Salveremo il mondo prima dell’alba- Carrozzeria Orfeo

Possono i soldi fare la felicità? A questa domanda risponde la Carrozzeria Orfeo con Salveremo il mondo prima dell’alba, nato dalla regia di Massimiliano Setti, Ivan Zerbinati e Gabriele di Luca attore oltre che uno dei drammaturghi dello spettacolo. La pièce teatrale indaga cinque storie di cinque persone facoltose e molto conosciute che, tormentate dai loro problemi personali, si rifugiano in una clinica per riabilitazione; non una qualunque però: una clinica situata nello spazio. La scenografia è costituita da una costruzione semicircolare in legno che sembra imitare una cupola, al centro appare un oblò che mostra o nasconde la cosiddetta “grande meraviglia”, ovvero la terra. Un richiamo all’arte, a mio avviso, dal riferimento alla cupola alla visione eterea della terra, di tutto ciò che è stato quindi creato e reso incredibilmente concreto, sfidando le leggi della fisica, i confini vengono superati ma questo è possibile osservarlo solo estraniandosi dalla quotidianità per lasciarsi andare a se stessi. Uno scienziato indiano, biologo e portaborse di un uomo d’affari, esperto nel muovere le masse con la creazione di fake news, un imprenditore e il suo compagno, una coppia omosessuale fatta da numeri (l’uno) e da spirito (l’altro), infine una cantante, attivista e femminista. Ognuno di loro fugge dalla propria vita, un’esistenza infelice e irrisolta colmata da dipendenze, siano esse affettive, economiche o derivate da sostanze stupefacenti. Uno psicologo è presente nella narrazione (il Coach viene chiamato), una guida dei suoi pazienti che ha come missione divina quella di salvare le anime di chi, senza accorgersene, le ha logorate con l’inconsapevolezza, la superbia, l’invidia, la gelosia e l’egoismo. Alle estremità della costruzione semicircolare, appaiono due camere rettangolari, sempre in legno, una sauna a destra, simbolo di relax ed espiazione, ed una zona fitness a sinistra, al suo interno sono poste due biciclette, simbolo di fatica: pedalando con esse non si va da nessuna parte, la destinazione è dentro di noi. Un contesto onirico, un viaggio nella mente e nei sentimenti accompagnato da dolci musiche e da una voce femminile, quella della coscienza. Una teca è protagonista della scena, al suo interno i cinque pazienti dovranno, insieme, piantare un alberello, un piccolo baobab che raramente fa i frutti e di cui l’utilità appare inizialmente solo legata alla nascente coesione del gruppo. Chi mette un sassolino di ghiaia alla volta, chi mette la terra lentamente, chi scava il piccolo fosso per le radici, chi lo pianta effettivamente e chi lo bagna. Bisogna prendersene cura, bisogna prendersi cura della vita per farle fare i frutti, per quanto possa sembrare difficile o impossibile, la squadra impedisce l’errore, poichè a turno ci si occupa dell’alberello, così che non possa mai morire. Il linguaggio scelto per comunicare è familiare, a volte la dialettica è cruda e scurrile tuttavia è sciolta e chiara, la violenza della verbalità, accorcia ulteriormente le differenze sociali che dividono i ricchi dai poveri, già notevolmente diminuite dalla disperazione portata in scena. Tre ore di spettacolo scorrono ad una velocità impressionante, la mia curiosità nello scavare fino in fondo le storie dei personaggi è incontrollabile, in questo scenario divino e filosofico, mi pare talvolta di sentire le parole di Platone, quando parlava della caverna. Quattro uomini ed una donna, vivono all’ombra di loro stessi, circondati dalle loro paure più profonde, le reazioni ai tentativi di  trascinarli fuori dalle