INTERVISTA A STEFANO SABELLI: L’ARTE PER VINCERE CONTRO OGNI LIMITE

Ha debuttato in prima nazionale il 29 giugno 2016 (con replica il 30 giugno), in occasione della trentottesima edizione di Asti Teatro, il capolavoro goldoniano LA LOCANDIERA O L’ARTE PER VINCERE nella nuova edizione prodotta dalla Compagnia del LOTO di TEATRIMOLISANI presso il Teatro Giraudi di Asti.

È stata la talentuosa Silvia Gallerano a indossare gli abiti in stile anni ’50 di una Mirandolina che tenta a tutti i costi di intraprendere la via dell’emancipazione. Con lei un asciutto e caustico Claudio Botosso nel ruolo del Cavaliere di Ripafratta e molti altri quali Dario Florio, Eva Sabelli, Giorgio Careccia, Chiara Cavalieri e Andrea Ortis.

La vicenda si svolge nel Delta del Po, in un’atmosfera acquitrinosa e a tratti onirica. Ce ne parla meglio l’eclettico Stefano Sabelli, regista di questa commedia.

Stefano Sabelli BR

 

Sabelli ha creato un riadattamento dello spettacolo di Goldoni, mantenendo fede al titolo originale aggiungendo però un sottotitolo: l’Arte per vincere. Che cosa significa esattamente?

Anzitutto da un lato si tratta di una battuta del monologo pronunciata da Mirandolina – protagonista della commedia – decisa ad andare a sedurre per la prima volta il Cavaliere di Ripafratta, famoso per la sua accesa misoginia, dunque, in questo senso, altro non si intende se non la vittoria del gioco di seduzione e dell’arte femminile; e dall’altro lato questo sottotitolo mi piaceva perché, secondo me, in Italia è rimasta unicamente l’arte come mezzo per vincere qualcosa!

“Visto che gli altri sono sordi mi fingo sordo per mantenere il teatro”, una frase che lei ha riportato in una precedente intervista a proposito di uno spot di cui era protagonista e che appunto si lega un po’ con il discorso precedente. Dunque è davvero attendibile?

(Ride) Sì, sì è verissimo! L’intervistatore mi aveva chiesto come mai avessi scelto di fare pubblicità e io gli ho spiegato che è uno dei tanti mezzi che mi permettono di fare teatro.

Quel “gli altri sono sordi” era chiaramente riferito agli enti pubblici nello specifico e anche ai nostri enti pubblici molisani visto che la compagnia comunque è residente in Molise. Intendevo dire che ormai l’unico modo per fare teatro e soprattutto per mantenere il teatro è anche questo. Io appunto ho mantenuto il teatro facendo la televisione, il cinema e la pubblicità. Non avrei potuto fare il contrario altrimenti, detto molto francamente.

Come al solito la scelta delle sue scenografie non è casuale, al contrario è parecchio significativa e simbolica: ricordo infatti l’utilizzo di una gabbia carceraria nello spettacolo Autodafè del caminante; in questo riadattamento goldoniano si utilizza invece una locanda-palafitta su di un girevole che si muta ora in una nave corsara ora in una casa di frontiera. Perché questa scelta?

Sì, nell’ Autodafè il pubblico si siede in questa gabbia carceraria svolgendo non solo il ruolo di spettatore ma anche di corte giudiziaria; è sicuramente un’esperienza particolare, quest’anno tra l’altro lo riprenderemo proprio a Torino.

Generalmente a livello concettuale posso sostenere che non mi piace lavorare esclusivamente sulla quarta parete, oltretutto in un’idea di teatro contemporaneo diventa riduttivo pensarla in questo modo. Il teatro nei secoli è sempre stato l’arte che ha condiviso e assorbito tutte le arti possibili. Oggi, per esempio, fare teatro senza pensare che esista il cinema, il linguaggio multimediale, senza tener conto delle nuove sonorità che si stanno affermando è impossibile nonché ridicolo; è pleonastico rimanere legati a un concetto dell’ottocento! Ora, questo spettacolo, è molto più tradizionale di quel che può sembrare: noi usiamo un meccanismo girevole che ci permette di creare contemporaneità fra delle azioni teatrali, rispettando comunque le indicazioni presenti nel testo goldoniano. L’unica variante che abbiamo realmente apportato, è un esterno (assente in Goldoni) e un interno, al fine di cercare di mantenere l’azione sempre viva; sapere infatti che l’azione è contemporanea e che perciò un fatto succede subito dopo l’altro in qualche modo ti tiene sul pezzo e mantiene viva la tensione…

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Come mai hai scelto proprio Silvia Gallerano per il ruolo di Mirandolina?

Perché sono rimasto folgorato da La Merda! È stato sicuramente uno spettacolo che mi ha colpito! È forse dal punto di vista interpretativo, uno dei più importanti degli ultimi dieci anni in Italia, non è un caso che abbia ricevuto parecchi premi a livello internazionale! Mi è piaciuta la sua la fragilità, la sua comicità che sapeva far anche commuovere; sotto certi versi mi ha ricordato un po’ Franca Valeri.

Silvia, ti sei chiesta come poteva essere Mirandolina negli anni ’50, rispetto alla Mirandolina settecentesca goldoniana?

Sicuramente la suggestione che avevamo sia io sia Stefano era quella di capire come non far diventare questo testo soltanto un testo di maniera, cercare quindi di tirar fuori una verità: quello che è venuto fuori è la totale verità di Mirandolina, in tutto quello che dice , da quando è maliziosa a quando è innamorata… perciò se dovessimo avvicinarla all’oggi o comunque al secolo passato diciamo che rappresenterebbe un personaggio dalle più svariate sfacettature.

Silvia [interviene Sabelli] ha molte verità ma tutte estremamente credibili, una contraria all’altra, non va per schemi, ed è proprio lì che risiede la sua modernità.

Perché la scelta di ambientare la vicenda negli anni ’50?

