“STRANI OGGI” COME IERI

La ricerca della felicità è un diritto. E non ci sono gabbie, confini, o oceani che possano fermare il desiderio di vivere la propria vita.”

Dopo il debutto un anno fa al Teatro Gobetti e una tournée di successo, Strani Oggi torna a casa, al Teatro BellARTE di Torino.

Partendo da cinquanta interviste a italiani che vivono all’estero e a stranieri che cercano di costruirsi un futuro in Italia, la compagnia Tedacà porta in scena le storie di Miriam, Joseph, Nicola, Sofia e Giacomo, cinque giovani che si sono dovuti scontrare con la parola “crisi”. Tutto ruota intorno alle loro aspettative e ai loro sogni, ma anche ai loro timori. Quanto è difficile abbandonare le certezze, le abitudini, la famiglia, per inseguire qualcosa che non sai nemmeno dove cercare? Lasciare il tuo paese per fare fortuna, senza la certezza di trovarla. Ma ormai sei arrivato a pensare che dovunque è meglio di qui.

Gli attori sono già in scena mentre il pubblico prende posto. Di spalle, seduti su delle sedie colorate, che fanno parte dei pochi oggetti di scena. Poi le luci si spengono, il silenzio scende, e le storie accadono.

Lo spettacolo si apre col monologo conclusivo di Strani Ieri, portato in scena dalla compagnia nel 2011. Si comincia quindi con le storie dei padri, spesso emigrati dal Sud Italia, che hanno investito sui loro figli forze e speranze di possibilità migliori delle loro. E questo non può che rendere ancora più difficile per i protagonisti la scelta di partire, consapevoli di voler andare altrove per non fare il lavoro dei loro genitori.

Ma più si avanza, più le storie personali diventano fonti per riflessioni universali. Perché qualcuno può viaggiare in cerca di opportunità e qualcun altro no? E così lo sguardo si allarga e noi possiamo vedere la figura del migrante in tutte le sue sfumature.

Ciò che più rapisce però è il contesto in cui queste storie si svolgono. Pochissima scenografia, ben studiata e utile allo scopo. Una miriade di colori. E tanta, tanta musica, dalla classica alla dance. Una musica che porta con sé movimento, a volte molto dinamico ma sempre magistralmente controllato. La quarta parete viene quasi del tutto abbattuta; perché i personaggi parlano a noi per parlare di noi.

La dimensione reale e quella immaginaria si mescolano; passato e presente, ricordi e speranze si uniscono nel qui e ora.

Un torrente inarrestabile di parole e di voci interrotte solo per dare spazio alle note musicali, o a silenzi che parlano ancora più forte. La struttura delle battute in alcuni momenti lascia ampi margini di improvvisazione, che rendono lo spettacolo sempre diverso, ma che sono sempre riportati negli argini di quel torrente impetuoso. I cinque attori si muovono e si incastrano in questo caos perfettamente organizzato.

Una parola per descriverlo: sorprendente. Ogni momento ha qualcosa di nuovo e di assolutamente inaspettato. La componente ironica è molto forte, ma quando necessario è capace di lasciare spazio a momenti di riflessione profondi e forti che inchiodano lo spettatore alla sedia. Un po’ come si sentono i protagonisti. Inchiodati. Perché ormai nel loro paese hanno messo radici, e le radici sono importanti. Ma come dice Giacomo: “Noi non abbiamo le radici. Abbiamo le gambe”.

Ideazione e drammaturgia: Simone Schinocca, Livio Taddeo
Con: Valentina Aicardi, Francesca Cassottana, Andrea Fazzari, Federico Giani, Mauro Parrinello

Regia: Simone Schinocca
Assistente alla regia: Claudia Cotza
Scene: Sara Brigatti
Costumi: Agostino Porchietto
Musiche e arrangiamenti: Maurizio Lobina e Giorgio Mirto

Produzione Tedacà

Il Balletto Teatro di Torino con Chopin, “In Chopin”

Dove la musica si fa corpo e ogni spasmo di fibra muscolare si riverbera nell’aria e nella memoria come una nota dolce, ecco lì sta l’essenza di ‘In Chopin’.

Il Balletto Teatro di Torino nella sua tourneé ha toccato anche il Teatro Giacometti di Novi Ligure, il 24 gennaio2017,  portando la sua poetica davanti a un pubblico, se non numerosissimo, attento e coinvolto.

Uno spettacolo che parla di amore, quello firmato dal giovane coreografo Marco De Alteriis, ma anche di relazioni in senso più ampio, di desiderio di scoprire gli altri e prima ancora se stessi, di solitudine.  E lo fa in maniera delicata, attraverso immagini più che narrazioni, lasciando come vero protagonista un corpo che si sostituisce alla parola, planando nello spazio etereo creato da quel compositore che, citando Daniel Barenboim, sa “piangere e ridere allo stesso tempo, nei grandi come nei piccoli pezzi”.

In scena si entra con una rottura: lontano dall’immaginario di chiunque si approcci a vedere un brano danzato di Chopin, lo spettatore è accolto da una sedia, pesante, moderna, verde, illuminata da un cono di luce che circoscrive lo spazio limitandolo alle figure disegnate dalla danzatrice che vi è seduta.  Un raffinato virtuosismo del coreografo israeliano Itzik Galili, su musica di John Cage, che unito al talento dell’unica performer porta in scena tutte le contraddizioni e le metamorfosi dell’essere femminile. Al centro dello spettacolo brilla un altro pezzo firmato dal prestigioso coreografo: ‘Fragile’. Un passo a due intimo, essenziale, astratto, che richiama le incertezze e le paure dell’uomo, superabili grazie al contatto e alla forza insita nella donna.

Lo spettacolo è un susseguirsi di quadri diversi che vedono l’alternarsi di passi a due, assoli e pezzi danzati da tutti e cinque i danzatori della compagnia: Wilma Puentes Linares, Julia Rauch, Viola Scaglione, Axier Iriarte, Agustin Martinez.

L’uso sapiente di luci, ombre e fumo crea immagini evocative, che distanziano del tutto l’azione coreutica dalla realtà, confinandola in una dimensione onirica, di non-luogo. Ogni dipinto alla fine si chiude in se stesso con un buio che mette termine alla suggestione, in attesa della successiva: come se si venisse svegliati ogni volta, strappati da un sogno e con la frustrazione di averlo già perso, mentre si applaude.

Unico filo conduttore resta quindi l’indagine profonda di questi rapporti tra anime, più che tra persone. Anime che si cercano e si fuggono, che si stringono in abbracci per poi lasciarsi cadere, o che si aggrappano con uno sguardo, senza toccarsi mai. Come le mani dei danzatori, che, morbide e se vogliamo ‘secondarie’ nella partitura coreografica tracciata da De Alteriis, attirano su di loro l’attenzione nei momenti di contatto.

La centralità del corpo, con uno stile dichiarato fatto di movimenti ampi, frequenti passaggi a terra e prese, richiede una preparazione tecnica, fisica e di ascolto dell’altro, che tutti i danzatori dimostrano largamente di possedere, portando in secondo piano a volte il concept, per lasciarsi ammirare in passaggi di palpabile bellezza.

