Il 20 ed il 21 settembre, alle Fonderie Limone per il Torinodanza Festival 2024, è andato in scena lo spettacolo di Marco da Silva Ferreira, Carcaça, una prima nazionale che si impone nel panorama teatro danza come rivelazione della stagione internazionale. Una vera e propria performance nata dalla commistione di diverse arti tra cui: l’arte visiva, la coreografia luci, l’utilizzo della voce e l’uso del corpo, esso stesso veicolo del cambiamento.
Settantacinque minuti di incessante energia: la musica tribale ha il sapore dei legami delle origini, quei legami profondamente instaurati con la propria terra, con la propria carne e con piccoli o grandi atti di sopravvivenza. Un ballerino, mutilato da un braccio, danza, con una protesi, in assoli che restituiscono all’immaginario dello spettatore sentimenti di forza, di volontà, di ribellione, di libertà e di sacrificio. Le coreografie di gruppo appaiono talvolta armonicamente dissonanti restituendo il significato stesso della rivolta: rumore, sovversione e unione. I costumi, ricchi di colori e sfumature, accentuano la bellezza della diversità, toni freddi e caldi, cromature e neri scurissimi, una varietà che sposa perfettamente l’anima eversiva dello show.
Cantiga sem maneras
“Unirci per fare un altro passo
De nos unirmos p’ra dar mais um passo
Combattiamo e ripuliamo
Vamos lutar e sanear
Saremo responsabili
Vamos ser nós a comandar
Con questa lotta per un nuovo mondo
Com esta luta por um mundo novo
E gli operai davanti a guidare
E os operários à frente a guiar
E ci sono così tante persone da combattere
E há tanta gente p’ra lutar
Per la democrazia popolare
P’la democracia popular…”
Due voci maschili, possenti ed intense cantano con sorpresa del pubblico: “Cantiga sem maneras”, un canto politico, del gruppo portoghese Vozes na Luta (GAC), per scelta non tradotto in lingua italiana dal coreografo. Il fervore latino originario e le vigorose vibrazioni di questo spettacolo traspaiono in ogni sua parte, dando al pubblico la possibilità di cogliere, facilmente, ogni sua tonalità. Gli spettatori accolgono infatti il ribollente sangue di Carcaça con fermento ed emozione. La narrazione della visione collettiva che Marco da Silva Ferreira possiede, raggiunge lo spettatore forte e chiaro: “l’unione fa la forza”. Il dolore in questo show resta presente ma flebile, prende la forma di un tappeto bianco steso sul palcoscenico, un tappeto impressionato dal calore del corpo dei ballerini che una volta alzatisi, lasciano un’orma indelebile, quella del loro corpo, un’ombra come in un negativo, come un attimo bloccato per sempre in una fotografia. I corpi dei performers sono ormai immobili, come cadaveri, la cui anima continua a danzare sulle note del dolore, un’intensa emozione che fa da sfondo al sentimento di giustizia. Il tappeto bianco diviene un telo che improvvisamente si innalza sul palcoscenico, la coreografia di luci di ogni tono lascia spazio al buio, poi, i ballerini, uno dopo l’altro, impressionano il telo nuovamente, questa volta con una luce, una piccola torcia. Compare piano piano, con la palpabile fatica dei performer un messaggio: “Tutti i muri cadono”. Quel tessuto dal colore puro diventa un muro, quello di Berlino chissà o forse un muro etico e morale o addirittura una barriera che impedisce alle persone di fuggire in cerca di una vita migliore. Il telo cade, una commemorazione forse, per tutti i muri già caduti ed un augurio, per tutti i muri che ci sono e che, prima o poi, cadranno.
“Ballate, voi esseri umani pieni di energia, prendete la vostra forza dalla terra stessa, che dai vostri piedi, come radici, possa raggiungere la mente e portarvi finalmente ad abbattere ogni muro. Noi esseri umani, tutti diversi per ricchezza e non per condanna, dovremmo imparare ad amarci, ad essere un’unica squadra, tanto grande da coprire un intero pianeta. Che il sangue che ribolle in ognuno di noi, possa essere lo stesso di chi l’ha perso lottando per la nostra libertà, noi che nel progresso vediamo l’amore prima dell’odio”. Queste parole, mie e mie soltanto, sono frutto della mia coscienza, scossa ancora dalla potente arte dell’accadere che questa volta, agisce sotto il nome di:Carcaça.
