, la butta giù dal letto insieme al materasso. Battute comiche si alternano a scene patetiche in cui viene messa a nudo la tristezza e la sofferenza dei personaggi, l’incapacità di comprendere a fondo questa loro vita e ti trovare una scappatoia. I personaggi, infatti, trascorrono più tempo a parlare, a lamentarsi e a insultarsi che ad agire. Leviva minaccia il suicidio ma tenterà sempre e solo di convincere il marito a restare e a invecchiare accanto a lei; Yona proverà ad andarsene di casa per rifarsi una nuova vita senza la moglie, ma nel momento decisivo ecco che sopraggiunge un loro amico, Gunkel (Massimo Loreto), un uomo solo, senza moglie, invidioso di loro. Sarà poi la solitudine di quest’ultimo e la sua infelicità a far cambiare idea a Yona, più che per amore verso la moglie per paura di morire solo. Gli atteggiamenti si invertono: Yona più remissivo, Leviva più audace. E’ lei ora a prendersi beffa del marito, servendosi dello stesso sarcasmo riservatole prima, chiedendo anche sostegno al pubblico, anime dell’aldilà che osservano la loro vita, tra cui si cela anche lo spirito della madre del suo compagno “che se la ride”. Rottura della quarta parete, dunque, così che il pubblico è costretto a vedere la finzione sotto una nuova luce e a guardare meno passivamente, forse un richiamo a Brecht, ben noto per rompere deliberatamente la quarta parete, per incoraggiare il suo pubblico a pensare in modo più critico ciò che stava guardando. Lo spazio del palcoscenico è dominato da Cecchi, quasi mai fermo, il quale trascina il pubblico nel suo sogno di libertà, ma è la voce di Fulvia Carotenuto a prevalere maggiormente, ad attirare l’attenzione del pubblico ed a riportarci con i piedi per terra. Intanto il tempo scorre. Il lavoro di vivere è un testo conflittuale, una commedia crudele e ironica, con battute pungenti. Niente è lasciato al caso come il rumore delle gocce d’acqua: durante l’arco dello spettacolo è possibile udire lo scarico del gabinetto che perde, goccia dopo goccia, come a scandire i secondi che passano, forse un altro modo per farci intuire che Yona ha i minuti contanti.

“Mistero Buffo” in Valsesia

Il sipario si apre e in scena niente, non una sedia, non uno sfondo, nessun elemento scenografico. Dopo alcuni secondi esce Ugo Dighero in maglietta e pantaloni neri, inizia a parlare agli spettatori di quello che vedranno in scena e, ancora prima che inizi veramente lo spettacolo il pubblico in sala è già conquistato.

Mercoledì 18 gennaio Ugo Dighero ha portato sul palcoscenico del Teatro Civico di Varallo, in provincia di Vercelli, due monologhi tratti dalla più celebre opera teatrale di Dario Fo, Mistero Buffo. Lui regista e unico interprete ha saputo calcare la scena brillantemente in entrambi i pezzi: Il primo miracolo di Gesù bambino e La Parpaja Topola . Composto nel 1969, Mistero Buffo è descritto (dallo stesso autore e primo interprete) come una giullarata popolare. Esso, come ci spiega Dighero, è un insieme di monologhi che si ispirano ad alcuni episodi dei Vangeli Apocrifi o a racconti popolari della vita di Gesù. La tecnica di rappresentazione è il grammelot, linguaggio inventato dal Premio Nobel. Esso è un insieme di suoni onomatopeici e di idiomi che assomigliano a diverse lingue o dialetti, i quali in realtà sono inventati. Nella fattispecie i due monologhi presentati hanno una cadenza molto vicina al lombardo, con suoni anche di altri dialetti, in particolare quelli dell’Italia centrale. Il tutto mescolato assieme crea comicità e diverte il pubblico proprio perché sconcerta vedere delle figure sacre o legate alla chiesa in questa veste, per così dire, “terrena”.