Un tema non nuovo, in sintesi, con musiche non nuove, che forse proprio per questo mettono in risalto il principale merito di De Alteriis e del BTT: quello di riuscire a tratti a creare una ‘musica visiva’. Una melodia suonata dal movimento, che non vuole limitarsi ad accompagnare le note, ma pretende di coincidere con esse.

Suggestioni a discapito della narrazione insomma; corpo a discapito di un’espressività facciale ricercata che però, quando c’è, è  autentica. Il tutto unito ad un interessante scelta dei costumi che, se da un lato sottolinea gli stacchi tra i quadri, dall’altro ne amplifica il senso emotivo, come nell’apoteosi del colore rosso in ‘Maestoso’, coreografia che vede in scena l’intera compagnia e che chiude lo spettacolo.

 

Chiara Borghini

 

Balletto Teatro di Torino

Coreografia MARCO DE ALTERIIS

Musiche FREDERIC CHOPIN

Costumi MARIA TERESA GRILLI

Luci DAVIDE RIGODANZA

Incursioni musicali CONCETTA CUCCHIARELLI

Il lavoro di vivere: “più facile a dirsi che a farsi!”

Sono le due di notte, le tende delle finestre oscurano la stanza matrimoniale dei due coniugi Yona e Leviva Popoch. Al centro di quest’ultima: un letto, sottosopra e disfatto, quasi “sciupato”, metafora senile dell’individuo.

Dormono, quando improvvisamente l’uomo viene colto da un malore al cuore: è una meditazione sul “male di vivere” -molto simile ai due protagonisti calviniani de La vita difficile –  è il bruciore del rimpianto di cose mai fatte, è il desiderio impossibile di tornare indietro negli anni per intraprendere un nuovo ciclo di vita; ma è anche la bramosia di rinascita; infatti, Yona è come una fenice alla quale hanno tagliato le ali, ed ora sembra deciso a riprendersele. Arrabbiato e insoddisfatto, quest’ultimo, decide di destare la consorte dal suo sonno profondo e quieto, ribaltandola letteralmente giù dal materasso, buttandola per terra senza alcuna remora, come si farebbe con un sacco dell’immondizia, per poi, cinicamente, chiederle: “Perché sto con te, Leviva?”

Ed è proprio in questa stanza- che pare un quadro dai colori ormai sbiaditi a causa del tempo- che ha inizio una lunga e logorante guerra di trincea che vede l’alternarsi di ragionamenti filosofici, di insulti ironici e di divertenti sfottò; la rabbia viene “vomitata” l’una addosso all’altro, per sfociare, infine, in violenti e sarcastici atti carnali che ricordano tanto quelli di Philip Roth.

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“Guardatevi sembrate due cani rabbiosi” dice l’impertinente amico Gunkel, osservando la coppia. Gunkel è giunto nella stanza forse perché in cerca di un’aspirina contro il mal di testa, o forse a causa della sua sofferenza scaturita dalla solitudine, in cerca di un po’ di compagnia contro cui inveire. Così, questi due esseri umani mutati in bestie, sprecano parole su parole senza mai agire veramente. Sono inetti di fronte ai loro stessi desideri!

Yona ha preparato la valigia, si è vestito, ha indosso persino una cravatta sopra il suo pigiama preferito, è desideroso di ricostruirsi una vita e perché no, di trovare un nuovo “culo sodo” che sostituisca quella flaccido della moglie. È già in viaggio… sì, ma con la mente, di certo non fisicamente: i suoi piedi rimarranno, infatti, radicati in quella stanza “finché morte non li separi”! La moglie inizialmente inscena, in modo astuto, e pur di non perdere il suo compagno di vita, un gioco di adulazione verso il marito: si offre completamente a lui, inginocchiandosi al suo cospetto, quasi fosse una madonna vergine, per poi trasformarsi in un giannizzero disperato, che recluta il marito, affinché combatta al suo fianco quella cruda ed estenuante guerra di vecchiaia e di morte, che altro non è che il lavoro di vivere.

L’uomo sembra finalmente aver messo da parte la rabbia accecante, per rendersi conto che, in fondo, andare via di casa all’età di cinquant’anni non è poi una grande idea, che in fin dei conti non gli conviene poi tanto rinunciare alle comodità quotidiane, e dunque, a un bel frigorifero pieno, al piatto caldo, e a tutte quelle abitudini che solo trascorrendo una vita insieme, l’altra persona può arrivare a conoscere: dalla quantità di sale per condire le varie pietanze, alla quantità di zucchero da sciogliere nel caffè!

Andrée Ruth Shammah ci regala una regia d’effetto, quasi cinematografica e curata nell’estremo dettaglio. Carlo Cecchi che interpreta il burbero marito, è formidabile nella sua recitazione “stanca”, trascinata e a tratti persino “biasciacata”; estremamente vera la recitazione di Fulvia Carotenuto (Leviva) e Massimo Loreto (Gunkel); merito anche del testo di Hanoch Levin, israeliano scomparso prematuramente -purtroppo poco conosciuto in Italia- che mescolando una freddezza tipica dello straniamento brechtiano ad una violenza già cara al teatro sperimentale del secondo Novecento, ci pone di fronte a dei protagonisti che sono degli anti-eroi per eccellenza, inetti soldati che combattono piccole grandi battaglie quotidiane, ai quali non resta che lamentarsi e crogiolarsi  nei loro fallimenti.

Il lavoro di vivere è una piccola grande analisi sul trionfo delle parole sulle azioni, che spesso caratterizzano la vita di noi fragili esseri umani; è una amara celebrazione dell’abitudine sulla forza vitale, e dunque sulla nostra incapacità di agire, rimanendo stigmatizzati e incatenati ad una situazione che sappiamo peggiorare sempre di più…dunque non ci resta che lamentarci, continuamente lamentarci, perché in fondo ci piace e ci fa comodo così.

Un testo sulla difficoltà e sulla pesantezza di vivere, che vale la pena di essere visto, perché tutti noi, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo sentito o sentiremo, di non essere più in grado di andare avanti.

 

Martina Di Nolfo

 

Di Hanoch Levin

Uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah

Con:

Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto

Musiche Michele Tadini

Teatro Franco Parenti/ Marche Teatro

Lo specchio di Edith

Non si è mai vista una bella donna che non facesse smorfie davanti a uno specchio (William Shakespeare)


ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

Ogni specchio – si sa – è in grado di trattenere frazioni microscopiche del nostro animo: sguardi, smorfie, corrucci, pensieri. Ma che cosa ci attrae di più? L’epifania virtuale di noi stessi (che giunge puntuale, ad ogni successiva riflessione), oppure l’oggetto in sé, quel vetro “narciso” che ci dischiude mondi bislacchi, templi di illusioni rovesciate?

E più ci avviciniamo alla superficie del miraglio, più ci chiudiamo in noi stessi, più smarriamo quel senno che ci rende “ordinari”. Che ci rende, cioè, parte di un mondo “civilizzato”, fatto di altri. Ma nel podere selvaggio e viscerale di Big e Little Edie non c’è spazio per nessun altro. Qualsiasi evasione, qualsiasi pretesa (e pretendente), qualsiasi tentativo di fuga debbono essere arginati. Al di là dei loro corpi – l’uno più spigoloso e teso, l’altro più morbido e fanciullesco –  non c’è (più) nessuno: resta soltanto la “casa romita”. Che le incornicia, come una pala d’altare acuminata. E una ringhiera, che le imprigiona.

