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NID Platform 2017 – Le mode e le manie italiane della danza contemporanea

La piattaforma nel gergo del mercato dello spettacolo dal vivo è uno spazio espositivo nel quale gli artisti possono presentare i loro lavori direttamente ad un gran numero di operatori, riuniti a raccolta, che diversamente sarebbe difficile raggiungere. Direttori di teatri, di circuiti e di festival sono chiamati a vedere quella che viene considerata dalla commissione preposta alle scelte la migliore offerta di spettacolo di cui dispone un determinato territorio. Qui si possono incontrare direttamente artisti e compagnie senza mediazioni e (in teoria) senza pregiudizi, per acquistare, promuovere, supportare le produzioni che si reputano più adatte al settore di riferimento. Un “testa a testa” fra domanda e offerta che prende anche il nome, più appropriatamente, di vetrina.

Nel caso della NID Platform, manifestazione giunta quest’anno alla sua quarta edizione e tenutasi a Gorizia, al confine italiano con la Slovenia, il prodotto al centro dell’attenzione del mercato è la nuova danza italiana: New Italian Dance è infatti il significato dell’acronimo che le dà il nome. L’obiettivo della vetrina è quindi, oltre a vendere le produzioni proposte, quello di creare una solida rete attraverso la circuitazione coreografica che arrivi ad attrarre anche operatori stranieri, così da far competere la danza locale sui mercati internazionali.

Diciassette spettacoli, proiezioni cinematografiche, lezioni, convegni e tavole rotonde animano Gorizia nei quattro giorni della vetrina, rilevando e consolidando l’importanza e l’autonomia che l’arte tersicorea è andata rapidamente assumendo negli ultimi anni, attraverso una capillare diffusione del suo linguaggio su più strati sociali. Un processo di crescita che è frutto di precise politiche di multidisciplinarità e di audience development oggi condivise da tutto il sistema dello spettacolo, a loro volta inserite nella più vasta direzione dell’internazionalizzazione dei mercati. Strategia, questa, espressamente finalizzata ad una migliore e più fertile comunicazione tra sistemi, tanto produttivi quanto culturali, di diversi paesi. L’europeismo, o mondialismo che dir si voglia, svolge infatti in epoca contemporanea un ruolo per niente secondario ai fini della nuova definizione storica, estetica e filosofica dell’attività artistico-culturale propria di ogni paese, settore, contesto umano. Per quel che riguarda la produzione coreutica basti sottolineare che quest’anno si è scelta come regione ospitante la vetrina di danza il Friuli-Venezia-Giulia, al confine strategico fra Italia e Slovenia. Ma se un confronto con l’Europa si è effettivamente ed inevitabilmente aperto sotto ogni aspetto, la coreografia italiana sarà in grado di far valere un suo linguaggio definito e condiviso, all’altezza di quelli rivali ed altrettanto capace di veicolare lo spirito nazionale (se di uno spirito nazionale ancora si può parlare)? La domanda è viva e necessaria. Le mode che l’appuntamento NID ha presentato al pubblico di operatori riguardano tendenze già più o meno sviluppatesi e consolidatesi all’interno del contesto della produzione della danza contemporanea. Ma quanto di italiano c’era in quello che abbiamo visto? Per farci un’idea proviamo a delineare una panoramica delle principali mode (e manie) ivi emerse ed i relativi nomi di punta che le han generate, soffermandoci sui soli spettacoli cui abbiamo assistito.

La più “classica” ed intramontabile tendenza riguarda una certa inclinazione esistenzialista, proveniente direttamente dalla tradizione drammaturgica novecentesca. Questa è sicuramente il motore di In girum imus nocte et consumimur igni, lungo e travagliato spettacolo di Roberto Castello, celebre coreografo torinese proveniente dalla storica esperienza dei Sosta Palmizi, che riflette sulla condizione umana appoggiandosi alle riflessioni ideologiche di Guy Debord, tra la denuncia e la commiserazione. Alla stessa linea guida appartiene Everything is ok, un solo del giovane autore Marco D’Agostin che porta in scena il tacito disagio dello sguardo contemporaneo, costantemente sovraccaricato di immagini fino alla soglia della volgarità.

Una seconda attitudine sembra essere quella che interessa la riflessione digitale e la condizione umana nell’epoca del web, spesso condotta con tanto di software e computer direttamente utilizzati sul palco in tempo reale. A cimentarsi in questa sperimentazione è lo spettacolo Home alone, di Alessandro Sciarroni. Il coreografo marchigiano tenta però di strutturare il lavoro sposando anche i dettami di quella che si presenta come una terza tendenza della danza contemporanea: la produzione di spettacoli coreutici pensati appositamente per un pubblico giovane. Il risultato, un collage di più stilemi, confusi e non adeguatamente portati a compimento, sembra mancare di entusiasmo creativo. Anche Il gatto con gli stivali, realizzato appositamente per i più piccini da Roberto Lori, con la direzione artistica di Simona Bucci, adotta una drammaturgia ed una coreografia ancora troppo povere per convincere tanto gli adulti quanto i bambini.