«Mi sono arrivate diverse lettere» dice Dighero «non oso immaginare a Dario Fo quante gliene siano arrivate in cui veniva accusato di blasfemia. Io però, fin dalla prima volta che ascoltai questi pezzi rimasi strabiliato e credo che lui abbia trovato un meccanismo straordinario per far empatizzare le persone con le figure sacre, che in genere […] siamo abituati a vedere con una certa distanza. Qui invece ne apprezziamo la profonda umanità, i drammi e le esperienze umane, il che ci svela un aspetto poco conosciuto e estremamente interessante.»

Il ritmo dei due monologhi è incalzante e la parlata è sciolta e spigliata. Il movimento del corpo è fluido e scomposto, non certo paragonabile alla scioltezza di Fo, ma decisamente giullaresco. Dighero pare quasi un bambino che salta, corre per il palco e a volte perde l’equilibrio. L’elasticità e la leggerezza nei movimenti sono dovute anche alla briosa interpretazione di questo attore che, da solo, entra e esce dai vari personaggi con grande maestria e, mantiene sempre, con il pubblico, un contatto diretto spiegando ciò che sta facendo; lo stesso modo in cui, come diceva Fo, i giullari medioevali intrattenevano il loro pubblico nelle piazze. I temi centrali di questi due monologhi sono il potente e il diverso, o forestiero e la difficoltà di integrazione dei nuovi arrivati in una comunità in cui non sanno cosa succeda all’interno, ma di cui vorrebbero far parte ugualmente. Così ne Il primo miracolo di Gesù bambino, che narra, a partire dalla fuga in Egitto, l’infanzia di Gesù, troviamo un episodio che inizia con un divertente sguardo al passato, l’arrivo dei tre re magi al presepe, per poi concentrarsi sulla vita del giovane Jesus a Jaffa, che per essere accettato dagli altri bambini decide di fare un miracolo, far volare con un soffio un uccellino di argilla. Arriva poi il figlio del capo del villaggio, un bambino dispettoso che distrugge tutti gli uccellini e “Palestina”, così viene soprannominato ironicamente Gesù, invoca suo padre Dio. Nella Parpaja Topola invece, il protagonista è un eremita che dopo aver ereditato una grande fortuna, per inganno sposa una giovane donna, l’amante del parroco di un paese vicino. Il monologo narra della prima notte di nozze e delle avventure di Giavanpietro alla ricerca della Parpaja smarrita, peripezie causate da un insieme di equivoci esilaranti che fanno provare empatia e tenerezza per il povero personaggio. Ogni episodio è all’insegna della comicità e della giocosità, dati da una mimica facciale policroma, fatta di tante sfaccettature che ricalcano ogni personaggio. I temi affrontati sono oggi attualissimi, conosciuti e vissuti da tante persone, ma Dighero li affronta con una tale leggerezza e ilarità che non può che suscitare risate; infondo è proprio questa l’idea di Mistero Buffo, rivisitare in chiave buffonesca temi sacri e attuali.

A chiusura della serata l’attore porta sul palco una poesia di sua composizione. Una “lirica populista” (definita così dallo stesso Dighero) che egli scrisse ai tempi della Guerra in Iraq, ma purtroppo sempre attuale visto come stanno andando le cose ancora oggi. Si intitola Ho deciso di esportare una merce nuova, che sarebbe poi la democrazia. Ironicamente Dighero suggerisce come le potenze occidentali siano andate a “liberare” i popoli del medio oriente, ma a modo loro, con tanto di armi, di bombe e di imposizioni culturali. «Facciamo una pazzia, esportiamo la democrazia chi non ce l’ha lo spaziamo via…» declama Ugo Dighero. La sua è una critica al potere, non solo americano ma anche europeo e italiano. Per possedere anche solo una piccola parte di oro nero, nessuno esita a spacciarsi per difensore di pace e libertà. «Pace e concordia al modo intero riempiendo il cimitero…» continua. E conclude: «Noi siamo i buoni abbiamo una mania esportare la democrazia, ma non la tua, la mia.» Il tema principale è sempre il potere, affiancato questa volta dalla bramosia di conquista di nuove terre e dall’imposizione di nuove ideologie. Ugo Dighero ha una grande forza espressiva, in grado di comunicare con chi lo sta ascoltando e, ancora una volta suscita negli spettatori la risata. Questa volta però è una risata più amara perché le ferite che queste guerre hanno lasciato e stanno lasciando sono ancora aperte.