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ph. Luigi Ceccon

C’è un breve istante, nello spettacolo di Chiara Cardea ed Elena Serra, in cui la giovane Edith si guarda allo specchio. Spalle al pubblico, Madre di fronte. Entrambe sono ferme, protette dalle asfittiche mura di Grey Gardens. È solo un attimo, sia pur di intensa ambiguità: chi è, davvero, la bella del (quondam) reame che appare sull’orlo traslucido di quella delicata suppellettile? È la donna dai soavi turbanti o quella dalla pungente lascivia, che ne è – in fondo – doppione e contrario?

L’allestimento – che rievoca la relazione morbosa delle parenti reiette di Jackie O’, Edith Ewing Bouvier Beale e figlia  –  trasuda di decadentismo, con un’ottima costruzione delle cromie e della dimensione ottica. Di fine pregio è la palafitta mobile al centro del palco (realizzata da Jacopo Valsania), di color azzurro cielo: la porta, che sbatte fragorosamente ad ogni passaggio delle protagoniste, scandisce il ritmo della rappresentazione. L’abitazione viene presentata al pubblico sotto vari punti di vista, o meglio inquadrata da varie angolature (forse in onore degli antichi “natali cinematografici” di questo plot).

I costumi, cavati da due belle boutique torinesi e curati da Anna Filosa, hanno un’importanza strutturale nell’economia del racconto: essi rimangono tali per l’intero svolgimento dell’azione; restano cioè costumi di scena, conservando la propria essenza mimetica senza mai degradarsi in vestiti dozzinali. Tra pizzi rococò e vestaglie da belle epoque, le due Edie strisciano, ora sinuose ora scomposte, nei propri simulacri di tessuto. La giovane li sfoggia come ultimo lacerto di una carriera declinata (e forse mai cominciata davvero), l’anziana li sfrutta per deprezzare e “denudare” l’high society statunitense che, di quegli abiti, aveva fatto uno status symbol.

foto EDITH
ph. Luigi Ceccon

«Cercavamo un testo capace di indagare la coppia femminile», racconta Elena Serra/Big Edie, spiegando la genesi di questo lavoro. «Volevamo però al tempo stesso ampliare il nostro orizzonte di indagine, oltre il panorama drammaturgico tradizionale: da teatranti, infatti, pecchiamo spesso di auto-referenzialità. Parliamo tra di noi e con il nostro mondo di riferimento. Ma che cosa, chi c’è al di là?».

Dopo un infruttuoso avvio con le Serve di Genet, arriva l’illuminazione: «Un giorno, un amico ci mostrò Grey Gardens, docufilm del ’75 di Albert e David Maysles sulla vita delle Bouvier Beale, zia e cugina di Jacqueline Kennedy. Fu amore a prima vista: rimasi folgorata dalla naturalezza con cui queste due donne gestivano la propria femminilità. Non si limitavano a subire il proprio corpo, bensì lo ponevano continuamente in scena. Recuperare un rapporto sincero con la propria fisicità è molto complesso, soprattutto per le giovani attrici: me ne rendo conto da tempo, lavorando al fianco di Valter Malosti in Accademia».

Due donne; sociopatia q.b.; rapporto atipico con la drammaturgia. Gli ingredienti necessari per un delicato bignè ci sono tutti. Per quanto concerne l’aspetto testuale, Edith nasce – come detto – da una pellicola, che al di là della conduzione “in presa diretta”, resta pur sempre un film, fatto perciò di montaggi e discorsi sconnessi. Le due attrici-registe hanno così proceduto dapprima con l’estrapolazione di segmenti dialogici, traducendoli in italiano, dopodiché li hanno riordinati tematicamente, privilegiando tre nuclei diegetici: la vita di Little Edie e il desiderio di tornare in città, il passato della famiglia (e dei suoi uomini, presenti solo a mo’ di spettri vocali) e infine il rapporto con la casa. Non mancano le interpolazioni, significative per la biografia artistica delle due attrici: fra gli altri, il “Domani, e domani, e poi domani” di Macbeth.

Il progetto, nel complesso assai pregevole, merita di essere segnalato anche per l’attento studio storico e psicologico condotto dalle interpreti/outsiders: oltre all’obbligata full immersion fra i libri di storia americana, le due Edith non hanno trascurato l’allestimento di eventi collaterali, utili – spiega la Serra – «per sperimentare la vita del patriziato: abbiamo così ricostruito al Circolo dei lettori (grazie a Terre Spezzate, leader nella creazione di GdR) il party di debutto di Little Edie in società. Tre ore per provare a immaginare che cosa avessero perso».

ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

L’abitazione, alla fine, urta la protagonista, distesa sul palco come morta. Si compie così quel profetare antico: “vanitas vanitatum et omnia vanitas”. E Yorick – lo specchietto a mano, per intenderci – resta lì sepolto, tra procioni e bellettame.

 

EDITH
di e con Chiara Cardea ed Elena Serra
voci off Michele Di Mauro, Vittorio Camarota e Matteo Baiardi
regia Elena Serra
progetto sonoro Alessio Foglia
scena e luci Jacopo Valsania
costumi e trucco Anna Filosa
assistente alla regia Davide Barbato
direzione tecnica Loris Spanu
artwork Donato Sansone aka Donny Sansuca | foto Luigi Ceccon
produzione Serra/Cardea | produzione esecutiva Teatro della Caduta
coordinamento e organizzazione Davide Barbato | ufficio stampa Giulia Taglienti
con il sostegno di Renaise – abiti d’Altra moda | Tiramisù alle Fragole | Lumeria
progetto realizzato in collaborazione con Terre Spezzate | Arca Studios | il Circolo dei lettori | Il Piccolo Cinema
prima nazionale 14 gennaio 2016 (Torino, Teatro Gobetti)

Elettra: una vendetta al sapore di libertà

La tragedia di Elettra viene portata in scena da Giuliano Scarpinato, attore e regista della scuola del Teatro Stabile di Torino. Ma non è strettamente la tragedia greca, comunemente nota a noi spettatori e lettori dei classici greci, Eschilo, Sofocle o Euripide. È una tragedia che si protrae nel tempo, un mito che passa per diverse rielaborazioni e rimane pregno di esse, fino a raggiungere la penna del drammaturgo viennese Hugo Von Hofmannsthal (1874-1929). Una rilettura in chiave moderna, non dimentica delle precedenti. Messa in scena per la prima volta il 30 ottobre 1903 al Kleines Theater di Berlino, per la regia di Max Reinhardt (1873-1943). Dedicata a Eleonora Duse, che però non recitò mai il ruolo, Von Hofmannsthal struttura la tragedia in un atto unico, in modo tale che la vicenda risulti concentrata in poco tempo, con l’assillante paura, da una parte, e la fretta di una vendetta da compiere al più presto dall’altra. Il drammaturgo incentra tutta la vicenda sulla figura di Elettra, una figura animale, una belva che rantola e si nasconde per casa, non più figura umana ormai, delirante e pazza, ma conscia dell’orrore e del sangue marcio di quella casa; l’unica che non vuole e non può rimanere indifferente davanti al padre ucciso, umiliata, imprigionata nell’ambiente domestico, la cui ostilità l’ha resa cane. Il drammaturgo, partendo dalla psicologia con accenti freudiani dei personaggi, arriva a scandagliare la psicologia e l’animo degli uomini in una chiave moderna. Sarà da qui, da questa analisi della psicologia, da questa caratterizzazione che muove il lavoro di Giuliano Scarpinato. Il regista si concentra sui personaggi e sui loro corpi, dando una maggiore fisicità, innestando tutto ciò dentro le loro pulsioni, odio sì, ma anche eros.