Il tutto parte da un’analisi del personaggio di Mirandolina, unica protagonista femminile di tutta la drammaturgia goldoniana, la quale rappresenta il carattere di una donna che non è rivoluzionaria, dal momento che utilizza ancora la malizia delle arti femminili per irretire gli uomini, ma che inizia a presentare tratti di emancipazione femminile. Si tratta infatti di una donna che cerca di affermare una propria identità su tutto e su tutti. Negli anni’50, quando lo abbiamo ambientato noi, sta succedendo esattamente la stessa cosa: io mi sono ispirato a Riso Amaro di De Santis perché lì le mondine diventano in qualche modo partecipi della loro vita, prendendone le redini nelle  loro mani; non dimentichiamoci poi del suffragio universale in Italia del ’46 che segna un periodo di svolta nella storia femminile.

Ovvio Mirandolina non è Rosa Luxemburg , non è nemmeno una femminista lineare, può essere però immaginata come una donna in una fase di pre contemporaneità e dunque di pre modernità in cui decide di rendersi indipendente e libera, esclusivamente con i propri mezzi di seduzione e di spirito d’accoglienza; concetto che peraltro è andato tristemente scomparendo nel nostro Paese.

Mirandolina di fatto è accogliente con i propri ospiti, ma questo, a parer mio, è una dote!

Nella nostra lettura abbiamo inoltre reso la donna maggiormente intrigata dal Cavaliere di Ripafratta, rispetto a quanto lo sia nel testo originale, spingendo su certi tratti di passione amorosa ambigui e non del tutto svelati.

Che ruolo ha la musica in questo spettacolo?

La musica è molto presente: abbiamo deciso di utilizzare il personaggio del marchese di Forlimpopoli (Andrea Ortis) che peraltro parla in veneto e rappresenta una sorta di “dandy fuorimoda”, come baluardo di quel gusto popolare per l’opera lirica, che è tipico della zona della Padania (Parma, Reggio, Ferrara). Per cui per tutta la durata della messa in scena, parla e canta indistintamente arie d’opera e arie di canzonette, come ad esempio “Ma l’amore no” e tante altre dell’epoca. Subentrano poi gli swing di Glenn Miller. Anche per la musica ritorna il riferimento a Riso Amaro e a Ossessione di Visconti, ma anche a De Sica in Ieri oggi e domani: ho infatti ripreso una scena proprio dal duetto tra la Loren e Mastroianni.

Possiamo dire allora che le tue messe in scena risentono parecchio dell’influenza del cinema?

Assolutamente, il cinema influisce particolarmente, soprattutto come linguaggio. Non solo il cinema però, anche l’arte contemporanea. Peraltro a me piace lavorare sui classici in maniera moderna: quest’anno ho deciso di fare un lavoro sul Saul, che ha debuttato su diversi palchi già qualche tempo fa, dando una matrice tutta yiddish, tutta legata alla musica Klezmer mischiata al Requiem di Mozart (contemporaneo di Alfieri) data la sua estrema modernità di linguaggio.

Quando lavoro sui versi penso sempre al cinema, sarebbe impossibile il contrario! Mi sono reso conto che ci sono ormai delle convenzioni teatrali che oggi non reggono più: ho messo in scena , ormai nel 2003, un Romeo e Giulietta che era tutto itinerante, ambientato negli anni ’30 fra il jazz e lo swing, tra due famiglie italo-americane, ho dovuto prendere Diego Florio, che peraltro qui interpreta Fabrizio, ma che ai tempi interpretava appunto Romeo e mia figlia Eva che interpretava Giulietta, qui Dejanira, in quel caso uno aveva 20 anni e l’altra 16, quindi possedevano un’età coerente col testo, ed è stato in quel momento che ho capito che se avessi voluto prendere attori più maturi questo sarebbe stato impossibile, poiché lo spettatore di teatro, come quello del cinema, non crede più ad una Giulietta di 40 anni! Ecco allora, in questo senso, oggi, mi ritrovo “costretto” ad assumere certi linguaggi del cinema, così come sono costretto a tener conto di certe verità. Ed è proprio il cinema che ti costringe oggi a recitare a teatro in maniera non barocca.

Rimane poi il fatto che è bello, secondo me, portare nei classici delle suggestioni che ci sono oggi! Ho fatto ad esempio un Amleto nel 2005 con Giorgio Careccia, portandolo tutto in un’ambientazione giapponese fra samurai, con costumi tipici quali il kimono, e con riferimenti al linguaggio giapponese, inserendoci e mischiando dell’altra musica: all’inizio lo spettacolo si apre sulle note di Elvis Presley per confluire nel duello con le katane fra Amleto e Polonio scandito da “All along the watchtower” di Bob Dylan eseguita da Jimi Hendrix.

(Sorride) La mia cultura in fondo è quella del rock ed esso è il mio vademecum, anche nella mia esperienza teatrale; penso sia proprio questa la bellezza di linguaggi diversi.

A proposito di influssi non occidentali: lei è fondatore del Teatro del Loto, allestito secondo il gusto orientale e curato in ogni minimo dettaglio per garantire versatilità, perché questa scelta di allestimento?

Devo dire che è stata una scommessa, io ero direttore artistico del Teatro Savoia di Campobasso, un giorno entrai in questa sala parrocchiale in occasione di un invito di amici per vedere una commedia di Pirandello, e vidi questo spazio che offriva parecchie possibilità di trasformazione, quindi già da lì mi feci un’idea molto precisa per l’allestimento. Ottenni poi dalla curia la possibilità di rilevarla. Insomma ho fatto un investimento insieme alla cooperativa che ho fondato, e soprattutto privatamente, perché volevo creare uno spazio per i giovani, volevo creare uno spazio propedeutico a tale professione. Ho cercato di creare un luogo il più accogliente possibile, dove gli artisti si potessero sentire a casa.

Oggi molte personalità importanti considerano il Loto come il più bel piccolo teatro d’Italia, e devo dire che sono passati parecchi artisti: da Silvia Orlando a Elio Germano, da Fabrizio Gifuni a Silvia Gallerano, altri come Nanni Moretti, Sgarbi e Gassman ci hanno donato, secondo un’usanza tipica del teatro, la sedia in platea.

Posso affermare con orgoglio che oggi siamo riusciti a creare una compagnia che ha permesso di “coltivare” il nostro territorio, creando delle professionalità assenti prima nel nostro territorio; il cast attoriale e la troupe tecnica è infatti composta totalmente da enti molisani.

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Perché ha scelto di adottare il nome di un fiore?