Mi sono seduta al mio posto, prima dell’inizio dello spettacolo con qualche riserva, senza un vero motivo in verità. Alla fine però mi sono dovuta ricredere, Ugo Dighero è stato molto bravo e all’altezza delle interpretazioni del grande Fo. Il pubblico ha riso di gusto, me compresa e ha battuto le mani con calore e partecipazione, proseguendo per diversi minuti nel finale.

 

Trad-attori parricidi: il Natale in casa Latella

Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli; quando sono fedeli non sono belle (Carl Bertrand)


di Matteo Tamborrino

ph: Brunella Giolivo
Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Lino Masella (Nennillo) – ph: Brunella Giolivo

Questo estemporaneo avvio dedicato alle belles infidèles, ci permette in realtà di riflettere su quanto imprescindibile sia il nesso tra traduttologia, filologia e cultura teatrale. Si tratta di una relazione a tre che travalica le mere contingenze della messinscena  (per capirci, l’annosa questione: “Quale edizione del testo scelgo? Come lo traduco o rappresento?”), e che riguarda invece (e soprattutto) una condivisione di metodo, di approccio teorico e dunque di spirito.

Ripartiamo perciò da qui, dallo spirito. Da quella che i filosofi chiamano essenza. Siri Nergaard, docente di Lingua e letteratura norvegese all’Università di Firenze e di Teoria della traduzione presso la Scuola di studi superiori dell’Università di Bologna, ha pubblicato ormai 23 anni fa un’illuminante antologia dal titolo La teoria della traduzione nella storia (seguita poi dal volume, sempre edito per Bompiani, Teorie contemporanee della traduzione), che ripercorre – da Cicerone a Derrida – i maggiori contributi in merito alla questione della “trasposizione di codici e linguaggi”, un tema da cui registi e attori non possono prescindere.

Lettera o spirito? Erompiamo così dalla selva di richiami accademici e giungiamo lesti a ciò che più ci compete. Natale in casa Cupiello, per la regia di Antonio Latella, calca il palco del Teatro Carignano  – con il suo nutritissimo e meritevole ensemble di interpreti – tra il 10 e il 22 gennaio, destando – come prevedibile – reazioni alterne. Come costruire una relazione ottimale con un pubblico che, almeno in parte, si turba al solo pensiero di veder “stravolto” (sull’opinabilità poi di tale assunto torneremo) il divin Eduardo? «Non possiamo adeguarci supinamente alla domanda» è la risposta perentoria di Francesco Villano. «Noi dobbiamo imitare l’essenza di Eduardo, non scimmiottarne la forma attorica. Dobbiamo insomma trovare nuove forme per rendere viva, ancora viva, la sua natura di rivoluzionario, la sua parola d’autore». È il rispetto per lo spirito dunque la legge che governa la traduzione e la trad-azione (nel senso di trasposizione teatrale) di un classico, specie se si tratta di un attore-regista-autore come era l’erede di Scarpetta.