Lo spettacolo inizia con il sipario socchiuso. Si intravede un tavolo, presumibilmente la sala da pranzo, e alcune serve che girano intorno ad esso e poi al di fuori della nostra visuale in cerca di Elettra, chiamandola a gran voce. La paura che Elettra scappi da quella prigione è molto forte. Il sipario si apre del tutto e troviamo questo tavolone rettangolare alle cui estremità, seduti, ci sono Egisto e Clitemnestra che cenano. A bordo tavolo, in posizione centrale, tre serve ascoltano e aspettano le richieste dei padroni. Sul lato destro del palcoscenico Aio è seduto su una sedia con una chitarra in mano. ELETTRA_nuove.1Ma uno sguardo più attento va rivolto alla scenografia e al suo significato. Una tavola rettangolare lunga, come si è detto, con tovaglia bianca e tutt’intorno delle tende bianche, che lasciano intravedere l’ombra della figura che passa dietro. Un bianco dai cui traspare un’atmosfera quasi surreale, di sogno, di pace in contrasto con il sangue e l’odio presenti in quella casa, un luogo che si astrae da tutto il resto, chiuso da queste tende candide. La scelta della sala da pranzo è significativa: essa è un luogo di convivialità, luogo dove possono capitare tutti e quindi non luogo segreto, privato, dove si pianifica la morte di qualcuno. Elettra a un certo punto parlando a sua sorella, Crisotemi, quando quest’ultima rammenta che le porte sono chiuse, le consiglia di non fidarsi vivamente di questa casa e delle porte, perché dietro si può celare qualche imprevisto, qualcuno che origlia, persino i muri non sono sicuri in una casa che ha tradito il suo padrone. Un certo rimando ai drammi di Ibsen, dove le porte assumono una notevole importanza. Qui la sala da pranzo è un luogo quasi a sé stante rispetto alla casa, riparato dalle insidie dell’animo dei personaggi, una specie di rifugio fino a quando Elettra non parla con la madre, e qui svanisce l’aura da luogo incontaminato.

Egisto, qui con il corpo e la voce di Lorenzo Bartoli, è il classico usurpatore, crudele e violento, tiranno di una casa che non è sua, ma che può fare tutto quello che vuole dato che ha il benestare di Clitemnestra. Una figura goffa e spesso sciocca, che non vede oltre quello che ha e la situazione agiata in cui si trova e deve mantenere. Lo si capisce dalle prime battute, quando  pronuncia tre freddure che non fanno ridere, ma essendo lui padrone, figura maschile dominante, ha il potere di far ridere gli altri e tutti ridono, forzatamente, ma ridono, dalle serve a Clitemnestra, per di più potendo sbeffeggiare anche il povero Aio, indotto a cantare per le gozzoviglie e le bevute dei due padroni. Dapprincipio il giusto amante, la riserva ad un marito via da più di dieci anni per la Guerra, a tal punto da essere infatuata, imprigionata dai suoi voleri fino a cambiarlo come figura dominante della casa con il marito, poi ucciso in bagno. Il maschile che vince e infatua il femminile.

Finite le gozzoviglie, le serve ormai prolungamenti viventi dei voleri dei padroni, non indietreggiano o si pongono domande vedendo l’orrore della condizione in cui è ridotta Elettra. Hanno paura del mostro, ma devono controllarlo e tenerlo prigioniero per i voleri dei padroni. Elettra, interpretata formidabilmente ed energicamente da Giulia Rupi, è una belva, uno sciacallo che si nasconde e viene alla luce a fine banchetto, cercando rimasugli di cibo. Quasi una figura pazza che cerca disperatamente in una pozza o nel cielo la figura del padre, lo chiama ma lui non c’è più. Lei non è dimentica di ciò che è accaduto, il ricordo le fa riaffiorare la ragione, una ragione di vendetta nei confronti di una madre che ha ucciso e infangato il proprio marito. Sente profumo di vendetta e deve compierla ora, ma da sola non riesce e ha bisogno di un aiuto. Lo cerca nella sorella, che è però troppo spaventata: ha orrore della madre ma pensa solo a delle possibili nozze per uscire dalla casa prigione. L’aiuto Elettra lo trova invece in un avventuriero, il fratello Oreste, dapprima non riconosciuto, che torna per compiere la vedetta. Lo scontro non si gioca con pugnali e sangue, ma a parole, che colpiscono più di un’arma. Clitemnestra, qui Elena Aimone,  acconsente alla figlia Elettra di parlare. Ha bisogno di parlare, perché con il suo amante non può, buono solo per le voglie carnali; ha bisogno di ascoltare una figlia che seppur ritrosa e belva, è sempre la propria figlia. Ha bisogno di perdono e lo spera anche quando la figlia le dice che per placare tutto ci vuole il sacrificio suo, della madre. Elettra da belva ritrosa la ascolta, ma ciò le fa traboccare l’ardore di vendetta, che da lì a poco si consumerà. Finalmente libera e non più sotto le angherie dei padroni, non più prigioniera della vendetta e del ricordo del sangue del padre, Elettra sentendo voci melodiche può raggiungerle e si libera definitivamente. Una morte forse riduttiva, ma consona ad uno spirito prigioniero che raggiunge la sua pace interiore.

Il regista ci vuole mostrare come questo dramma non sia solo un dramma di vendetta, odio, ma anche un dramma dell’eros. Innanzitutto eros tra Egisto e Clitemnestra, la passione non lecita, ridondante, che sfocia in camera da letto nel programmare l’assassinio di Elettra. E poi tra Oreste ed Elettra: l’idea di una vendetta che si può compiere, il fratello disperatamente creduto morto, il fratello eroe pronto a salvare la sorella, il fratello re, re Oreste, tutte queste idee spingono Elettra all’attrazione per il fratello. Elettra da belva si trasforma in seduttrice e inganna Egisto, che si lascia influenzare dal suo appetito di carne, reso cieco dal sesso, nonostante sia l’amante della madre della ragazza.

Rimane da aggiungere che il tempo che scorre, la vendetta inesorabile sono scandite ad intervalli, da spezzoni cinematografici che ricostruiscono una specie di thriller.