Nella cultura buddista il fiore del Loto è un fiore che nasce nella stagnazione e i suoi petali sono perfetti nonostante la matrice di melma da cui si formano, questo sta a significare che le cose più preziose si originano da ambienti spesso impervi e dai quali nessuno si aspetterebbe nulla di buono… Io poi l’ho utilizzato anche come acronimo di LIBERO OPIFICIO TEATRALE OCCIDENTALE.

Quanto tempo ha impiegato per la realizzazione del suo teatro?

Eh, ci ho messo ben cinque anni. Mi serviva anche del tempo per trovare i soldi! Penso però che ne sia valsa la pena perché ha reso più felice qualcuno; penso anche a molti attori della compagnia, come Giulio Maroncelli, che qui interpreta il servo, che è proprio cresciuto nel Loto, e come lui, così tanti altri, i quali sono entrati nella compagnia ancora liceali e ne sono usciti professionisti.

Siamo poi riusciti a farci riconoscere come Compagnia dal Ministero dei Beni e della Cultura, nonostante ci siano ancora delle difficoltà a gestire questo spazio, tipiche del mestiere.

Il Loto prevede dei corsi di formazione teatrale anche per bambini, c’è quindi una volontà di “investire” sulle generazioni future nonostante questo momento di crisi per il teatro e per tutta la cultura?

Direi proprio di sì, ritorna infatti il concetto di “arte per vincere”, l’arte per vincere le paure della propria vita, l’arte per vincere la propria condizione sociale, poiché se si ha talento nessuno può fermarti; certo, siamo in un Paese dove questo non viene riconosciuto, ma se lo si possiede ci si può allora permettere di “scappare”, di abbandonare qualunque condizione si abbia, sia essa di povertà o di ricchezza. Il talento, difatti, aiuta a vincere la vita, a superare i propri limiti, è l’unica possibilità, secondo me, nel mondo occidentale…

L’arte poi sta anche per mestiere, dunque l’Arte per vincere è l’industriarsi per vincere, il mettere in gioco se stessi, che è poi quello che fa qui Mirandolina e che dovrebbe fare anche questo Paese, dunque anche qui i bambini imparano a mettersi in gioco con loro stessi sin da subito.

È solo l’arte che consente di andare oltre al proprio limite, permettendo un riscatto personale e aiutando gli altri a stare bene. In fondo avrei potuto inserire come sottotitolo l’Arte per vincere appunto o l’Arte per essere felici e sarebbe stata la stessa cosa!

Adesso quali sono i suoi progetti futuri?

Subito dopo la Locandiera, mi accingo a interpretare Re Lear, attraverso uno studio sulla pazzia nella senilità del potere e nella famiglia. Mi auguro possa andare al meglio!

 

Martina Di Nolfo

 

 

ASTI TEATRO 38

Direzione Artistica: Comune di Asti

 

Mercoledì 29 giugno – ore 20

Giovedì 30 giugno 2016 – ore 19

 

presenta

in Prima Nazionale

 

una produzione

 

Teatro del LOTO

Libero Opificio Teatrale Occidentale

di TeatriMolisani – Ferrazzano CB

 

 

Silvia Gallerano (Mirandolina)

Claudio Botosso (Cavaliere di Ripafratta)

 

in

LOCANDIERA

o l’Arte di Vincere

di Carlo Goldoni

 

 

 

 

 

adattamento e regia Stefano Sabelli

 

con

Giorgio Careccia – Conte di Albafiorita

Andrea Ortis – Marchese di Forlimpopoli

Chiara Cavalieri – Ortensia

Eva Sabelli – Dejanira

Diego Florio – Fabrizio

Giulio Maroncelli – il Servo

Piero Ricci – il Fisarmonicista muto

 

scene Lara Carissimi

decorazioni sceniche Michelangelo Tomaro

costumi Martina Eschini

disegno luci Daniele Passeri

aiuto regia Giulio Maroncelli

foto di scena Mauro Presutti

 

Teatro Giraudi (Asti)

DONNE CHE SOGNARONO CAVALLI

” Mi interessa commuovere lo spettatore, non spiegargli delle cose”     – Daniel Veronese

Uno spettacolo complesso ma maledettamente semplice quello andato in scena alle Fonderie Limone, a conclusione  del Festival delle Colline Torinesi.  “Un successo di pubblico e un livello contenutistico altissimo raggiunti in questa edizione con l’augurio di migliorarci ancora per il prossimo anno”,  ha dichiarato  Sergio Ariotti. 

Una famiglia contemporanea ci racconta la Storia dei desaparecidos attraverso la propria storia fatta di intrecci, bugie e violenza.  “Ho voluto usare il micro per parlare del macro” spiega in una formula il regista Roberto Rustioni durante la “Mezz’ora con…”

E direi che ci è riuscito benissimo. Lo spettacolo è claustrofobico, un allestimento minimale che osserviamo con occhio cinematografico e che ci fa entrare a casa di una delle tre coppie

donne che sognarono cavalli 2protagoniste durante uno sfortunato pranzo di famiglia.

“Ho apprezzato molto la scenografia. Gli attori sono stati terribilmente credibili, mi son sentita coinvolta dalla storia grazie a loro. La disposizione del pubblico ha fatto accrescere la bellezza dello spettacolo a mio parere” leggo e condivido il pensiero di questa spettatrice da  http://www.tipstheater.com/donne-che-sognarono-cavalli

Attraverso Lucera, giovane figlia di desaparecidos che tenta dolorosamente di ricostruire il passato della sua famiglia raccontandosi al pubblico e rompendo la quarta parete, scopriamo le vite conflittuali dei tre fratelli con un’azienda di famiglia fallita sulle spalle, donne diversissime tra loro riunite in unico luogo – ideale e fisico- un pony morto e alcool e fumo a condire le tensioni crescenti.

Momenti di chiacchiere futili si mescolano a violenti liti , sembra non succedere niente, ma tutto è successo e tutto succederà, confessioni che sfuggono, verità nascoste, tradimenti velati, un bambino che sta per nascere.

I quadri non seguono un ordine cronologico, sta allo spettatore ricostruirlo e questo ci porta alla citazione iniziale dell’autore del testo. Il pubblico è coinvolto emotivamente e deve essere attivo e attento durante tutto il disperato tentativo di riconciliazione familiare.