mura ormai fossilizzate delle loro menti, sembrano essere ataviche, deliri, violenze e autodistruzione. L’alba serve per far sorgere il sole, vicini allo spazio non la si dovrebbe neanche attendere, bisognerebbe solo aprire gli occhi e scegliere tra la luce e l’oblio: questo è il compito del Coach, tirarli fuori dalla loro caverna e farli scegliere. La narrazione è incalzate, i personaggi calzano agli attori come guanti, non  mi sento a teatro, la distanza che separa me stessa dal palcoscenico sembra non esistere, colmata dal silenzio della platea, interrotto spesso da risate: gli equivoci, l’ironia, il sarcasmo, il ridicolo, sono strumenti scelti dai drammaturghi e dai registi come mezzo di realtà, diceva infatti Madeleine L’Engle che una bella risata guarisce molte ferite, tagli che la drammaturgia di questo spettacolo riporta (dolori, disperazioni, dissolutezze, mancanze, assenze, privazioni, vuoti) alla mente di ognuno di noi, diventando, noi pubblico, soggetto stesso dell’analisi. Le scelte individuali condizionano la collettività ogni giorno, facciamo tutti parte di un grande gioco di squadra solo che ce ne siamo dimenticati; da lassù, dai cieli, come dei, i cinque personaggi assumono delle scelte e compiono azioni per se stessi soltanto, cercando di salvare disperatamente le loro vite sulla terra, preparando il terreno per quando ritorneranno; il loro egoismo però costerà la vita di tutti. I potenti, persone fragili con il potere di distruggere le vite degli altri come la propria, i potenti, persone che fuggono, lontane dal mondo e da loro stesse, nella speranza che tutto ciò che li circondi possa subire la loro stessa sorte, l’abbandono. Thanatos: Freud diceva che oltre all’eros, siamo fatti anche della più violenta voglia di farci a pezzi, l’uomo d’affari e il suo compagno scelgono l’oblio, gettandosi nel buio più profondo insieme. Il primo, affetto da una malattia degenerativa aveva vissuto gli ultimi anni della sua esistenza in preda al delirio di essere il numero uno, il lavoro era la sua ossessione, un ripiego, il successo, al suo fallimento come padre, uomo e persona.  Il suo compagno, uomo di spirito e spirituale,  aveva vissuto una vita senza scopo, non sentendosi mai all’altezza di nulla e trovando la sua occupazione nel prendersi cura dell’uomo che amava. Il personaggio del creatore di fake news aiuta in un impeto di generosità il suo servo, lo scienziato e biologo, nell’avere i campioni del DNA di specie rare o estinte, nella speranza forse, di fare la differenza, fugge alla ricerca di un riparo,  si distingue per codardia, tratto principale del suo carattere. La cantante invece non vuole fuggire, rimane su una sedia ad osservare e aspetta, forse di vedere la luce, arte. Il Coach nella sua missione di salvare il mondo da un disastro, approda su una terra la cui concatenazione di azioni non può più essere fermata, esplode e lui con essa. Rimangono nella clinica la cantante e il biologo: l’arte e la scienza, a prima vista incompatibili, devono unirsi per ricreare un mondo che ormai è scomparso. Ricominciare da capo, l’albero nella teca ha fatto i frutti, sono mele, non c’è né Dio, né il serpente, solo il frutto del peccato, Adamo ed Eva, ancora una volta. I soldi danno la felicità? No, non la danno e a quanto pare non rendono neanche liberi, la felicità sta nel prendersi cura della vita e coglierne i frutti. La mela non viene colta, la consapevolezza si fa, forse, strada nei loro cuori. Come ricomincerà la vita? E’ una domanda a cui non possiamo rispondere ma forse, l’unico modo per imparare a vivere è sbagliare. Che mordano quella mela.