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È un dramma dove il maschile trionfa sempre sul femminile. Da un’età arcaica misogina, dove è l’uomo che comanda, ad un età moderna, dove poco è cambiato. Si può persino pensare che sia un dramma attuale, magari non con vicende uguali, ma pur sempre un mondo di drammi familiari, di spargimenti di sangue, donne segregate. Ma anche nel piccolo dove a volte può apparire la figura del genitore tiranno e della prigionia del figlio, ad un assillante supervisione, per diverse ragioni, che poi porta ad una inevitabile ribellione e ad un sentirsi liberi in qualcos’altro.

Una dramma sempre attuale, una dramma di libertà, psicologica e fisica.

Emanuele Biganzoli

Orlando, quelle primavere che cambiano la vita

Ancora una volta Silvia Battaglio ricopre un ruolo importante all’interno del panorama teatrale torinese: dopo lo spettacolo Ofelia andato in scena al Tangram Teatro, la ritroviamo al Teatro Gobetti all’interno della rassegna “Il Cielo su Torino” il 3 e 4 gennaio con Orlando. Le primavere. Di questo spettacolo cura la regia, le coreografie e la drammaturgia, oltre ovviamente a recitare insieme a Lorenzo Paladini. L’attore interpreta Orlando durante i suoi primi trent’anni, quando è un uomo e deve vivere come un uomo, anche se per sua stessa ammissione non sa bene come fare. Questo Orlando, il primo Orlando, non riesce infatti a trovare una sintesi tra quello che sente di essere veramente e quello che il mondo si aspetta che lui sia, in quanto uomo. Il primo Orlando è confuso, impulsivo, appassionato, si i01_orlando_ph-roberta-saviannnamora a prima vista della bella Sasha, quasi come un bambino viene attratto da un giocattolo nuovo. Gli si spezza il cuore quando lei non si presenterà al loro primo e unico appuntamento, così come quando la poesia che tenta di scrivere non verrà apprezzata, e deciderà allora di andare in guerra. Orlando innamorato, Orlando poeta, Orlando soldato: nessuno stato d’animo e nessun luogo riesce a fargli capire chi è sul serio, nessun vestito gli calza veramente bene. Fino a quando un giorno, improvvisamente, dopo i suoi primi trent’anni di vita, Orlando si risveglia donna. E il vestito che questa volta indossa le piace, la fa sentire finalmente a suo agio, le fa venire voglia di danzare. Come se questo cambiamento ancora non bastasse, Orlando non solo veste meravigliosamente i panni di una donna ma decide di unirsi a un gruppo di zingari, di imparare da loro quello che la vita fino a quel momento vissuta non ha saputo insegnarle. Libera da tutto ciò che l’aveva costretta prima a un’esistenza che non era realmente la sua, questo straordinario personaggio attraverserà, in un arco temporale di ben tre secoli, tutte le sue primavere, fino a quando ritornerà a casa sua consapevole della propria vera natura.

La parola che si potrebbe utilizzare per descrivere questo spettacolo è suggestione. Tutto sembra sospeso, tutto rimane in attesa che qualcosa di nuovo accada. Il pubblico resta immobile e trattiene il respiro mentre cerca di capire cosa si nasconde dietro a un buio debolmente illuminato da una luce soffusa o dietro a un silenzio improvviso, dietro a una danza che comincia e chissà dove porterà. Le luci appese a questi cavi che pendono dal soffitto sono meravigliose: conferiscono a tutto il palco un atmosfera quasi magica e rituale. Illuminano le figure in modo singolare e poetico, e dalla sala si ha la sensazione di guardare verso un cielo stellato. È quasi come se ci fosse un terzo personaggio in scena, e i due protagonisti interagiscono continuamente con lui rendendolo protagonista a sua volta.

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Quello che colpisce sempre degli spettacoli di Silvia Battaglio è la magia che quest’artista fa nascere sul palco giocando con la potenza espressiva che il corpo emana quando assume forme e sfumature diverse da ciò che siamo abituati a vedere. Nulla è quotidiano o didascalico. La sua figura slanciata, modellata da anni di danza, si impone sulla scena fin dal primo istante di apparizione, quando tutto il pubblico allunga il collo per riuscire a vederla: lei si trova al lato della scena rannicchiata per terra, immersa nel buio che ancora avvolge palco e sala, il profilo del corpo debolmente illuminato da una lampada appesa a un filo sopra di lei. L’aria intorno è immobile mentre comincia a respirare. Un respiro soltanto, un microscopico movimento, e tutti gli occhi sono incollati su di lei. Comincia la sua danza leggera che assomiglia a una specie di risveglio, lento rituale, fino a quando non si anima del tutto e comincia a giocare con la sua lampada, a danzare insieme a lei. E in quello spazio piccolo e marginale si focalizza tutta l’attenzione e si concentra tutta l’energia dell’artista. Con il suo corpo quasi spoglio, neutro, con la sola forza dei muscoli e la fluidità di morbidi movimenti, Silvia crea un mondo intorno a sé, mentre le immagini cominciano a venire fuori da questa sua danza che la accompagna sempre, in ogni momento dello spettacolo. Questa potenza, questa energia che caratterizza il suo lavoro le rende possibile servirsi di pochissimi elementi a loro volta molto potenti, sistemati all’interno di una scenografia assolutamente minimale. Stupisce quasi come non abbia bisogno praticamente di nulla per creare un intero spettacolo, per raccontare la sua storia. E la bravura dell’artista non sta solo nel non aver bisogno di molto per fare arte, ma anche nell’astuzia e nella fantasia che impiega per utilizzare questi pochi elementi presenti in scena. Così oggetti semplici e di uso comune vengono caricati di significati e prendono vita, diventano qualsiasi cosa possa essere utile alla narrazione. Delle lampadine diventano specchi, e poi ancora stelle del cielo, o compagni con cui parlare; un fazzoletto profumato diventa un dono per omaggiare la propria amata e poi una poesia; una collana di perle diventa il simbolo di un legame che rimane dentro a un mutamento.

Orlando. Le primavere

liberamente ispirato a Orlando di Virginia Woolf

regia, coreografie e drammaturgia Silvia Battaglio

con Silvia Battaglio e Lorenzo Paladini

suggestioni musicali Luc Ferrari, Paolo Angeli, Officine Schwartz

disegno luci Massimiliano Bressan

Eleonora Monticone

S.O.S. STORIA DI UN’ ODISSEA PSICOSOMATICA: raffigurazione di sette “Chakra”

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Lo scorso 6 gennaio la compagnia Makiro ha presentato in prima nazionale lo spettacolo S.O.S.  Storia di un’Odissea Psicosomatica, all’interno della terza edizione della rassegna “Il Cielo su Torino”. Lo spettacolo è interpretato dalla giovane artista francese Aurélia Dedieu, con la regia di Giuseppe Vetti. Il debutto del lavoro al Teatro Gobetti non poteva avvenire in un giorno migliore di quello dell’Epifania. S.O.S. Storia di un’Odissea Psicosomatica è un viaggio “allucinante” all’interno del corpo umano; viaggio che  viene compiuto dall’attrice con ironia, alla ricerca dei legami tra biologia ed emozioni,  del collegamento tra fisico e psiche.  Dopo aver accusato un forte mal di pancia, la protagonista si rivolge a un originale medico per una visita: la diagnosi è DISINTERESSE. Si tratterà per lei quindi di decidere se prendere la via della conoscenza o continuare a farsi “spacciare” medicine. Scelta la terapia del dottore e intrapreso il viaggio, tra gag, canzoni e pantomima, conosciamo  sette tra i suoi organi, sette piani di un ascensore che come dice  il medico una volta azionato non si può arrestare,  e che ricordano i sette Chakra principali nell’ induismo grazie anche alla scenografia: una grossa piramide in legno con un occhio in alto e una mezza luna in cima.