Un occhiolino di una delle attrici prima dell’inizio dello spettacolo e la vicinanza estrema alla scena mi portano direttamente dentro quella casa dove una strage per mano di Lucera si consuma lentamente durante tutto lo spettacolo e improvvisamente nel quadro finale quando la ragazza stermina la sua famiglia…                                                                scusate, quella che doveva a tutti i costi essere la sua famiglia.

 

di Daniel Veronese
regia Roberto Rustioni

adattamento Roberto Rustioni
con Valeria Angelozzi, Maria Pilar Perez Aspa, Michela Atzeni, Paolo Faroni, Fabrizio Lombardo, Valentino Mannias
assistente alla regia Soraya Secci
scene e costumi Sabrina Cuccu
assistente scenografo Sergio Mancosu
luci Matteo Zanda
foto Alessandro Cani

co-produzione Fattore K – Sardegna Teatro – Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di Fondazione Olinda Teatro La Cucina

SOCRATE IL SOPRAVVISSUTO / come le foglie

“Davvero tanto su cui riflettere”: ecco quello che ho pensato appena terminata la lunga serie di applausi per gli attori/performer dello spettacolo Socrate il sopravvissuto/come le foglie in scena alle Fonderie Limone la sera del 20 giugno.

Un proiettile, una classe, un professore, uno schermo, una storia. O meglio, tante storie.

C’era l’impossibilità del professore di raccontare la storia dell’umanità ad una classe liceale. Di spalle e con l’aiuto del microfono il professore di storia e filosofia prova a spiegare il suo tormento: fingere, recitare una parte davanti ai suoi ragazzi. Loro si sciolgono, ad uno ad uno, tra la sedia e il banco, vittime consenzienti dell’inganno. Ne manca solo uno, sempre, ad ogni lezione, non è mai in scena. Un proiettile…

Ma abbiamo detto che c’era anche uno schermo e qui troviamo il parallelo con Socrate. Lui nella sua palestra (in video), il professore nella sua classe (in scena).  Storie che si intrecciano e si contaminano.

Un viaggio alla scoperta della figura dell’educatore, del suo potere e del suo dovere. Una profonda riflessione sul ruolo dell’insegnante e su quanto possa fare oggi un professore che non vuole limitarsi a terminare il programma annuale e far capire agli alunni che c’è molto di più di quanto vogliano far credere loro, ma si scontra con l’apatia, il sistema scolastico e se stesso.

E il proiettile?

Maggio, ottobre, giugno i momenti raccontati dal professore. Sembra non esserci via di fuga o soluzione. Ogni volta l’impossibilità di insegnare prevale. E allora i ragazzi si esibiscono, ora mettendo in scena la distruzione dei libri (completamente bagnati, accatastati malamente), ora mediante coreografie ritmate ed ossessive, fino ad un tentativo di dialogo e avvicinamento che ci porta alla  storia di Socrate e dell’allievo Alcibiade – il  momento di massima tensione, a mio parere. Un lungo confronto dialogico tra i due sull’esistenza umana, sulla crescita dell’individuo, sul sapere e sul potere.

Eppure, alla fine arriva il momento degli esami… e quello del proiettile. Quell’alunno sempre assente dalla classe del professore si presenta al suo esame orale e uccide tutti i suoi insegnanti, tranne uno.

Tanto su cui riflettere, appunto.

 

di Simone Derai e Patrizia Vercesi
regia Simone Derai

dal romanzo   Il Sopravvissuto di Antonio Scurati
con innesti liberamente ispirati a   Platone e a Cees Nooteboom
con   Marco Menegoni, Iohanna Benvegna, Marco Ciccullo, Matteo D’Amore, Piero Ramella, Francesca Scapinello, Margherita Sartor, Massimo Simonetto, Mariagioia Ubaldi
maschere   Silvia Bragagnolo e Simone Derai
costumi   Serena Bussolaro e Simone Derai
musiche e sound design   Mauro Martinuz

video Simone Derai e Giulio Favotto
con Domenico Santonicola (Socrate), Piero Ramella (Alcibiade), Francesco Berton, Marco Ciccullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro, Massimo Simonetto
riprese aeree Tommy Ilai e Camilla Marcon
concept ed editing Simone Derai e Giulio Favotto
direzione della fotografia e post produzione Giulio Favotto / Otium
regia Simone Derai

produzione Anagoor
co-produzione Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies

progetto realizzato con il sostegno del bando ORA! Linguaggio contemporanei produzioni innovative della Compagina di san Paolo

L’INSONNE: MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

Il tempo si lacera […] Le stagioni hanno perduto il loro significato. Domani, ieri, che vogliono dire queste parole? Non c’è che il presente […] Tutto ciò è adesso. Non è stato, non sarà. È. Sempre. Tutto insieme. Perchè le cose vivono in me e non nel tempo. E in me tutto è presente.

Con un’eco quasi bergsoniana cala il sipario sullo spettacolo che Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli hanno liberamente tratto da Ieri, romanzo della scrittrice ungherese Agota Kristof.

Partire dalla battuta finale è quantomai appropriato: questa è infatti una storia di riemersione

Tobias nasce in un villaggio senza nome e trascorre la sua infanzia all’ombra della madre, la prostituta del paese. Un giorno, quando tra i tanti uomini che frequentano la casa individua suo padre, prende un coltello e glielo affonda nella schiena con l’intento di uccidere anche la madre, stesa sotto di lui. Tobias è allora costretto alla fuga. Cambia identità: diventa Sandor e lavora in una fabbrica di orologi. La sua giornata è un susseguirsi di gesti vuoti, l’unica cosa che pare confortarlo è la scrittura. Scrive e si rifugia nell’ ossessionante attesa di Line, una donna appartentente al passato e affidata all’immaginazione. Un giorno però Line arriva. I due si riconoscono e si amano di un amore impossibile. Potrebbe essere l’inizio di un futuro diverso, ma il passato grava sui due amanti con il suo limite di invalicabilità. Line infatti ha un terribile segreto: è la sorellastra di Tobias… ma non lo sa.

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La narrazione della storia non è lineare, ma costruita su continui dislivelli. Il tempo permea di sè l’intera vicenda, senza tuttavia mai lasciarsi delimitare. I contorni sfumano in suggestioni oniriche, la percezione sfugge, tutto si fa dilatato, confuso. Passato e futuro sono entrambi destinati a confluire nel presente sotto forma di ricordo e immaginazione.