Rossella Cutaia 

uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo
drammaturgia Gabriele Di Luca
con (in o.a.) Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Roberto Serpi, Massimiliano Setti, Ivan Zerbinati
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
assistente alla regia Matteo Berardinelli
consulenza filosofica Andrea Colamedici – TLON
musiche originali Massimiliano Setti
scenografia e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
creazioni video Igor Biddau
con la partecipazione video di Elsa Bossi, Sofia Ferrari e Nicoletta Ramorino
Una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione
Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto – Teatro Dimora |
La Corte Ospitale”

Wonderland


Cosa hanno in comune un corvo e una scrivania?

E’ con questo indovinello uscito direttamente dalla penna di Lewis Carroll, che si apre Wonderland al Teatro Gobetti.
Con le luci di sala ancora accese e con la divisione tra pubblico e performer non ancora netta, entriamo gradualmente all’interno della narrazione, attraverso giochi di parole che iniziano ad ingarbugliarsi.

Ph. Andrea Macchia

Sul palco non c’è nessuna Alice, siamo noi che cadiamo direttamente nella tana del Bianconiglio e ci ritroviamo in un mondo senza senso, in uno spettacolo che non ha una trama, ma dei semplici episodi che dobbiamo “riconoscere, piuttosto che comprendere”, come lo stesso Collettivo Effe tiene a precisare.

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WHISKEY E SOUBRETTE – Tedacà

Ordiniamo un drink al Le Roi Music Hall, come si usava fare nei Cafè Chantant e Cabaret alle origini del Varietà e ci lasciamo trascinare assieme ai ricordi di Bruno, il proprietario del locale ormai anziano che rivive le sue esperienze di vita personale e le rievocazioni degli spettacoli che ha ospitato sulla scena del suo music hall, partendo dagli anni Venti con Isa Bluette fino ad arrivare a Fred Buscaglione con gli anni Cinquanta.

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Coppia aperta quasi spalancata

Coppia aperta quasi spalancata,  questo è il titolo di uno dei più famosi spettacoli dal carattere comico riflessivo di Dario Fo e Franca Rame, che dal 1982 ad oggi ha registrato  più di 700 repliche in tutto il mondo. Viene riproposto a Torino, e non solo, prima al Teatro Stabile nel 2022 e poi, nel 2023, al Teatro Alfieri. Il 25 novembre di quest’anno, Chiara Francini e Alessandro Federico ci colpiscono e ci stupiscono con la loro interpretazione, in occasione, tra l’altro, della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il giorno non è casuale. La trama, sicuramente d’impatto ed attuale, scritta e recitata da Franca Rame, vuole denunciare il forte cambiamento di una società allora profondamente segnata da una violenza verso il genere femminile, ritenuta normale, che inizia passo dopo passo ad essere riconosciuta e trattata in quanto  tale. Franca Rame scrive questo testo in un atto di consapevolezza, come grido di indipendenza e crescita personale. Il 9 marzo 1973  fu infatti protagonista di un orribile episodio di rapimento, diventato violenza carnale e conclusosi con il suo abbandono in mezzo ad un parco da parte dei carnefici. Da donna forte quale si è dimostrata agisce nella politica così come nei teatri. A farne le veci nel 2023 sembra essere proprio Chiara Francini, in una performance che si sviluppa attentamente  in ogni suo gesto. La voce, troppo spesso spenta nella vita reale, diventa protagonista della scena, con decisissimi cambi di tonalità.  Ripetizioni, ansie e angosce si verificano in un loop interminabile, ci sentiamo anche noi in trappola, come lei, nell’amara verità che questa pièce teatrale sta violentemente ponendo dinnanzi ai nostri occhi con lo strumento, spesso crudele, della risata. Alessandro Federico non fa una performance di meno valore, anzi, l’odio e l’amarezza percepita nei suoi confronti dimostrano il suo carisma nell’interpretazione del personaggio,  tuttavia, è condannato, dallo spettacolo stesso, a scomparire dalla principale attenzione del pubblico. Gli attori parlano direttamente a noi, protagonisti più o meno coscienti della nostra stessa vita. La scenografia è costituita da un cubo centrale, le cui pareti, spostate e direzionate, costituiscono una casa, un ambiente familiare, all’interno del quale la violenza, fisica e psicologica, avviene da entrambe le parti, in una possessività sviluppata per disperazione.

 “Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti – diceva Franca Rame – È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca. Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura. Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido… Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani (Franca Rame per Vanity Fair).