Rossella Cutaia
coreografia e direzione artistica Marco da Silva Ferreira assistenza artistica Catarina Miranda interpreti André Speedy, Fábio Krayze, Leo Ramos, Marc Oliveras Casas, Marco Da Silva Ferreira, Maria Antunes, Max Makowski, Mélanie Ferreira, Nelson Teunis, Nala Revlon tecnico del suono João Monteiro design delle luci Cárin Geada direzione tecnica Luísa Osório musica João Pais Filipe (percussionista) e Luís Pestana (musica elettronica) costumi Aleksandar Protic scenografia Emanuel Santos p.ulso | Big Pulse Dance Alliance con Il sostegno del Programma Creative Europe dell’Unione Europea
Nella Sala Piccola delle Fonderie Limone è andato in scena il 20 ed il 21 settembre lo spettacolo Il combattimento di Tancredi e Clorinda, una co-produzione del Torinodanza Festival. Un piccolo gioiellino la cui narrazione si concentra sul contrasto tra amore ed odio e le emozioni che li accompagnano. Struggimento, paura, rancore e risentimento, vengono elegantemente rappresentati dai ballerini Gador Lago Benito e Alberto Terribile, accompagnati dall’intensa performance canora del tenore Matteo Straffi e del clavicembalista Deniel Perer. Quattro interpreti per 25 minuti di spettacolo, commovente, profondamente sentito. Uno spettacolo dalle vibrazioni antiche. La dolcezza e la naturalezza dei movimenti regalano autenticità ad una vera storia d’amore, finita nel peggiore dei modi. L’affetto profondo talvolta ci svela la profondità di chi ci si pone d’innanzi, rendendoci però ciechi, nel vederne le oscurità. Una storia d’amore destinata alla tragedia, un raggio di realtà indiscussa, una rappresentazione della guerra più antica del nostro mondo, quella contro noi stessi e la persona che amiamo, l’unica, talvolta, ad avere il potere, di renderci completamente vulnerabili. Tancredi e Clorinda, ci confermano nuovamente quale sia l’esito di un buio che incombe inaspettato, quando le certezze su cui abbiamo umanamente costruito ogni nostra aspettativa, decadono.
Poco quindi lontan nel sen d’un monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empiè nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide e la conobbe: e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
Non morì già, che sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi col ferro uccise.
Mentre egli il suon de’sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise:
e in atto di morir lieta e vivace
dir parea: “S’apre il ciel: io vado in pace.”
Una pedana è protagonista del palcoscenico, dalla forma circolare, bianca, rappresenta un mondo, forse il loro. Col volto coperto, i due amanti- combattenti, lottano, corrono e si rincorrono, fuggono e si cercano. Il suono di ogni passo sulla pedana ricorda un battito del cuore, mi sovviene alla mente il suono onomatopeico del ritmo cardiaco, un’eco dall’inesauribile forza e costanza. Ad un tratto il suono si ferma, il cuore non batte più, la battaglia è terminata e l’amore con esso. Una corda unisce indissolubilmente i due amanti, che cinti in vita da essa, si incastrano e si intrecciano, si scontrano e si liberano ma senza mai allontanarsi davvero. L’anatomia dei corpi dei ballerini, restituisce il più alto ideale della carne: attrazione e rifiuto, bellezza, possenza e virtù ed allo stesso tempo, come nell’opera: L’anatomia di un abbraccio di Luna Lu, lo spettacolo, ci regala la possibilità di indagare le anime di Tancredi e Clorinda e vedere due cuori legati ma fragili. Il coinvolgimento che ho provato è stato per me un coinvolgimento totale, ogni nota del canto, scritto da Torquato Tasso, era intrisa di suspense e attesa, la danza, dai movimenti puliti e precisi, ha reso la narrazione chiara e limpida. Una storia quindi che tocca l’anima di ognuno di noi che abbia conosciuto nel suo viaggio di vita l’amore e l’innamoramento e che abbia fatto anche i conti con la perdita, il dolore di un errore e la delusione.