La commistione dei livelli temporali è resa con straordinaria efficacia dall’organizzazione dello spazio scenico e dalla modulazione della luce.

Al centro del palcoscenico un cubo, le cui pareti consistono in pannelli semitrasperenti. All’interno del cubo una stanza con un letto e un tavolo, all’esterno il vuoto. I due attori padroneggiano indistintamente entrambi gli spazi. Questa contrapposizione interno-esterno permette l’alternanza di scene agite e scene narrate e si presta meravigliosamente alla resa scenica di un viaggio tutto giocato sull’accavallarsi di temporalità differenti.

La luce è altrettanto fondamentale, perchè diventa la guida di questo viaggio. Dietro al cubo un faro mobile si sposta di continuo creando suggestivi effetti d’ombra. Seguire il fascio di questa luce è come seguire la memoria nel suo impietoso scandagliare. Le zone illuminate sono le zone del ricordo, l’oscurità invece pertiene all’oblio.

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Impossibile non cogliere il riferimento alla psicanalisi. Non tanto perché il vissuto di Tobias richiama il più classico dei complessi, quello edipico, quanto perchè è lo stesso spettacolo ad assumere – fin dall’inizio – le sembianze di una seduta psicanalitica. Il tutto costruito con grande intelligenza. Non c’è l’assurda pretesa di psicanalizzare un personaggio della finzione, ma la volontà di mostrare un percorso di riemersione nel suo fluire disordinato.

La fantasia dei drammaturghi ha valorizzato la sapiente tessitura del romanzo. Il testo viene rispettato nei suoi snodi principali e nell’uso di una prosa asciutta, messa in risalto da una recitazione mai sopra le righe.

Ad essere riproposti con fedeltà anche i richiami autobiografici che costellano l’opera. La Kristof condivide con i suoi personaggi un destino fatto di fuga dalla patria e ossessione per la scrittura. Scrivere rappresenta per entrambi il tentativo di raccontare la propria storia.

Per Tobias la funzione salvifica della scrittura si carica di un valore aggiunto. È la forza che alimenta l’attesa della donna amata.

In fondo, amare e scrivere altro non sono che due facce della stessa medaglia, perchè fermano il tempo.

Cecilia Nicolotti

L’INSONNE

di Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
regia Claudio Autelli

liberamente tratto da Ieri di Agota Kristof
drammaturgia Raffaele Rezzonico e Claudio Autelli
con Alice Conti e Francesco Villano
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
luci Simone De Angelis
suono Fabio Cinicola
responsabile tecnico Giuliano Bottacin
assistenti alla regia Piera Mungiguerra e Andrea Sangalli
voce registrata Paola Tintinelli

co-produzione Lab121, CRT Milano
spettacolo vincitore In-Box 2015
selezione Visionari Kilowatt Festival 2015
presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo

 

Fotografia della Mafia

Alla Fabbrica delle “E” di Torino è andato in scena in prima assoluta  La donna che cammina sulle ferite dei suoi sogni, uno spettacolo della compagnia Viartisti.
Questo è il primo della stagione del ciclo di Teatroimpegnocivile.

Il lavoro presenta l’incredibile vita di una donna, Letizia Battaglia, che ha voluto raccontare attraverso i suoi reportage a Palermo, in quasi vent’anni,  la guerra delle mafie, esprimendola con immagini molto forti e vere.

Scena aperta, scatoloni che fanno da scenografia, fondale nero che si illumina fin da subito con le parole di Letizia: le sue foto che ci accompagnano per tutto lo spettacolo.
Le due attrici in scena, Serena Barone e Gloria Liberati, incarnano l’anima di Letizia, a volte in prima persona a volte in terza, ci raccontano che cosa è stato vivere vedendosi portare via l’istruzione, che cosa ha significato stare in casa, essere donna ma in realtà esserlo solo nella propria casa e solo dopo essersi sposata. Un matrimonio infelice che porta Letizia ad allontanarsi, a Milano. Ma a Letizia non piace Milano, vuole la sua terra anche se succedono cose spaventose. Tornata a Palermo inizia a lavorare come giornalista di cronaca. Le sta stretto dover scrivere, Letizia non è una donna di molte parole. Poi finalmente può raccontare attraverso 1, 2, 500, 1000 e ancora di più foto quello che vede.

Il testo, inedito, scritto da Riccardo Liberati e Pietra Selva, che cura anche la regia, usa parole che servono per spiegare i contenuti di quelle immagini forti. Servono per raccontarci chi è sempre stata dietro la macchina fotografica a scattare. E a un certo punto l’attore chiede al pubblico dove sia Letizia, e si scusa perchè loro stanno usando tante parole, e lei invece è stata capace di non usarne nessuna, perchè le immagini dicono molto di più e il loro compito è quello di sbalordirci e di non farci dire una parola.
Molto suggestive anche le proiezioni che accompagnano tutto lo spettacolo: fotografie che hanno testimoniato venti anni di guerre.
Qualche piccolo inconveniente tecnico legato al suono non è stato in realtà un problema.  Perchè le immagini create dagli attori parlavano in maniera fortissima.390x390_5739a439ce71a_260x260

Letizia Battaglia ieri sera era presente in sala. Alla fine dello spettacolo è stata chiamata sul palco: visivamente commossa ha ringraziato la compagnia, l’autore Riccardo Liberati e la regista Pietra Selva. Il tutto senza dire una parola e facendoci capire ancora una volta che le azioni e le immagini sono più forte di qualsiasi altra cosa.

Elisa Mina

di Riccardo Liberati e Pietra Selva
regia Pietra Selva

con Serena Barone, Gloria Liberati, Alberto Valente
collaborazione artistica e video Riccardo Liberati
consulenza video Eleonora Diana
allestimento Carmelo Giammello
luci Eleonora Diana

produzione Viartisti Teatro
in collaborazione con
Festival delle Colline Torinesi

Hearing

La funzione del linguaggio non è quella d’informare, ma di evocare Jacques Lacan

A un primo sguardo, Hearing sembra raccontare la condizione delle donne in Iran attraverso gli anni. La scena si apre sul dormitorio femminile di un collegio in cui due giovani ragazze vengono interrogate da una donna più matura, incaricata di mantenere l’ordine. Una relazione anonima ha denunciato che una delle due ragazze ha introdotto di nascosto nel dormitorio un ragazzo per trascorrere con lui la notte di capodanno.