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 La prima tappa è l’ intestino, rosso e in fiamme, poi l’ utero, campo dove la vita si riproduce se le “condizioni atmosferiche” lo permettono, lo  stomaco, rilettura dei rapporti di forza nel mondo del lavoroil sistema ormonale, ghiandole che condizionano il funzionamento dell’ organismo, il fegato, simbolo del coraggio, della rabbia  incondizionata e della necessità di “distrarsi” in un contesto bellico continuo, rappresentato  con un  crescendo sorprendente di gag e canzoni anni Sessanta che fanno  riferimento al movimento hippy. Il “piano” più “emotional” è il sesto: Il cuore. Deve fare tutto lui, e la protagonista ce lo dice sulle note della famosa e triste Ne me quitte pas. L’ultimo organo è il cervello: in stile mission impossible  bisogna prepararsi ad affrontarlo per raggiungere finalmente la torre di controllo, l’ “illuminazione”.

Alessandra Pisconti

 

scritto da Aurelia Dedieu e Giuseppe Vetti

Con Aurélia Dedieu Regia di Giuseppe Vetti

Musiche: Elia Pellegrino – Giuseppe Vetti

Grafiche: Housedada

Scenografia: Jacopo Valsania

Tecnica: Luca Carbone

Costumi: Federica Chiappero

Foto-video: Davide Carrari

Produzione Compagnia Makiro in collaborazione con Teatro B. Brecht di Formia, Sala Fenix di Barcellona, Teatro C’Art di Castelfiorentino, CuboTeatro di Torino e Teatro della Caduta di Torino

L’incomunicabilità in scena – Santa Cultura in Vincoli

Piccole cose è uno spettacolo realizzato dalla compagnia Viartisti e messo in scena il 15 dicembre 2016  nella stagione teatrale  Santa Cultura in Vincoli 2016/2017.

img_1248-fAll’interno di una scena quasi spoglia, viene raccontata la storia di una coppia infelice e in procinto di divorziare, usando frammenti dei racconti Gazebo e Piccole cose dello scrittore Raymond Carver. In uno spazio astratto in cui sono collocati pochi oggetti capaci di rimandare all’America descritta da Carver – una bottiglia di whisky, un aeroplano giocattolo, delle giacche di pelle, occhiali da sole e dei fogli sparsi – viene messa in scena la relazione logora di Holly e Duane, una moglie sofferente e un marito che cerca di affrontare le conseguenze del suo tradimento con la cameriera Juanita.

Renato Cravero e Raffaella Tomellini raccontano questa crisi coniugale quasi come se ce la leggessero e al contempo interpretano i due personaggi. Sul palco i due attori si muovono, dialogano e stanno fisicamente uno accanto all’altro riuscendo perfettamente a trasmettere l’incomunicabilità della coppia, la mancanza di contatto e di calore tra i due.  Holly e Duane vivono sulla scena e si mostrano per come sono fatti realmente, scoprono al pubblico i loro pensieri e le loro contraddizioni.

img_1263bDuane incassa i pugni della moglie, accetta ogni colpo perché sa di meritarselo. Se ne meriterebbe altri mille ancora. Averla tradita è stato un errore, ma un errore che probabilmente rifarebbe ancora se ne avesse l’opportunità.
Lui si scatena al ritmo di una musica tecno, ricorrente in alcuni passaggi dello spettacolo, e poco dopo deve tenere testa alle minacce di suicidio della moglie.
La moglie è una donna disillusa, ha solo trent’anni e sognava di invecchiare accanto al marito come quelle coppie anziane
che sembrano ancora innamorate. Lei ha ricevuto una grande delusione e non riesce a superarla, preferisce il divorzio e va incontro anche alla separazione dal figlio che le viene strappato letteralmente dalle mani.

Piccole cose è uno spettacolo che mette in scena la complessità delle relazioni, sempre in equilibrio precario e che possono sfaldarsi al minimo errore. Ci viene raccontata la difficoltà che c’è nella comunicazione tra due persone che passano la vita assieme ma non si conoscono realmente e non vogliono accettare le parti peggiori l’uno dell’altro.

Le parole si mescolano con musiche suggestive, come Fjögur píanó dei Sigur Rós o tracce tecno, offrendo uno spettacolo emotivo e specchio della società e dei rapporti moderni in un luogo particolare come l’ex cimitero di San Pietro in Vincoli.

Andreea Hutanu
Foto realizzate da Martino

PICCOLE COSE
Frammenti dall’opera di Raymond Carver
A cura di Raffaella Tomellini, Renato Cravero, Eleonora Diana
Con Raffaella Tomellini, Renato Cravero
Ispirati dalle fotografie di Diane Arbus
Con la musica di Blur, Christian Fennesz, FKA Twigs, Jon Hassel, Nine Inch Nails, Alva Noto, Radiohead, Sigur Ros, Ruiki Sakamoto
Scene e luci di Eleonora Diana
COMPAGNIA VIARTISTI / TECNOLOGIA FILOSOFICA_MORENICA CANTIERE CANAVESANO

 

 

I ragazzi della Commedia

I RAGAZZI DELLA COMMEDIA

 

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Buio, silenzio, un sipario che si apre, un personaggio che fa il suo ingresso da una quinta e si sistema al centro della scena: un inizio classico, che il pubblico si aspetta di vedere. Quello che non ci si aspetta è l’incredibile naturalezza con cui si verrà letteralmente catapultati all’interno di uno spettacolo scatenato, incalzante, che fin dalle primissime battute ci trascina dentro a una storia fatta di intrecci e lazzi esilaranti che non lasciano un momento di respiro. Si ride cosi tanto da non riuscire a prendere fiato, e ci si lascia andare non a uno, ma ben a due applausi a scena aperta. E’ un sabato sera da ridere a crepapelle quello che ci hanno regalato i giovani attori diplomati del corso accademico 2013-15 della scuola di teatro Sergio Tofano, che sotto la guida esperta del maestro Mauro Piombo mettono in scena La Figlia Contesa: un’ora e dieci di spettacolo ricco di trovate originali ma che mantengono tutti i canoni tipici di questo genere così unico e inconfondibile che è la Commedia dell’Arte.