Tancredi e Clorinda sono un paradosso che abita ancora i giorni nostri e che credo fermamente non morirà mai, uno spettacolo quest’ultimo che celebra la sconfitta come libertà e la vittoria come condanna. Le sconfitte ci liberano e aprono davanti a noi le strade più luminose, come Clorinda che ora, troverà la sua pace. La vittoria invece, accecante, ci richiede un prezzo da pagare, talvolta la nostra stessa esistenza.
Rossella Cutaia
regia e visual Fabio Cherstich coreografia e movimenti scenici Philippe Kratz musica Claudio Monteverdi danzatori Gador Lago Benito, Alberto Terribile tenore Matteo Straffi clavicembalo Deniel Perer
<<Il fatto che qualsiasi insieme di condizioni (HOW) si traduca sempre in incentivi specifici (WHY) per gli individui coinvolti, è ciò che definisce il ruolo del coreografo. Poiché c’è sempre il problema di dover predefinire queste condizioni//incentivi, in base alla propria visione del mondo. Domande primordiali come autorità, sovranità, libertà, verità, entrano in gioco nel processo di definizione delle condizioni coreografiche.>> Emanuel Gat
Con Freedom Sonata Emanuel Gat inaugura il Torinodanza Festival 2024. Il pubblico è scalpitante nell’attesa di vedere in prima assoluta il nuovo spettacolo del pluripremiato coreografo. Quattordici ballerini danzano sulle note di Kanye West per la Sonata della libertà. L’esibizione è dinamica, fluida, armonica, i movimenti dei ballerini sono un tutt’uno con la musica, non sono ammesse dissonanze, la coordinazione sembra essere la chiave di questa danza polifonica.
La coreografia di Emanuel Gat sembra raccontare della quotidianità, del tempo che passa, della fragilità dell’essere umano e della sua forza. Questo spettacolo parla della vita umana, un pendolo che oscilla tra dolore e gioia passando attraverso un fugace attimo di pura danza. La vita non è solo in bianco e nero, è anzi colma di sfumature, ombre e luci che la Emanuel Gat company ci racconta attraverso il movimento e la scenografia. Il tappeto danza da nero, diventa bianco, anche i colori dei costumi dei performer si invertono, da un puro e fanciullesco bianco ad un più maturo e profondo nero. Il coreografo sembra quindi porci dinanzi ad un’etica del contrasto; la totale assenza di colore e la luce sfavillante, il palco con i suoi danzatori sembra ormai essere un negativo della realtà. I ballerini, un rotolo alla volta, distendono il nuovo tappeto collaborando fra di loro, per un momento la magia della danza si ferma e lascia spazio alla magia dell’umanità, l’uomo, animale sociale, il quale coopera con altri suoi simili nell’inconscia speranza di imparare il valore dell’amicizia, dell’amore e della solitudine. Il tappeto diventa il simbolo della trasformazione, su di esso rimbalzano le luci ed i ballerini alternano momenti di gruppo a momenti dedicati a performance da solista, una ballerina cerca il suo equilibrio su una sottile linea d’ombra. La spensieratezza nei movimenti dei performer presto si trasforma in tormento e poi ancora in leggerezza, i ballerini sembrano incarnare l’esatto momento nel quale ognuno di noi da fanciullo diventa adulto, un momento dove il passare del tempo diventa concreto e inesorabile e la cui unica modalità di affrontarlo sembra essere quella di lasciarsi andare, liberi di esprimere il proprio rapporto con gli altri e con sé stessi, liberi di farsi trasportare dai ricordi e dai sentimenti, liberi di condividere carezze affettuose o lotte impetuose. Il corpo parla dell’anima che lo abita, la carne ne racconta il passato, morbida è la musica che guida il nostro sguardo nell’interpretazione di ogni movimento e così ci lega, indissolubilmente, a quella coreografia che ora, è anche un po’ nostra. La vita è essa stessa una coreografia, ossia “un sistema operativo che consente ad individui e gruppi, di creare e condividere contenuti e significati attraverso l’azione” (Emanuel Gat).
Il diaframma dei ballerini si contrae sempre più, la fatica è visibile anche dalla platea, il respiro si affanna ed i passi sono sempre più pesanti. La sensazione di leggerezza e spensieratezza però non mi lascia, vorrei anche io ballare con loro, su quel tappeto. Vorrei imparare a lasciarmi trasportare, da ciò che accade, talvolta dagli altri o dai suoni della città, da una Sonata magari, da una Freedom Sonata.