La scenografia è un semplice  fascio di luce che illumina dall’alto le protagoniste e che restituisce, con acuta semplicità, l’atmosfera oppressiva del dormitorio-fortezza. Il sapiente uso delle pause e la recitazione quasi cinematografica delle giovani attrici fanno dimenticare subito la fastidiosa necessità di riferirsi ai sopratitoli per comprendere il dialogo.

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La ragazza che ha involontariamente fatto partire la denuncia non ha visto un ragazzo nella stanza della compagna, ne ha solo sentito la voce. E su quest’ambiguità, sull’insicurezza di una voce solo sentita (o immaginata?) si apre la seconda parte dello spettacolo. Con l’ausilio di una Gopro, Amir Reza trascina con maestria lo spettatore in un viaggio onirico a tratti spaventoso, spesso commovente, sicuramente d’impatto. Una delle giovani ragazze esce di scena e vi rientra pochi secondi dopo, quindici anni più grande. L’impianto  realistico della prima parte dello spettacolo viene così decostruito e ciò che conta adesso è l’happening: ciò che avviene qui e ora, sulle scale del teatro Astra che vediamo grazie alla Gopro, nella confusione dello spettatore che rimane catturato in un salto temporale. Alla destrutturazione del set corrisponde una destrutturazione del linguaggio, che intreccia passato e presente in un rimpallo serrato di ricordi, ammissioni, confronti. La memoria che qui viene rappresentata non può che essere restituita in questa maniera perché è la sua stessa essenza ad essere frammentata.

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“Gli spettatori rimangono confusi da questa seconda parte”, ci dice Amir Reza. Ma è proprio questo l’intento della regia: mettere in scena la confusione che si prova quando, arrivati all’età adulta, ci si volta a guardare la propria infanzia. Il percorso di crescita e gli anni trascorsi ritornano alla memoria come un tunnel buio, difficile da ricostruire, dal quale si esce “adulti, normali”. Per Amir Reza, Hearing è un viaggio personale per illuminare, almeno in parte, questo tunnel. Ecco perché non è e non vuole essere (solo) un’opera di denuncia sociale. Hearing non vuole lanciare un messaggio, ma restituire l’esperienza frammentata nella memoria di un percorso a tratti inconsapevole, quello della crescita e del passaggio all’età adulta, che è comune a tutti noi. Hearing non racconta solo la difficile situazione delle donne in Iran, ma anche un’esperienza universale, che travalica i confini lingustici, spaziali e temporali.

di Giulia Trivero

HEARING

(Prima nazionale presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo nell’ambito di Scene d’Europa)

di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani

assistente alla regia Mohammad Reza Hosseinzadeh
con Mona Ahmadi, Ainaz Azarhoush, Elham Korda, Mahin Sadri
video e direzione tecnica Ali Shirkhodaei
musiche Ankido Darash e Kasraa Paashaaie
suono Ankido Darash
luci Saba Kasmei
scena Amir Reza Koohestani assistito da Golnaz Bashiri
costumi e oggetti di scena Negar Nemati
secondo assistente Mohammad Khaksari
direzione di scena Mohammad Reza Najafi
assistente ai costumi Negar Bagheri
direttori di produzione Mohammad Reza Hosseinzadeh e Pierre Reis
tour manager Pierre Reis

produzione Mehr Theatre Group
coproduzione La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, BOZAR – Centre for Fine Arts Brussels

versione originale con sopratitoli in italiano
traduzione Laura Bevione per il Festival delle Colline Torinesi

 

Una Monica al bacio

di Matteo Tamborrino

«Nacqui nei ’70 e giunsi in anni cupi,/ libero lo spirto mio com’è quello dei lupi./ Da subito in fattezze de masculo/ sentii smover, de drentro,/ l’intensa femminina forza,/ la scorza,/ ch’el tempo avrebbe trasmutato/ in delicata movenza,/ in gentile essenza de bambino/ che l’ambigua carta porta,/ ma ancor senza difesa,/ alfin non resta che la resa;/ lo pensiero dello sbaglio,/ il nascondiglio,/ la lacrima sul ciglio,/ al voler sentire che forte preme/ lo desiderio de svelar/ il sommovimento,/ lo stordimento, de scoprir la direzione/ c’agli altri par sbagliata» (da L. Fontana, Monica Bacio. Frammenti per un monologo)

Lorenzo Fontana/Monica Bacio
Lorenzo Fontana/Monica Bacio

Abbiamo sentito parlare spesso, negli ultimi mesi, di questa bionda squinternata Monica, e ora, finalmente, l’abbiamo conosciuta.

DSC7686-1024x682La creatura teatrale di Lorenzo Fontana  – ispirata a un personaggio del drammaturgo canadese Michel Marc Bouchard – è nata da un  articolato percorso creativo e ha avuto il suo  debutto  ufficiale al Teatro Astra di Torino: «Negli anni – spiega Fontana nelle note di regia – [Monica] è diventata il mio alter ego. Quando ho iniziato a scrivere questa storia, fortemente autobiografica, ho capito subito che mi serviva un tramite per raccontarla e mi è sembrato che la Bacio fosse lì apposta. Ho scritto il lamento di Monica perché credo che sia importante riconoscere il diritto di crescere diventando quello che sentiamo di essere davvero, nel modo più autentico possibile. Quando siamo piccoli c’è sempre qualcuno che pensa di sapere cosa sia giusto per noi, ma quello che è giusto per noi già lo sappiamo, abbiamo solo bisogno di essere accompagnati nel nostro viaggio di costruzione dell’identità».

Il lamento, ovvero le lacrime, di Monica Bacio è un esempio di ottima scrittura scenica.  Un prodotto, anzi no, un’opera preziosa, rara, vera. I versi accarezzano l’orecchio e giocano con la mente. È la potenza della lingua,  dell’italiano nella sua proteiforme beltà, da far andare in “brodo di giuggiole” file intere di letterati. Non è mai la parola stantìa e polverosa delle rappresentazioni da m(a)us(ol)eo. È la parola musicale di un teatro poetico, ma poetico per davvero. E non solo perché in rima.