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I personaggi che prendono vita nel canovaccio sono sei: le due giovani sorelle Euforbia e Consolida, figlie del dottore Graziano Catapunzia, il giovane innamorato Lelio, figlio del commerciante Pantalone, e la Tessitrice, figura originale e duttile. Spetterà a lei il compito di aprire lo spettacolo, e lo farà presentando se stessa come colei che tesse le trame e le storie, che tira le fila del racconto intervenendo nelle vicende dei personaggi, ingarbugliando e intrecciando le loro vite a suo gusto e piacimento per far sì che gli avvenimenti accadano. Fa poi la sua comparsa in scena l’eccentrica famiglia Catapunzia, composta da tre elementi in conflitto tra di loro. Euforbia è una giovane vivace che vuole conoscere il mondo, ma non può perché suo padre il dottor Graziano Catapunzia costringe lei e sua sorella a una vita di prigionia nella casa paterna. Consolida, molto diversa dall’inquieta e disobbediente sorella, è una ragazza tutta casa e chiesa, devota e sottomessa alla volontà del padre che la adora, ma intraprende in segreto una corrispondenza con il bel Lelio, di cui è perdutamente innamorata. Anche Lelio ricambia la bella Consolida, ma è tenuto sotto controllo dal padre Pantalone che sta a capo dell’azienda di famiglia, la “Navigation Corporation and Co.” (“coglion!”, come verrà chiamato il povero Lelio per tutta la commedia), preoccupato di insegnare il mestiere al figlio per poi lasciargli il comando dell’attività. Quando a casa Catapunzia arriva la notizia che Euforbia sarà mandata in convento e Consolida sarà data in sposa al principe della Kamchatka, per soddisfare gli interessi economici dell’avido dottore, si scatena un putiferio: le due sorelle escogitano un piano per sfuggire al loro destino, mentre Lelio viene a conoscenza della sorte di Consolida, poiché il dottor Catapunzia commissiona alla Navigation Corporation and Co. la costruzione della nave che porterà la giovane sposa e il suo principe nella Kamchatka, e anche lui decide di fare qualcosa. È qui che la Tessitrice suggerisce ai giovani che nessuno ha mai visto in faccia questo fantomatico principe, e così Euforbia da una parte (con un marcato accento francese) e Lelio dall’altra (con un altrettanto marcato accento spagnolo) decidono di vestire i panni del nobile e di chiedere la mano di Consolida, e ingannare in questo modo i loro padri. In casa Catapunzia fanno così il loro ingresso ben due principi. Chi di loro sarà quello vero? Tra combattimenti, scontri e pianti, la Tessitrice deciderà di intervenire ancora ma per risolvere la situazione, e a questo punto entra in scena il vero principe della Kamchatka (questa volta sfoggiando un’elegantissima parlata russa). Un lieto fine farà poi calare il sipario sulla scena.

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Tante sono le situazioni tipiche della Commedia, come l’impedimento dei due giovani innamorati che non possono stare insieme, o l’esilarante scena dell’incontro-scontro tra i due vecchi, quante le innovazioni e le trovate originali degli attori, come il padre che dà della vegana alla figlia ribelle mentre lei grida il suo motto “sex, drugs and rock and roll!”.  

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Le meravigliose maschere prendono vita quasi per magia sotto i volti e i corpi degli attori che le portano con sorprendente bravura e destrezza, se si pensa alla loro giovane età. Tutto lo spettacolo è un vortice di battute, lazzi e scontri che non si ferma mai, girando a un ritmo sorprendente che tiene gli occhi e le orecchie del pubblico incollate sul palco dalla prima all’ultima scena. Non manca poi un omaggio al maestro, che siede in sala, da parte degli allievi, così come vuole la tradizione: quando il dottor Catapunzia, per far rinvenire il povero Pantalone svenuto tra le braccia di Lelio, tira fuori una fiaschetta che contiene un grappino proveniente dalla riserva speciale di Mauro Piombo, il teatro viene giù dalle risate.

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La Figlia Contesa

spettacolo maturato nel corso di un seminario intensivo sulla Commedia dell’Arte tenuto dal maestro Mauro Piombo

interpreti:

Matteo Astengo – Lelio

Gaia Baudino Bessone – Consolida

Lucia Ferrero – Euforbia

Matteo Macchia – Pantalone

Riccardo Nazzaroli – dottor Graziano Catapunzia

Marta Ziolla – Tessitrice

direzione artistica Mauro Piombo

lo spettacolo si è svolto sabato 18 dicembre 2016 all’associazione culturale Circolo Bloom, Torino

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Conversando con i sei attori de La Figlia Contesa

Qual è il punto di partenza per costruire uno spettacolo di Commedia dell’Arte; come si inizia a lavorare a un progetto di questo tipo?

LUCIA: avere fantasia!

RICCARDO: si parte da un lavoro puramente didattico. Bisogna prima apprendere la tecnica che sta alla base delle varie maschere, mettersi in gioco con tanta improvvisazione per poi fare un lavoro di limatura.

LUCIA: ogni maschera ha le proprie caratteristiche, e seguendo quelle caratteristiche si crea una storia in cui le varie maschere si incontrano.

GAIA: abbiamo pensato a grandi linee a una storia, a un contenuto, e da lì ci siamo mossi con improvvisazioni che mano a mano sono andate a formare le singole scene.

RICCARDO: o anche da cose che non c’entravano niente, fatte prima di avere questo piccolo canovaccio, che però funzionavano, erano divertenti, e quindi abbiamo cercato di inserirle.

MATTEO M: per prima cosa abbiamo scritto un canovaccio a tavolino e ci siamo accorti che era un errore. Scrivendo prima, le cose non funzionavano, invece la scena ti dava quei giochi che a tavolino non riuscivi a trovare. Non si può partire da un testo, è limitante.

MATTEO A: i canovacci classici infatti consistevano in una storia a grandi linee.

LUCIA: il canovaccio originale dà delle dritte, delle indicazioni di cose che devono succedere, però quelle cose bisogna lavorarle sulle scena.

RICCARDO: è l’azione che muove, non il testo.

MATTEO A: anche perché la linea del canovaccio è molto semplice, quindi se ci si dovesse basare solo su quella che è la trama classica ci sarebbe ben poco da rappresentare.

Quanta libertà si può prendere l’attore quando lavora sulla maschera prima e quando lavora sulle varie scene di interazione dei personaggi dopo? Quanto un attore puo intervenire con la propria personalità sulla maschera e sulle scene e quanto invece deve attenersi a quelli che sono i canoni e le regole che rendono la Commedia dell’Arte quel modo caratteristico e inconfondibile di fare teatro.

GAIA: la personalità dell’attore fa tanto. E’ vero che bisogna stare dentro certi schemi precisi, però poi il gioco viene fuori anche dalle caratteristiche dell’attore stesso. 

LUCIA: già l’abbinamento maschera-attore corrisponde alle caratteristiche che quella maschera avrà.

RICCARDO: inizialmente durante il lavoro didattico c’è meno libertà, perché bisogna lavorare attenendosi a determinati movimenti e linguaggi. Ma una volta che questi movimenti vengono metabolizzati, si apre un’infinita di lazzi! Puoi farci quello che vuoi, aggiungendoci poi anche dei modernismi, che non fanno parte della Commedia dell’Arte classica. Per esempio nel nostro spettacolo ce ne sono alcuni.