Coppia aperta, quasi spalancata, solo se si tratta di uomo però, questo dice la stessa attrice nel suo personaggio: appena la donna inizia ad avvalersi delle proprie legittime libertà, ecco che l’uomo impazzisce, in preda ad istinti primordiali, in un carattere quasi primitivo. I riflettori non si pongono quindi solo su attori apprezzati e conosciuti o su coloro che prima di questi hanno esercitato questo tipo di teatro. I riflettori, chiedono al pubblico l’attenzione verso un tema che, dopo anni e molte battaglie, risulta essere ancora estremamente caldo e delicato, macchiato di un rosso acceso, lo stesso che sgorga dalle ferite di ogni donna, tagliata profondamente dalla lama della violenza. Le risate non mancano; eppure, vedere una donna, su un palco, in preda ad azioni suicide crea nel pubblico un atto di consapevolezza. Come faccio a saperlo? Davanti a me ci sono donne, che colpite da profondi ricordi si irrigidiscono ed eliminano qualsiasi contatto fisico con l’uomo al proprio fianco, altre invece, pervase da un sentimento positivo, appoggiano la propria testa sulla spalla del compagno, che con delicatezza dona un bacio, sulla fronte. I gesti parlano, così come i silenzi, ed arrivano dritti al cuore, come pugnali, armi bianche, macchiate di sangue. 

Rossella Cutaia

regia Alessandro Tedeschi
scenografia Katia Titolo
costumi Francesca di Giuliano
musiche Setti Pasino
luci Alessandro Barbieri
aiuto-regia Rachele Minelli
fonico Gianluca Meda
macchinista Raffaele Basile
foto di scena e grafica Manuela Giusto
organizzazione Marcella Santomassimo, Luisa Di Napoli
amministrazione Morena Lenti, Riccardo Rossi
produzione Infinito Teatro, Argot Produzioni

DENTRO. UNA STORIA VERA, SE VOLETE – GIULIANA MUSSO

UNA NITIDA SPORCA VERITÀ

Squilla un telefono per qualche secondo, poi una voce registrata: «Vi siete spaventati? Pensavate fosse il vostro telefono, vero? Ecco, ricordatevi di spegnerlo» e un sorriso divertito da parte di tutto il pubblico del Teatro Astra. Inizia così lo spettacolo Dentro di cui Giuliana Musso è attrice, drammaturga e regista. Un’introduzione simpatica a un esercizio teatrale che invece vedrà uscire gli spettatori tutto fuorché alleggeriti. 
Un pugno nello stomaco. Una verità che scuote.

Il palco si tinge di rosso: le sedie, l’illuminazione, il pavimento, tutto è rosso. Rosso è il simbolo della lotta alla violenza di genere, rosso il volto della rabbia provocata dall’ingiustizia, rosso è un urlo che non si censura più, che vuole farsi sentire.

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Dialogo con Roberto Tarasco, inventore della scenofonia. «Come un rabdomante trovo le luci e i suoni giusti per la scena»