Fontana_Manescalchi_JudicaOvviamente nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza un buon cast. In scena il collaudatissimo trio Fontana-Manescalchi-Judica Cordiglia. La pièce ripercorre varie fasi di crescita del protagonista, dall’infanzia all’età adulta, passando per l’adolescenza. Quadri che dipingono situazioni, emozioni, pensieri: la sfilata casalinga in tacchi alti, la partita di calcio, il giardinetto della foia, il bagno turco. La Creante/Manescalchi dà sostanza e azione ai Memoires di Monica/Fontana; a punzecchiare la narrazione intervengono la voce e le mani (e a un certo punto anche il corpo) di Giancarlo Judica Cordiglia, per lo più nei panni (o meglio nei volti) dei genitori.

Di fronte allo spettatore uno svettante cono fucsia adorno di toppe e finti seni, due cespugli, un pallone, una panchina, una parrucca luminescente. Il tutto racchiuso da un buio quasi onirico, da chiar di luna. Quella stessa Luna cacciatrice, con cerchietto e arco, che comparare all’inizio dello spettacolo. La scena, a dire il vero, ci coglie impreparati: forse – stando a quanto Monica aveva lasciato intendere su Internet – ci saremmo aspettati più kitsch, più esuberanza, più ostentazione. E invece no. Il gioco è sempre leggero, mai violento o invasivo. L’incanto delle ombre, poi, è particolarmente evocativo.  Si scherza sì, ma sempre con eleganza. E con il sottofondo di Mina. Non c’è mai la risata sguaiata da spogliatoio. Anche l’allegra falloforìa che a un certo punto invade il palco non è volgare. Perché dietro c’è sempre la storia di “Monica”, che non si piange addosso, ma ci aiuta a riflettere.

E quindi, Monica, tra una copertina di Vogue e il nuovo spot di Pasta Diluvio, continua a “lamentarti”!

IL LAMENTO, OVVERO LE LACRIME, DI MONICA BACIO-
(Prima Nazionale – 16/6/2016, Teatro Astra – Torino)
di Lorenzo Fontana
regia Lorenzo Fontana
con Olivia Manescalchi, Giancarlo Judica Cordiglia e Lorenzo Fontana
scene Paolo Bertuzzi
costumi Viola Verra
light designer Cristian Zucaro
sound designer Luca Vicinelli
direzione tecnica Alberto Giolitti
presentato in collaborazione con Fondazione Teatro Piemonte Europa nell’ambito di Scene d’Europa

Acqua di colonia

Giornali, radio, televisione, social network, politica, libri di scuola… Perché nessuno parla del colonialismo? Perché fin dall’inizio venne dimenticato? Sono proprio queste domande che i due attori Elvira Frosini e Daniele Timpano si sono posti quando due anni fa hanno ideato lo spettacolo Acqua di colonia. Uno spettacolo in cui sono riusciti a portare in scena un momento importante della storia italiana che, al contrario di come viene ricordato (ammesso che sia conosciuto), ebbe inizio sin dal 1882, e non si riduce quindi solamente ai cinque anni dell’Impero Fascista. Una storia banalizzata, schernita, nascosta e camuffata il più possibile per poi essere dimenticata. E così, come gli attori all’inizio dello spettacolo hanno fatto con il pubblico, anch’io chiedo a voi: “Qualcuno si ricorda qualcosa sul colonialismo? Qualcuno ricorda di averlo mai studiato a scuola?” Se la memoria vacilla possiamo allora affidarci alla lettura di libri, magari testi scolastici. Sapete cosa troveremmo? Nulla. Vuoto. Silenzio. Completo silenzio. Quel silenzio di chi sa e non dice, di chi ha subìto e non ha potuto gridare. Orecchie troppo sorde per udire voci ormai troppo consumate, strappate da chi non voleva che si udissero. E a questo punto, perché interessarsi? Perché scavare a fondo? Ormai le nuove generazioni non si sentono più responsabili di nulla. “Tanto erano altri tempi, non eravamo noi, chi se ne importa. È acqua passata, acqua di colonia, cosa c’entra col presente?”
Siamo attorniati da etichette già pronte, schemi di pensiero già formulati per noi, stereotipi già confezionati, dalla pubblicità alla politica, tutti ci bersagliano e noi non ce ne rendiamo conto.

I due attori, con il loro spettacolo alle Lavanderie a Vapore, di cui ho avuto l’occasione di essere spettatrice solo alla prima parte, si sono presentati al pubblico come chi deve mettere in scena un lavoro e si chiede da dove partire. Iniziano così a cercare di capire cosa sia stato il “colonialismo”, ma la disinformazione risulta un ostacolo molto difficile da superare. Cercano risposte nei filosofi, nei pensatori degli ultimi due secoli, ma hanno grandi delusioni. Allora tentano un’altra tecnica: l’immedesimazione, di se stessi e del pubblico, nella condizione di carnefici di altri uomini. Provano ad immaginare di doversi sbarazzare di alcuni peluche vecchi dell’infanzia, di immaginarli lì sul pavimento morti e di prenderli ad uno ad uno e, guardandoli, buttarli in un sacco nero dell’immondizia. Immaginare tutto il sangue sparso. Ma era necessario, andava fatto, era ormai roba vecchia, già passata.
Naturalmente il rimando alla situazione attuale dell’immigrazione, alle condizioni degli immigrati, sulla nostra consapevolezza e sul nostro dovere di agire, era spontaneo e loro non se lo sono fatti mancare.
E infatti, dopo aver provato a domandarsi come avrebbero potuto fare per capire, spiegare il colonialismo e la sua rimozione, giungono alla conclusione che è inutile preoccuparsi. Tanto vale rilassarsi, “Ora possiamo andare anche noi al mare, ma non sul fondo..!”.
Alessandra Botta

Di Daniele Timpano e Elvira Frosini

Regia: Daniele Timpano e Elvira Frosini

interpretazione: Daniele Timpano e Elvira Frosini

consulenza: Igiaba Scego

aiuto regia e drammaturgia: Francesca Blancato

scene e costumi: Alessandra Muschella e Daniela De Blasio

disegno luci: Omar Scala

progetto grafico: Antonello Santarelli e Valentina Pastorino

con la partecipazione di Suad Omar

produzione: Elvira Frosini e Daniele Timpano

 

 

 

Verità nascosta da una farfalla

Ieri è andato in scena 1983 BUTTERFLY, spettacolo della “Piccola Compagnia della Magnolia” in prima assoluta al Festival delle colline.