L’eco degli applausi sovrasta le grida di approvazione, la disciplina è finita e quel silenzio che aveva governato la platea, curiosa e attenta, ora si rompe in un grido di libertà.
5 temi con variazioni | It takes one | Welcome two | Carte blanche
Giunto alla sua ottava edizione, Made4You, sotto la direzione artistica di Pompea Santoro, in collaborazione con il TPE, Paolo Mohovich e Palcoscenico Danza, è un progetto che spalanca le porte sul mondo della coreografia, quest’anno interamente dedicata all’Eko Dance Project. Tre giovani coreografi, ex danzatori dell’Eko Dance Alta Formazione e ora professionisti in compagnie di prestigio, condividono le loro creazioni sullo stesso palco: Simone Repele, Sasha Riva, Edoardo Cino e Tiziano Pilloni. Protagonista della serata, Fernando Suels Mendoza, figura di spicco del Tanz Theater Wuppertal di Pina Bausch.
Quando si entra a teatro, solitamente, è prassi comune svolgere un certo tipo di rituale comportamentale: guardarsi un po’ intorno per cercare il proprio posto, poi scrutare qua e là tra la baraonda di persone alla ricerca di qualche faccia amica con cui scambiare una chiacchiera e infine entrare in maniera più o meno unanime in uno stato di chiara attesa, che coglie ognuno in modi inaspettati e diversi ma che pone quasi sempre le persone di fronte ad un sipario, nero e ben tirato. E a meno che non si abbia letto il libretto di sala o si abbia visto il trailer su YouTube, non ci si aspetta nulla. Il sipario nero ti conferma un non detto, lo sguardo comincia la sua esperienza teatrale in modalità neutra.
Pompea Santoro e la nuova produzione della Eko Dance Project
Anche se la danza nel nostro paese deve farsi riconoscere e soprattutto sopravvivere a suon di grands battements, c’è chi tiene duro e percorre sentieri a volte impervi pur di onorare la Musa Tersicore. Il caso di Pompea Santoro è emblematico e traccia un percorso che è tutto rivolto alle new generation di danzatori e coreografi che trovano nel progetto EDP quelle possibilità che spesso vengono negate dalle istituzioni preposte a causa del ginepraio di una burocrazia contorta, spesso condizionata da ingerenze pseudopolitiche. Lei, forte della sua esperienza internazionale che l’ha vista protagonista di grandi produzioni, si pone come filtro rigenerativo e catartico, proponendo una forma di laboratorio che è allo stesso tempo fucina di produzione e messa in scena, e lo fa con sempre rinnovato entusiasmo.
Come nasce Eko Dance Project ?
Non è mai stato nelle mie intenzioni, nemmeno nei mie programmi e neppure nei miei desideri, io lavoravo principalmente per Mats Ek, mi sono trasferita in Italia e giravo nei teatri per rimontare le sue coreografie, ad un certo punto mi hanno chiesto di insegnare, ho sempre amato l’insegnamento fin da molto giovane è una cosa che sentivo tanto mia e quindi questa opportunità l’ho accolta con molto entusiasmo. Ho iniziato con la compagnia di Paolo Mohovich, poi ho continuato con la scuola di Loredana Furno ed anche per la sua compagnia. Mi sono ritrovata alle Lavanderie a vapore con una decina di ragazze che al mattino venivano a prendere lezione regolarmente, tutte intorno ai diciannove vent’anni. Sempre Loredana mi propone di preparare qualcosa con queste giovani in occasione dello spettacolo della scuola. Premetto che avevo iniziato un po’ per gioco a insegnare loro Giselle secondo atto di Mats Ek e Loredana mi propose di presentare il lavoro a scopo educativo e così abbiamo fatto. La combinazione ha voluto che fosse presente allo spettacolo Claudia Allasia la quale tornò anche la seconda sera assieme a Piero Ragionieri , mancato nel 2021, che allora era Direttore della Fondazione Piemonte dal Vivo. Lui ne fu entusiasta al puto da chiedermi di iniziare qualcosa a Torino e così feci, era verso la fine del 2012 quando fondai l’associazione Eko Dance Project. Non ho mai fatto audizioni, i ragazzi arrivavano spontaneamente, tra i primi ci furono il danzatore e coreografo Andrea Zardi che successivamente ha conseguito il Dottorato di ricerca presso l’Università di Torino nell’ambito del rapporto Studi di Danza e Neuroestetica e Giorgia Bonetto mia assistente, danzatrice e insegnante, lei è ancora con me sin dall’inizio del progetto. Spesso sono colleghe che hanno accademie sparse in tutta Italia a mandarmi i loro allievi, per fare esperienza ed esplorare quello che c’è oltre lo studio accademico. Questo non significa che alla Eko si abbandona la tecnica classica che ritengo sia fondamentale e imprescindibile. La danza accademica deve essere sempre al servizio di qualsiasi stile si affronti, poi ovviamente ci possono essere stili in cui la tecnica devi completamente dimenticarla, ma se un danzatore è aperto e duttile fa in fretta ad adeguarsi, cosa impossibile se invece un danzatore non possiede una solida tecnica accademica.