La mia passione per il lavoro di Gabriele Vacis dura dal 2016, da due lezioni folgoranti, di cui ricordo ogni dettaglio.
Ricordo come entrò nell’aula, attraversando il grande spazio vuoto in silenzio, fino a raggiungere l’unica sedia della stanza, in mano l’Amleto tradotto da Cesare Garboli. Noi seduti per terra, attorno a lui.
Ricordo come ci mostrava le casse armoniche naturali del corpo umano, facendosi passare la voce dal naso, al diaframma e anche dietro nelle spalle. Me lo ricordo illustrarci la differenza tra tono, volume e ritmo, aggiungendo: «e state attenti alla manomissione delle parole. Nei talk show, quando dicono abbassate i toni si riferiscono al volume » e così poi ci dimostra come si può tenere una nota acutissima a un volume bassissimo.
Me lo ricordo citare Aldo Busi – con la veletta – che dice: «La letteratura è ritmo». Me lo ricordo mentre ci fa ascoltare l’Aria dalle Variazioni Goldberg suonata da Glenn Gould, prima negli anni’50, velocissima, e poi più lenta, nell’incisione degli anni ’80. «Glenn Gould» ci dice Vacis «incanta il tempo, quando leggete ad alta voce, avete la possibilità di incantare il tempo».
Me lo ricordo mentre tira fuori Il piccolo principe e parla dei lagami che si possono creare tra chi legge e chi ascolta; me lo ricordo mentre legge l’incipit de Il profumo, di Süskind, e dice: “La lingua è un’orchestra”. Me lo ricordo, il secondo giorno, quando ci ha preparati alla lettura ad alta voce, mostrandoci come si abita lo spazio e il tempo, come si sta in relazione con lo sguardo. Mi ricordo l’emozione, dopo quella lezione, di come abbiamo applaudito con le lacrime agli occhi, mentre lasciava l’aula.
Due lezioni intensissime che non bastavano a contenere il lavoro di una vita; volevo saperne di più.
Così l’ho cercato, e l’ho seguito il più possibile.
La prima cosa che ho imparato è che il suo teatro si declina solo al plurale, dagli esordi con Laboratorio Teatro Settimo, addirittura le regie dei primi lavori sono regie collettive. E se qualcosa ho capito del modo in cui lavora Vacis, un mistero per me rimaneva il processo creativo del suo sodale che lo accompagna dalla prima ora, Roberto Tarasco.
Tarasco si occupa di Scenofonia. Volevo saperne di più, e gli ho proposto di fare una chiacchierata assieme, mentre i PEM si preparano alla ripresa di Antigone e i suoi fratelli, che ha debuttato lo scorso anno alle fonderie Limone.
Tarasco è energico, le frasi sempre vitali, ama raccontare, ma prima centra il cuore della questione, senza troppi giri di parole.

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HANDLE WITH CARE – FUNA

Archivio emotivo di memorie mai vissute

Nell’ambito della seconda edizione del Nice Festival Torino, con una fitta programmazione durante l’intero mese di dicembre, è andata in scena la prima nazionale dello spettacolo Handle with care del collettivo femminile FUNA presso il Café Müller, teatro polivalente nel centro di Torino. Il festival propone una selezione di lavori di artisti e compagnie di calibro internazionale che spaziano dal circo al teatro, fino alla danza e alla musica dal vivo. Il tema di quest’anno è quello dell’identità e delle differenze, che trova nel circo contemporaneo la massima espressione dell’autenticità: concetto molto presente nella ricerca di FUNA. Il collettivo, nato a Napoli nel 2018, si muove tra la danza e il circo contemporaneo, le discipline aeree, la danza verticale e il teatro fisico al fine di ampliare i confini espressivi nel rapporto tra corpo, voce e spazio. Le performance sono spesso concepite per spazi scenici non convenzionali e outdoor come musei, luoghi pubblici, aree ex-industriali.

Dal dialogo con le tre coreografe ed interpreti Maria Anzivino, Ginevra Cecere e Viola Russo, è emerso che questo primo studio è stato concepito e pensato come un site specific per gli spazi del Café Müller a seguito di un problema tecnico che ha ostacolato la messa in scena del progetto precedentemente proposto.

“Avevamo immaginato di portare tutt’altro, una carrucola umana a una corda in tre, ma trovate nello spazio abbiamo capito che non era realizzabile e ci siamo reinventate facendoci ispirare dallo spazio” (Ginevra Cecere)

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Spettatore Condannato a Morte