Il lavoro narra la storia di Bernard Boursicot e Shi Pei Pu, persone realmente vissute, in maniera molto intima, raccontando e mettendo in scena pagine del diario di Boursicot.

Un giovane contabile francese, in viaggio per lavoro nella Pechino del 1962 incontra un cantante d’opera, Shi Pei Pu, che si è appena esibito nella “Madame Butterfly”. Nonostante si dica che i cinesi odino la Butterfly come opera perché vi ritrovano l’oppressione dell’uomo occidentale sulla donna orientale, Bernard trova che in Shi ci sia qualcosa di speciale.
Tra i due nasce un sentimento, Shi gli racconta che in realtà è una donna, avranno un figlio insieme. Andranno a vivere in Francia tutti e tre.
Bernard inizierà a passare documenti francesi alla Cina per poter proteggre la sua famiglia.
Qualcosa smuove l’apparente felicità che c’è in questa sorta di famiglia. Un’accusa di controspionaggio. Una rivelazione che sconvolge tutto.

Lo spettacolo è realizzato da due soli attori.
I due si scambiano i ruoli di sesso, Davide Giglio interpreta Shi, Giorgia Cerutti interpreta Bernard. Devo ammettere che magnolia foto repertorio 1per la prima parte dello spettacolo la cosa mi ha turbato. Mi chiedevo il perchè di questa scelta. Ma, a un certo punto, sono le stesse parole del diario di Bernard a spiegarci che la sessualità non ha importanza. A fronte di ciò, ritengo che gli attori abbiano giocato molto bene su questo aspetto e abbiano saputo sfruttarla per una resa scenica ancora più di impatto.
Non ho apprezzato molto però l’uso dei microfoni. Mi sembra che servissero puramente per amplificare la voce e non per creare effetti particolari. E’ vero, i due attori hanno camuffato la voce per tutta la durata dello spettacolo, però sono ancor dell’idea che in teatro la parola debba arrivare senza mezzi intermediari.
Altro protagonista è lo schermo : stretto e a tutta altezza, ci mostra i fatti, ci porta da un luogo all’altro, da un anno all’altro, permettendo così alla compagnia di usare una scena molto essenziale e pulita. Un pavimento bianco, un bancone rosso, sei candele : tre a un capo del bancone e tre dalla parte opposta.
La storia di per sé è molto cruda, ma racchiude un non so che di poetico. Negli anni passati era già stata portata alla luce e i protagonisti resi immortali da un film . Ma grazie al teatro si è potuto rinnovare questa poesia e libertà delle proprie scelte che porta a un destino triste e infelice.

Elisa Mina

 

di Giorgia Cerruti
regia Giorgia Cerruti

assistente alla regia Cleonice Fecit
con Davide Giglio e Giorgia Cerruti
scene e luci Lucio Diana
costumi Gaia Paciello – atelier Pcm
musiche Giorgia Cerruti – Cleonice Fecit
organizzazione Giulia Randone

produzione Piccola Compagnia della Magnolia, Festival delle Colline Torinesi

UN MAGO D’ESTATE

 

Un mage en été, una visione di suoni onirici.

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Già presentato nel 2010 in occasione del Festival d’Avignon, Un mage en ètè di Olivier Cadiot con la regia di Ludovic Lagarde ha fatto la sua prima e unica tappa italiana al  Gobetti di Torino, città perfetta per ospitare il “mago” francese Laurent Poitrenaux e il suo vortice di sensazioni e idee, per il Festival delle colline torinesi.

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Si spengono le luci , il sipario si apre. Solo sul palcoscenico, un insolito mago vestito di bianco inizia un monologo che è poesia.  Ho un occhio puntato ai sopratitoli e l’altro verso Laurent Poitrenaux, e ciò che vedo è un mago moderno, una macchina teatrale.

Il mago Robinson vive chiuso in una stanza che è il suo mondo, si costruisce tutto solo la sua isola interiore, la sua vita quotidiana. È un susseguirsi di visioni da sogno, di”rumori bianchi”che rilassano ma non fanno addormentare, dettagli uditivi con articolazioni pop-elettroniche che non so dire da dove provengano ma creano effetti lontani. Robinson condivide con noi il fuoco di emozioni che si scatenano al ricordo di una ragazza X che lui vede distesa beata nella natura illuminata da un sole forte, fino al loro incontro e a un bacio. Adesso vede una nave vichinga e rumorosa, ora vede Nietzsche giocare a golf e ha una voce robotica e distorta che mette quasi paura. Poi chiude gli occhi: è un cantante sott’acqua, si crea uno pseudonimo accattivante.

Non ci sono trucchi di magia da tenere nascosti, Robinson è un mago di percezioni legate a immagini che invadono lo spazio in un turbine di forme geometriche. Sta comprendendo le cose del mondo, le vive dal suo punto di vista, e lo fa con umorismo.

Questo testo di Oliver Cadiot ha una forma ciclica, è il serpente che si mangia la coda, una rinascita. Quello che egli vede lo ha già visto, è un infuso di nostalgia, felicità, rabbia. E’ una meditazione sul potere del pensiero.Un mago d'estate

Il colore verde con le sue tonalità è ricorrente per tutta la durata dello spettacolo: dalla visione della ragazza nella natura, fino all’epilogo quando lui stesso torna giovane  e rannicchiato, “sott’acqua nato”.

Buon teatro e buona magia a tutti!

Alessandra Pisconti

di Olivier Cadiot regia Ludovic Lagarde

con Laurent Poitrenaux scenografia Antoine Vasseur luci Sébastien Michaud costumi Fanny Brouste immagini/visual design Cédric Scandella drammaturgia Marion Stoufflet applicazioni informatico-musicali Ircam/Grégory Beller suono David Bichindaritz coreografie e movimenti Stéfany Ganachaud video Jonathan Michel codice creativo Brice Martin Graser

produzione La Comédie de Reims Centre Dramatique National coproduzione Festival d’Avignon, Ircam/Les Spectacles Vivants – Centre Pompidou, Centre Dramatique National Orléans/Loiret/Centre con il sostegno di Région Champagne-Ardenne il testo Un Mage en été è pubblicato dalle edizioni P.O.L

traduzione Gioia Costa per il Festival delle Colline Torinesi