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Tormentato fu il lavoro di Eduardo su questo dramma, riscritto e meditato a partire dal 1931, anno di debutto con i fratelli nella compagnia del Teatro Umoristico, fino alla fine degli anni ‘70, con propaggini radiofoniche e televisive. Parimente tormentata risulta la cornice scenografica all’interno della quale si articola questo pregevole lavoro, che sembra contaminare l’umbratile genio pittorico di Bosch, Caravaggio e Füssli,. Dalla cieca fissità iniziale degli attori, esposti in proscenio e gravati da un’ingombrante cometa di vaporosità simile a un enorme corallo dorato, l’azione esplode poi in un trionfo bestiale di fisicità, tra il gioviale e l’effimero. Ad avvolgere l’intero allestimento, una luce funerea, un coacervo baroccheggiante di tensione geometrica e sensualità animalesca. La scena in cui Ninuccia/Valentina Acca viene rimbalzata come un testimone tra Nicola/Francesco Villano e Vittorio/Giuseppe Lanino racchiude in sé tale dialettica.

Francesco Villano è Nicola
Francesco Villano è Nicola

In un universo contraddittorio che alterna carnalità e mistica, cartapesta e simboli, in cui la tradizione è profanata in maniera irrevocabile, diventando mortifera consuetudine, Nicola è il più outsider di tutti: «Quello di Nicolino è un mondo frustrante, fatto di denaro e bottoni», spiega Villano parlando del proprio personaggio. «Il suo disagio nasce dal non riuscire a esprimere dei sentimenti, che pure egli prova. Non è cattivo, ma non conosce altri linguaggi. È questa situazione di umiliazione a condurlo poi verso il grido finale. Verrà infatti estromesso dai riti dei Cupiello». Villano è dunque un villain atipico: «Quella di Antonio è una regia “orizzontale”: ci offre degli spunti, dei suggerimenti sulla genesi dei nostri caratteri. Poi tocca a noi. Nel mio caso, sapevo di dover dar voce a un uomo innamorato sì, ma che in fondo non ha alcuno strumento per esprimerlo». È il vate del mercimonio, è il Buffalmacco che compra i capponi: «Parla di cibo, sempre: vuol comprarsi la benevolenza della famiglia».

Tradurre è tradire. Tradire (tradĕre) è consegnare. Offrire cioè in una lingua d’arrivo un certo contenuto, che possa sortire un effetto paragonabile all’originale in un pubblico diverso (per idioma e cultura) rispetto a quello per il quale l’opera era stata pensata. Tradurre è dunque l’utopia esperantista, la capacità di saper parlare a tutti, in una “lingua ideale” (cfr. Cicerone, Libellus de optimo genere oratorum), e in ogni tempo. Per rendere immortali delle parole, dei valori, e non le persone che se ne fanno temporanei vettori. Eduardo fu un Grand’attore, ma ora è tempo di farlo Grand’autore, di prender coscienza della sua dipartita (e, con lui, dei suoi mugolii, dei suoi silenzi, della sua inimitabile e inimitata maschera facciale).

“Cominciamo da capo tutto” è il loop disarmante che inquieta gli attori. L’Eduardo promiscuo, l’Eduardo attore s’intende, è morto il 31 ottobre 1984. Dal 1° novembre, rifarlo fu impossibile. Non si tratta di arte, ma di biologia. E se non è ancora morto va almeno debellato, consegnato alla storia (che Amleto, Edipo o anche solo il timido Pietro Rosi ce ne diano la forza!). E in tale “inattuabilità del lutto” ha avuto di certo un ruolo fondamentale (sembra assurdo dirlo) l’enorme quantità di materiale audiovisivo a nostra disposizione. Che ha continuato a renderlo vivo ai nostri occhi. Perfino Carlo Cecchi, che pure mastica De Filippo ad ogni sua nuova prova teatrale, ha saputo recuperarlo concretamente non  prima del Sik Sik del 2000.

È l’altro Eduardo, quello dei copioni, a dover diventare classico, tradizione, “presepio”. Come?