La rappresentazione teatrale Spettatore condannato a morte avviene in un luogo suggestivo.  Ci troviamo a San Pietro in Vincoli, un ex cimitero, nello specifico in una chiesa sconsacrata. Ci accoglie un giardino esteso che guida i nostri passi verso la biglietteria: una donna, attenta e gentile, dopo averci dato i nostri biglietti, ci indica un tavolo dove farci servire delle bibite calde e dei dolcetti. L’atmosfera inizialmente fredda, comincia a riscaldarsi, ci sono dei portici, arredati con poltrone, tavolini ed altri arredi domestici; in fondo, il cimitero è una casa per tutti. Un’altra ragazza ci accoglie in un graditissimo tepore, un grembiulino blu le fascia la vita e i suoi capelli ricci, scendono delicatamente sulle spalle. Un biglietto della lotteria finisce nelle nostre mani “non perdetelo, vi servirà dopo per un’estrazione”. I nostri biglietti non hanno segnato il numero del posto, la coda per entrare nella chiesa è lunga e trepidante. Attendiamo. Scattano le 19 in punto. Un ragazzo, alto e dal viso valorizzato da un baffo, ci strappa i biglietti e ci fa entrare. I posti sembrano distribuiti casualmente, eppure, una signorina ci guida attentamente: siamo disposti in semicerchio, ricorda un anfiteatro, come fosse un rimando al teatro antico.

“Che entri il giudice”, siamo in una corte di giustizia e davanti a noi, con toghe nere, passo deciso e voce altisonante si dispongono un procuratore, un cancelliere ed un giudice appunto. Dalla regia di Beppe Rosso nasce il riadattamento del testo di Matei Visniec, un lavoro dagli intrecci notevoli e complessi, interpretato da attori professionisti e da alcuni  partecipanti ad un precedente laboratorio dedicato allo spettacolo, quelli che saranno i testimoni, la donna gentile della biglietteria, la ragazza dal grembiulino blu e dai capelli ricci e lo strappatore di biglietti dal baffo prominente. La performance attoriale è intrisa di improvvisazioni, equivoci e incomprensioni, la risata del pubblico si scatena incontrollata e talvolta quella degli stessi attori. Un dettaglio peró che rompe un po’ la magia della pièce teatrale, distogliendo l’attenzione dal testo e dall’importante messaggio che vuole trasmettere. La scenografia è mobile e dinamica come lo stesso spettacolo, il legno la fa da padrona. Il protagonista è il pubblico ed in particolare uno spettatore che entra nell’occhio del ciclone della performance teatrale. A tutti i costi questo spettatore deve essere condannato a morte, le figure giudiziarie chiedono aiuto al pubblico per poterlo condannare, un pubblico che si manifesterà curioso e silenzioso seppur divertito. Il testo di Visniec vuole raccontare di come la giustizia, spesso, si perda nella delirante ricerca di un colpevole senza restituire la reale importanza della verità.

Quanto è infatti necessario trovare un capro espiatorio nella società odierna? E’ altrettanto importante la scoperta della verità, del movente, di un perché? No, non lo è, l’esigenza umana di attribuire un volto alla rabbia e all’odio è naturale, la verità  è invece una ricerca razionale, tipica di una civiltà intelligente, senza pregiudizi. Noi però siamo chiamati a giudicare e in uno scambio tra testimoni, pulito, veloce e dinamico, osserviamo, senza agire, il compimento di quella che sembrerebbe un’ingiustizia. “Forza uccidetelo, dai, uno di voi, si alzi e prenda questo fucile, uccidetelo”, il pubblico è talvolta confuso, quasi nessuno risponde alle sollecitazioni degli attori: chissà, forse perché sappiamo di essere ad uno spettacolo. L’uomo imputato resta in scena, in un angolo, seduto su una sedia, protagonista consapevole seppur non preparato, complice di un equivoco che spinge il pubblico a chiedersi continuamente se sia attore o spettatore, ebbene, ecco la risposta.

Come si è sentito?

Beh, sicuramente è stato per me, spiazzante

Sentiva l’impulso di reagire? Se si, perché non lo ha fatto?

Si, sentivo l’impulso di reagire, se non mi avessero detto di non fare nulla, probabilmente mi sarei inventato qualcosa.

E cosa avrebbe fatto?

 Avrei avuto voglia di sparargli.