Mi stai dicendo in sintesi che la tecnica classica è la base indispensabile per affrontare le coreografie di Matz EK
È così, non è una opinione è come la matematica, e non solo per Matz Ek ma anche per altri stili di danza contemporanei. Credo che ancora si fa troppa distinzione tra il balletto classico e quello contemporaneo, per me non è così, per me una si sposa con l’altra, un danzatore si forma con la tecnica classica, la tecnica è qualcosa che ti permette di conoscere il tuo corpo a fondo, ti permette di muoverlo perché ti rende consapevole, ti ha permesso di sentire e gestire il tuo corpo.
Più tecnica hai più libero sei di gestire i movimenti a prescindere dallo stile di danza.
Io mi sono allenata con la tecnica classica tutte le mattine per tutta la mia vita ma poi non ho usato quel materiale per esprimermi, ma la tecnica mi ha permesso di danzare quello che mi veniva chiesto, potevo guidare il mio corpo senza problemi perché la tecnica mi permetteva di aver accesso e guidarlo come desideravo. Continuo a pensarla così e la Eko Dance si basa proprio su questo pensiero. Infatti i miei ragazzi tutte le mattine si allenano e si preparano con la lezione di classico.
Ci sono altri direttori di compagnie che come te hanno dato spazio a giovani coreografi nel nostro paese ?
Mi viene in mente Cristina Bozzolini con il Balletto di Toscana, con lei sono nati tanti coreografi, poi c’è da dire che per le compagnie è più rischioso mentre nel mio caso, essendo il mio un progetto di alta formazione, si colloca in modo naturale nelle sue finalità principali.
Credo che un giovane coreografo così come un danzatore abbia bisogno di una guida ed è qui che trova il materiale di cui necessita. Spesso i giovani coreografi si trovano soli ad affrontare il difficile percorso artistico, non hanno una guida esperta che li consigli indicando loro soluzioni adatte al loro scopo, soluzioni date soprattutto da artisti che hanno avuto una grande esperienza nel settore.
Cose pensi della situazione danza in Italia ?
In Italia di possibilità ce ne sono pari a zero, a parte l’Aterballetto che comunque fa un repertorio vasto le altre sono quasi tutte compagnie d’autore dove prevalentemente si mettono in scena coreografie degli stessi direttori e poi ci sono compagnie come il Balletto di Torino, il Balletto di Roma ma certo la produzione nazionale è abbastanza scarsa. Spesso ci sono giovani talenti che trovano spazio all’estero e non in Italia. Certo anche per me è un rischio mettere in scena lavori inediti creati da autori sconosciuti ma credo che l’opera artistica sia da sempre soggetta alla critica, una coreografia può piacere o non piacere ma questo non deve rappresentare un deterrente, l’importante è che il livello dei danzatori sia sempre al top, il pubblico può non apprezzare il lavoro coreografico ma sarà sempre pronto ad applaudire danzatori preparati.
Parlaci di questa nuova produzione
Il tema di questo spettacolo è volare oltre, quindi ho pensato di trattare uno degli argomenti più caldi che è questa identità di genere, il femminile il maschile. Ho pensato subito una cosa : “ facciamo che i ballerini li vestiamo tutti uguali, tutti, uomini e donne avranno lo stesso costume in tutte le coreografie”, quindi non abbiamo la donna con la gonna e il maschio col pantalone, niente ruoli . Certo fisicamente nasciamo uomo e donna poi nella vita si è liberi di essere ciò che si vuole. Per tornare allo spettacolo ogni pezzo ha un tema preciso come: l’amore, la passione, le relazioni umane, la resilienza e la speranza . Il mio lavoro è stato quello di assistere i coreografi ed aiutarli nel lavoro di costruzione, spesso stimolandoli alla riflessione sul concetto di significato del movimento.