Annibale Pavone è parte del Coro
Annibale Pavone è parte del Coro che – al pari di una tragedia greca – segue lo sviluppo dell’azione

Il testo è rispettato con estrema fedeltà dal regista, ma – per così dire – sovra-costruito. «Da diverso tempo – racconta Annibale Pavone, direttore artistico e parte del coro – Latella conduce uno strenuo lavoro sui testi. Nel caso di Cupiello ha scelto di scavare in profondità, fino al non-detto, penetrando nelle tonicità della scrittura e nelle didascalie» (sempre così abbondanti, peraltro, nei testi dell’autore, il che denota una sua particolare cura nei confronti dell’attore). «Dopo le prime letture, ha definito quella partitura che avete potuto ascoltare», così straniante, così brechtiana: gli accenti gravi, acuti e circonflessi flettono gli attori, nel corso del primo atto, come se fossero tesi da un filo invisibile, intenti a giocare a “sacco pieno-sacco vuoto”. Nel frattempo, il protagonista redige un impercettibile brogliaccio. La fatica e la concentrazione degli attori raggiungono anche gli spettatori più lontani: «I primi quaranta minuti – continua Pavone – prevedono solo movimenti minimi e solo da parte di chi si è già tolto la benda. Per gli altri è un lungo lavoro d’ascolto, che non ammette distrazioni. La cecità ci confonde, ma ciò che deve essere esibito è in primis il testo di Eduardo». È come un’enorme mente, che silenziosa e buia, legge. Altri ostacoli si avvertono poi sul cammino: gli animali del presepe portati a zonzo per il palco (e che diventano opprimenti doppi), o il carretto funebre spinto dall’eccellente Concetta di Monica Piseddu.

Che cosa significa tuttavia confrontarsi con un mostro sacro? L’abbiamo chiesto a Francesco Manetti, l’efficace pater familias in giacca albina (che interpreta però anche la parte dello scrittore in fieri): «Credo che Latella si sia rivolto a me perché ho la fortuna di non avere nulla in comune con l’Eduardo attore. Per età, per provenienza (io sono fiorentino), per storia artistica e biografica. Mi sono approcciato a Luca Cupiello come ad un qualsiasi altro personaggio, ‘come se fosse – e cito Latella – un Checov’. L’intento di Antonio era di creare un padre fuori luogo, incapace di gestire quella famiglia. C’è stata poi da parte sua una richiesta precisa: che il napoletano fosse letto e non detto. Il che sarebbe invece venuto automatico dopo mesi di repliche». Ma d’altronde, compito degli attori non è illudere, “camuffare”. Sul tema, interviene di nuovo Villano: «Il teatro post-drammatico non lascia spazio all’immedesimazione. Il teatro è un gioco: un po’ lo fai, un po’ lo racconti, ma bisogna essere onesti con il pubblico, senza ingannarlo». L’attore persiste, insomma, sulla superficie del personaggio.

Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti
Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti

Checché se ne dica, comunque lo si voglia definire, il Natale latelliano – come già l’Arlecchino –  rappresenta una svolta notevoledeo gratias – in questa impasse storico-teatrale di inizio millennio, che troppo spesso si avventura su sentieri manieristici. E di tale neo-manierismo (dal gelo del 1985 in avanti) lo spettacolo in questione è acme e nemesi. Un Cupiello dunque filologicamente deferente. Non stravolto, né calpestato. Semplicemente ri-formato. Ne tradisce (qui intendi “sovverte”) l’estetica, ma ne tradisce (“consegna”) il senso. Perché solo con una “bella  (eccezion fatta per alcune lungaggini finali) infedele” questo testo può finalmente essere attraversato, capito e restituito alla propria grandezza (parafraso qui Manetti): «Per accettare un’eredità bisogna preventivamente constatare che il padre sia morto».

Plauso (non di rito) a tutti gli interpreti, “artefici magici” di un esempio incantevole di attore-testimone-interlocutore-restitutore. Di un attore, insomma, traduttore. Trad-attori.

Gli insoddisfatti si diano pace.

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
drammaturgia Linda Dalisi
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino
luci Simone De Angelis
musiche Franco Visioli
prodotto da Teatro di Roma – Teatro Nazionale