Il pubblico siede sul liminale tra finzione e realtà, un confine difficile da stabilire, nella vita come in teatro. Quello che mi ha sollecitata mentre le battute scorrevano una dietro l’altra è stata la volontà di scoprire il pensiero degli attori, in particolare quello del giudice, presente in tutte le scene. 

Ti sei divertito?

Si, molto, sarebbe stato un problema fosse stato il contrario.

Come è stato il rapporto con il regista nella costruzione di uno spettacolo dalla sceneggiatura così articolata?

Devo dire difficile, abbiamo però trovato un ottimo compromesso.

Quanto è importante il silenzio del pubblico ?

 In questo spettacolo, come in tanti altri, è fondamentale, scandisce il ritmo, come fosse un’armonia musicale.

Quanto è stata importante l’improvvisazione? 

Fondamentale, direi.

Quando chiedevate reazioni dal pubblico, sapevate già non sarebbero arrivate? Oppure non avete avuto le giuste risposte alle vostre sollecitazioni? 

Si, sapevamo già non sarebbero arrivate, fossero arrivate le avremmo sicuramente gestite con l’improvvisazione ma ritornando sempre alla sceneggiatura originale.

Porre queste domande e avere delle risposte ha chiarito tante mie perplessità nate durante lo svolgimento della pièce teatrale. Uno spettacolo che, a mio avviso, ha un potenziale incredibile, seppur per certi versi ancora latente. C’è però da specificare che questo è uno “spettacolo partecipato”, in cui solo 4 attori sono professionisti, le altre 25 persone intervenute in scena sono invece cittadini, reclutati per il laboratorio condotto da Beppe Rosso e Yuri D’agostino. Mi sento dunque di fare luce su questo “dettaglio” per evidenziare il grande lavoro fatto dalla regia e dall’aiuto regia . La tematica trattata, è infatti, estremamente attuale e ci chiede di osservare noi stessi dall’interno, una piccola società racchiusa in un ex spazio sacro, che ci porta ad una profonda analisi di coscienza, in fondo, come diceva Friedrich Nietzsche “dovremmo chiamare ogni verità falsa, se non la abbiamo accompagnata da almeno una risata”.

Rossella Cutaia


CREDITI

di Matei Visniec
traduzione Debora Milone e Beppe Rosso
Adattamento Beppe Rosso e Lorenzo De Iacovo
aiuto regia Yuri D’Agostino
regia Beppe Rosso
con Lorenzo Bartoli, Francesco Gargiulo, Andrea Triaca, Angelo Tronca e con venticinque cittadini nel ruolo dei testimoni
scene e luci Lucio Diana
riprese video Eleonora Diana
tecnico di compagnia Adriano Antonucci
sound Massimiliano Bressan
costruzione scene Marco Ferrero
produzione A.M.A. Factory

PRIMA NAZIONALE

Spettacolo programmato in collaborazione con Piemonte dal Vivo nell’ambito del progetto Corto Circuito

LA TRILOGIA DELLA GUERRA PT. 2 – di GABRIELE VACIS con PEM IMPRESA SOCIALE

Antigone e i suoi fratelli

Quel grande sentimento di “crisi della presenza”, per definirla alla Sartre, con cui si chiude Sette a Tebe, viene rievocato e messo in discussione anche in Antigone e i suoi fratelli, in particolare nel monologo scritto e interpretato da Lorenzo Tombesi di cui riportiamo un estratto:

Sono davvero invidioso dei giovani ucraini… gli è capitata la guerra e non hanno altra scelta che prendere in mano il fucile – ho voglia di guardare mia madre dall’alto disperarsi a causa mia, ma non per una multa per eccesso di velocità! Ho invidia di quelli che dall’Africa partono e non sanno dove vanno! Dico queste cose e allo stesso tempo mi accuso – mea culpa mea culpa mea culpa ma come faccio a non subire il fascino di chi sceglie di morire? Non voglio più avere tutte queste reti, tutte queste possibilità, tutte queste alternative! Come faccio a scegliere se c’è tutta questa scelta?

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