MATTEO A: la maschera nel complesso dei movimento, della postura, dell’atteggiamento nei confronti degli altri personaggi e dei contrasti, è sempre quella. I due vecchi andranno sempre in contrasto, i due giovani avranno sempre degli impedimenti, il giovane sarà in conflitto col vecchio e così via. All’interno di questi canoni ben precisi l’attore si può esprimere con un lazzo particolare, con una battuta detta in un modo particolare, con un modernismo particolare. La maschera è l’elemento che modifichi di meno, perché dando a una maschera una connotazione moderna è molto più facile uscire dal canone della maschera vera e propria. C’è libertà, ma deve viaggiare su binari ben precisi.

Quindi siete riusciti a inserire lazzi con riferimenti moderni?

RICCARDO: certo, in questo spettacolo Pantalone è a capo di un’azienda di navi, per esempio, e il suo nome è ditta Navigation Corporation and Co. Rimane quindi il Pantalone mercante, il Pantalone che ha le mani nei soldi, però con una connotazione che nel Cinquecento ovviamente non esisteva.

MATTEO A: o ci sono citazioni, per esempio quando la figlia e il dottore si insultano e lui le dà della vegana.

GAIA: sono elementi piccoli ma utili, perché vengono percepiti dal pubblico di adesso.

C’è un qualcosa che caratterizza questo spettacolo da un qualsiasi altro spettacolo di Commedia dell’Arte? Una firma?

MATTEO A: la figura della Tessitrice e la mancanza degli Zanni.

RICCARDO: la non presenza degli Zanni è una cosa un po’ anomala, perché di solito gli Zanni sono onnipresenti in ogni canovaccio.

LUCIA: la Tessitrice fa da raccordo tra le scene e da introduzione: è un po’ il filo conduttore di tutta la vicenda.

MATTEO A: lo Zanni nella Commedia è proprio per eccellenza il “deus ex machina”, è il personaggio che crea scompiglio ed è lo stesso che, spesso involontariamente, riesce a tirare le fila della situazione. Siamo riusciti a trovare un escamotage, non avendo lo Zanni: usare la Tessitrice, che è esterna alla vicenda, può entrare all’interno della storia come e quando vuole, e si rapporta direttamente con il pubblico.

GAIA: lei lo dichiara anche all’inizio: si presenta come un personaggio che ha la capacità di entrare nella storia e di uscirne a piacimento, tramutandosi in un qualsiasi cosa possa essere utile alla vicenda. Questo non fa parte della Commedia dell’Arte classica.

Perché studiare Commedia dell’Arte? Quanto può essere utile per un attore che intraprende un percorso di studi professionale?

MATTEO A: perché è una palestra di teatro che prepara in una maniera eccellente, secondo me. Non so se questo genere più di altri, ma sicuramente questo genere in modo particolare.

MATTEO M: la sua importanza sta anche nel modo di lavorare. Rispetto ad altre tipologie di lavoro teatrale che possono essere molto più psicologice, qui tutto si basa sulla scena, sul movimento, sull’azione, sul corpo e sulla sua dinamica. E’ il movimento che porta alla parola, ed è il movimento che porta la parola.

MATTEO A: ti permette di lavorare sull’incisività della battuta, perché è il corpo che fa cambiare l’attenzione dello spettatore da un personaggio all’altro.

GAIA: ti rendi conto di come un certo tipo di movimento ti porta a un certo tipo di battuta. Una postura diversa ti porta a un diverso modo di impostazione e di intonazione.

MATTEO A: è molto interessante il superamento della fase iniziale di puro lavoro tecnico per arrivare a una spontaneità dell’attore, sia nei movimenti che nelle battute.

RICCARDO: ti permette anche di lavorare sul rapporto col pubblico, perché si ha spesso la possibilità di dire una battuta rivolgendosi direttamente a esso, guardandolo dritto negli occhi. Bisogna puntare il naso della maschera verso il pubblico e cercare di accalappiarlo. A differenza di altre impostazioni teatrali, che sia prosa o altro, dove la presenza della famosa quarta parete è molto forte e il pubblico sostanzialmente non esiste per chi si trova sulla scena, nella Commedia è esattamente il contrario: è quasi come se il pubblico facesse lo spettacolo, e quando si recita si parte dal esso, dalle sue reazioni, dal suo coinvolgimento. Tutto quello che si fa è per ed è in relazione al pubblico. La Commedia dell’Arte si basa su questo.

Il pubblico del Cinquecento era abituato a esibizioni di questo genere e ne riconosceva ogni aspetto e ogni dettaglio. Al contrario, il pubblico di oggi è molto ignorante verso la Commedia, e spesso si trova disarmato di fronte a certe caratteristiche e attitudini che vengono presentati in scena. Ci sono personaggi o storie che devono essere rappresentate con maggiore chiarezza perché alcuni riferimenti che un tempo erano comuni e conosciuti da tutti oggi sono più distanti e non vengono percepiti, o non avete sentito questa esigenza?

MATTEO M: il pubblico segue, anche grazie forse a quel rapporto diretto di cui parlavamo prima. Il pubblico sente molto lo spettacolo, e sente quando le cose funzionano.

LUCIA: e quando le cose funzionano, arriva il momento di far ingranare lo spettacolo ancora di più. Una volta che lo spettacolo ingrana il ritmo giusto, l’attore avverte proprio una specie di botta e risposta tra la scena e il pubblico. Poi magari la gente non è più abituata a questo tipo di spettacolo e quindi all’inizio può rimanere sorpresa, deve ambientarsi e abituarsi ai ritmi, al linguaggio e soprattutto al contatto diretto con l’attore che recita guardandola negli occhi, ma una volta che entra nel gioco, nell’immaginario, il pubblico si diverte tantissimo.

RICCARDO: tutto sta appunto nell’entrare dentro il gioco teatrale. Noi ovviamente abbiamo curato molto il testo, ma quello che è veramente importante sono i lazzi, le situazioni. Ci sono grandi compagnie di Commedia dell’Arte che vanno in Francia o in Giappone e il pubblico muore dal ridere. Ovviamente non si recita in francese o in giapponese, ma si coinvolge il pubblico con i giochi della scena, che sono chiarissimi. Credo che questa sia la vera magia della Commedia dell’Arte.

MATTEO A: forse ora è addirittura nata un’esigenza da parte del pubblico di rivivere almeno in parte quella partecipazione di cui parlavamo prima, che ora non esiste quasi più. Qui a Torino abbiamo visto come il pubblico si sia quasi stupito di quanto si stesse divertendo e soprattutto di quanto venisse preso in considerazione.

MATTEO M: tutto è dichiaratamente falso, ma questo non impedisce al pubblico di percepirlo come assolutamente vero, ovviamente nel momento in cui le cose sono fatte bene. C’è tanta responsabilità da parte dell’attore.

LUCIA: forse questa è la vera risposta alla domanda di prima, perché studiare Commedia: per ritrovare quella comunicazione col pubblico che il teatro ufficiale ha dimenticato o tende a dimenticare. E’ la volontà di comunicare che ci ha spinti a confrontarci con questo genere piuttosto che con altri.

MATTEO M: in realtà la Commedia dell’Arte può essere anche solo un pretesto per ritrovare questo modo di lavorare, che poi può essere riportato in molti altri generi teatrali con la stessa efficacia. La Commedia dell’Arte è una scuola d’attore, una scuola di recitazione.

recensione e intervista a cura di Eleonora Monticone

fotografie di Andreea Hutanu