Ci saranno repliche di questo spettacolo ?
Guarda qui andiamo a toccare un tasto dolente perché quando si va a proporre uno spettacolo nei teatri sono tutti alla ricerca del titolone e si perdono delle occasioni per mettere in cartellone degli ottimi spettacoli, per esempio noi abbiamo riempito il teatro per ben tre serate, c’era anche l’Assessore alla cultura, il Professor Pontremoli che è rimasto affascinato dalla serata, mi chiedo perché il direttore di un teatro non rischi un pochino e affianchi al titolone anche spettacoli nuovi, fatti da giovani di talento.
MADE4YOU.EU
Stili diversi con un unico obbiettivo, eliminare le barriere tra uomo e donna, tra quello che è femminile e maschile.
IL TUO VENTO
Coreografia di Eva Calanni Assistente: Giorgia Bonetto Musica: “Neo” C. Loffler, “Nil” di C. Loffler, “Only the wind” O. Arnalds Arcadia di Apparat Interpreti: Andrea Carozzi, Isabelle Zabot, Francesco Polese, Francesca Raballo.
Il tuo vento vuole esprimere quella forza dentro ognuno di noi, in grado di farci volare oltre le barriere della vita. Quel segreto che abbiamo dentro, che nel momento in cui viene liberato, riesce a farci sentire liberi di essere, semplicemente, noi stessi.
HIGHER GROUND
Coreografia: Pedro Lozano Gomez Assistente: Giorgia Bonetto Musica: Fabian Reimair and Pyotr Ilyich Tchaikovsky Luci: Mauro Panizza Interpreti: Gaia Triacca, Jennifer Mauri, Arianna Reggio, Enrico Benedet, Isabelle Zabot.
La linea è sottile tra il trattenere e il sapere, mille miglia tra correre e crescere. Sarà la luce dietro questo caos a guidarmi? Vorrei che fosse il coraggio a trovarmi, a poco a poco da questa dannazione costruiremo una nazione più forte.
DEMOISELLES
Coreografia: Giovanni Insaudo Assistente: Giorgia Bonetto Musica: Matthew Herbert- the wonder/credits, Davidson Jaconello a midnight’s summer dream (musica inedita), Woodkid-otto Costumi: Giovanni Insaudo Luci: Mauro Panizza Interpreti: Andrea Carozzi, Gaia Triacca, Francesco Polese, Isabelle Zabot, Francesca Raballo, Chiara Colombo, Cecilia Napoli.
La narrazione trae ispirazione dal dipinto di Pablo Picasso “Les Demoiselles d’Avignone”. I personaggi nel dipinto prendono vita, sviluppano nuove relazioni tra esse e ci lasciano scorgere diverse visioni dell’interpretazione personale che il coreografo ha voluto dare interpretando il dipinto e trasformandolo da tela piatta a pittura in rilievo. Si racconta della donna, degli esseri umani, delle loro vulnerabilità e delle loro libertà di genere, allo stesso tempo si racconta dell’unicità di ognuno dei caratteri che prendono vita all’interno del pezzo.
INTERMEZZO
Coreografia: Marco Prete Musica: Phoria, “Current” Luci: Mauro Panizza Interpreti: Anna Del Bel Belluz, Bianca Cintelli, Celeste Olei, Alessia Coda Zabetta
DesOrder
Coreografia: Ken Ossola Musica: Polle van Genechten Testo: Martino Muller Voce: Martijn Verhagen Interpreti: Eko Dance Alta Formazione, Eko Dance Compagnia.
Prima collaborazione con Eko dance Project e con il talentuoso compositore olandese Polle van Genechten. All’inizio i danzatori sono controllati da fili come delle marionette che si muovono per spingersi oltre i confini, verso la ricerca di un senso di libertà, fisicamente e spiritualmente.
Fidati del destino e lasciati andare per trovare il vero significato della vita.
“L'occhio aperto e l'orecchio vigile trasformano le più piccole scosse in grandi esperienze. Da tutte le parti affluiscono voci e il mondo risuona.”
V. Kandiskij
Il Collettivo MINE viene ospitato al Festival Interplay ’22con lo spettacolo che segna la nascita del gruppo, nato dall’incontro artistico tra cinque coreografə il cui intento è quello di sperimentare un lavoro di creazione orizzontale e una scrittura a dieci mani, attraverso un percorso di ricerca nutrito da costante condivisione e contaminazione di pratiche e linguaggi. Ed è il palco della Lavanderia a Vapore di Collegno, che ricordiamo essere l’unico centro di residenza per la danza in Piemonte, nella cornice, appunto, del festival di danza contemporanea e performing arts Interplay/22, ad accogliere nella serata di mercoledì 8 giugno MINE con Esercizi per un manifesto poetico, in prima regionale.
Nella serata di sabato 28 maggio, una settimana dopo l’opening dell’ultima edizione di Interplay 22 – Festival internazionale di danza contemporanea e performing art – sono andati in scena al Teatro Astra di Torino i lavori di Giselda Ranieri, Roberto Tedesco e Thomas Noone. Gli ultimi due firmano le coreografie per la MM Contemporary Dance Company di Michele Merola. Il Festival, che, come nelle precedenti edizioni, vuole essere un luogo di incontro tra giovani artisti nazionali e internazionali, pubblico e operatori, quest’anno tocca tematiche che vanno dalle diseguaglianze sociali alle discriminazioni di genere, senza spostare troppo lo sguardo, in ogni caso, dal tema di fondo, ovvero la bellezza che, mediante l’arte, può anche divenire importante strumento di lotta alla violenza. In questa edizione di Interplay/22, inoltre, anche lo spazio performativo acquista particolare importanza e, attraverso una programmazione che esplora luoghi periferici, o inconsueti, della città per performance outdoor, tenta di smarcarsi dagli spazi generalmente adibiti all’intrattenimento e allo spettacolo dal vivo. Desiderio che si è senz’altro intensificato nel ritorno del festival in presenza, dopo i due scorsi anni, colorandosi di un entusiasmo che sembra voler rilanciare una tematica molto citata già da fine anni Sessanta, quella del “decentramento”, ma che di fatto, il più delle volte e negli anni a venire, si è risolta in progetti astratti o estemporanei. Per quanto riguarda, invece, il panorama internazionale, per quest’edizione il focus è sulla Spagna, con cinque compagnie selezionate all’interno della rete spagnola A Cielo Abierto, sempre nell’ottica di portare in scena il più possibile artistə fuori dai circuiti mainstream, e mostrare i percorsi più inediti e più interessanti della scena extra-nazionale.
“White Out è l’omaggio a tutti gli alpinisti che sono spariti, o che scelgono il rischio di sparire, nel bianco senza fine delle altezze. I conquistatori dell’inutile.”
Giovedì 31 marzo 2022 la stagione Palcoscenico Danza di TPE ha ospitato al Teatro Astra l’ultima data torinese, dopo un intenso percorso a tre anni dal debutto nazionale, di White Out – la conquista dell’inutile di Piergiorgio Milano. Ad accoglierlo il tutto esaurito in sala e un pubblico che attende frizzante l’inizio dello spettacolo. La scena, invece, all’opposto della platea, è vuota e silenziosa, ricoperta soltanto da un lieve strato di neve; un vuoto che sembra prepararsi, come a prendere la rincorsa, ad esplodere in tutta la sua affascinante forza solitaria. Durante i sessanta minuti seguenti, infatti, il pubblico verrà trasportato sulla vetta di una montagna a 7000 metri di altitudine. Non si vedrà davvero una montagna in scena, ma il freddo, il rumore del vento, una solitudine bianca e la paura, andranno ad abitare l’immensità di uno spazio senza coordinate precise, dove l’aspirazione a scalare una vetta sarà l’unico obiettivo certo. Quale sarà la forma – reale o immaginaria – di questa vetta, cambierà a seconda dello sguardo. Ma questo non è ciò che conta veramente, come non è fondamentale domandarsi chi resterà vivo, oppure no, al termine della spedizione. La lanterna che illumina questa storia di moltitudini sarà la determinazione che spinge l’uomo a tenere salda la fune, sospesa nel vuoto, per compiere gli ultimi passi di una parete invisibile, e giungere, infine, alla conquista della propria – inutile – vetta.