Altra moda tutta contemporanea è quella di un’estetica del gesto tanto accurata da motivare da sola l’intero spettacolo di danza. È il caso di We_pop, breve pezzo di Davide Valrosso, fra i più giovani autori della vetrina, il quale, in scena con Maurizio Giunti (entrambi danzano nella Compagnia Virgilio Sieni), costruisce e decostruisce delicate linee plastiche e precisissime trame coreografiche che nel loro costante mutamento definiscono una sintesi tra universo concettuale e universo pop. Tendenza questa ampiamente condivisa da Trigger, attraente assolo di Annamaria Ajmone, coreografa e danzatrice altrettanto giovane, che abita spazi non teatrali costruendovi plastiche coreografie site-specific, scritte nel rispetto e nel dialogo con l’architettura degli ambienti in cui si inserisce e dei corpi del pubblico seduto intorno a lei. La danzatrice risponde alla condivisa necessità di abitare luoghi storici e/o inconsueti secondo modalità nuove e inattese, percorrendo quella che è sicuramente una diretta linea ideologica già propria di Virgilio Sieni, e che va oggi ampiamente diffondendosi tra i nuovi coreografi italiani.

Una danza meta-coreografica è poi quella di Silvia Gribaudi, autrice di R.OSA_ 10 esercizi per nuovi virtuosismi, che, attraverso il corpo atipico, per misure e capacità tecniche, di Claudia Marsicano, riflette con acume ed ironia sullo stesso mondo della danza, dello spettacolo e dell’apparire.

Infine citiamo ancora il doppio spettacolo della compagnia Aterballetto di Reggio Emilia, punto di riferimento per l’intera produzione coreica italiana, che già pochi giorni prima aveva registrato il sold out alla sua prima assoluta per Torino Danza. Cristiana Morganti è la coreografa del primo pezzo, Non sapevano dove lasciarmi…, al quale restituisce l’influenza della sua lunga collaborazione con Pina Bausch, attraverso citazioni, commistione di stili teatrali e coreici, attenzione nei confronti delle singole personalità degli interpreti. Il secondo pezzo è Wolf, dell’autore israeliano Hofesh Shechter, proveniente dalla Batsheva Dance Company di Ohad Naharin, e che della celebre compagnia ha conservato, esportandoli, i caratteri di potenza e di aggressività corale perfettamente inscritti in coreografie impeccabili, debitrci di quel “metodo Gaga” che ha reso famoso Naharin in tutto il mondo.

A questo punto vien da chiedersi quale sia, o quali siano, se ve ne sono, fra tutti gli stilemi qui sintetizzati (in modo assolutamente non esaustivo) quelli più specificatamente italiani? La domanda è aperta a tutti e da tutti la nostra danza necessita di una risposta. Ne va di una sana intesa critica, fondamentale al ristabilirsi di un rapporto di fiducia tra spettatore e mondo dello spettacolo. Nonché della possibilità di orientarsi nel complesso orizzonte contemporaneo in cui opera la danza stessa, nel quale non esistono più generi specifici e dove l’offerta sembra diventare pressoché illimitata. A sostegno di una rifondazione della fiducia dello spettatore ricordiamo che lavorare per incrementare il pubblico dello spettacolo dal vivo non significa né andare acriticamente incontro alle sue passioni, né convincerlo ad amare le novità: in entrambi i casi il rischio è di preservare la distanza fra spettatore e mondo dello spettacolo. Sul piano di un’etica della cultura, dove ancora se ne possa delineare una, creare un bisogno che non esiste è quanto di più anticulturale l’industria della cultura possa fare. In un indesiderabile contesto del genere si rischierebbe infatti l’affermazione incontrollata di una grossa quantità di produzione artistica che, non facendo più riferimento a nessun orizzonte di senso condiviso, verrebbe promulgata con volgarità nei confronti di un pubblico il quale, pur non avvertendone il bisogno, non saprebbe più far altro che subirla. La questione è molto complessa è non è permesso sottovalutarla.

Quello della NID Platform si è dimostrato tuttavia, al di là delle possibili problematiche di sostanza etica e di confronto internazionalista, un resoconto molto positivo. La danza contemporanea cresce e si vede, si ampliano il mercato ed il relativo pubblico interessato, gli spazi dedicati (festival, centri di produzione, programmazione all’interno dei teatri) aumentano di giorno in giorno. Ma soprattutto si sviluppa il rispetto nei confronti di una materia che aggrega e produce cultura ormai ben al di là della ristretta “comunità della danza”. La qualità coreografica è un prodotto gradualmente più riconoscibile e riconosciuto dal pubblico.

Se come emerso da dibattiti e conferenze tenutesi nel periodo della vetrina, la danza contemporanea si dimostra oggi il linguaggio che meglio veicola le più complesse tematiche sociali e i cruciali quesiti umani del nuovo millennio, e lo fa tra l’altro proponendo la ricerca più avanguardistica, quanto essa ha ancora da invidiare ad altre meno incisive forme d’intrattenimento? La specificità dell’espressione coreutica avverte davvero la necessità di essere “appoggiata” da quella teatrale? Tale prospettiva, che ha sicuramente motivo di esistere sul piano produttivo-economico, richiede una particolare accortezza nei confronti delle nuove estetiche coreiche affinché queste si conservino autonome e ne venga rispettato il naturale sviluppo.

 

Tobia Rossetti

Il Cantico dei Cantici di Virgilio Sieni

Attribuito a Salomone, terzo re d’Israele, il Cantico dei cantici è un testo biblico suddiviso in otto capitoli che ragiona sulle tematiche amorose offrendosi a numerose possibilità interpretative. In tale gioco esegetico si è recentemente cimentato Virgilio Sieni, coreografo di punta della danza contemporanea italiana, ispiratosi al cantico per una delle ultime produzioni della sua compagnia. Lo abbiamo visto all’Auditorium Melotti, all’interno del complesso architettonico che ospita il Mart, a Rovereto, dove la solenne modernità progettistica di Mario Botta entra in dialettica con il silenzio primitivo evocato dalla coreografia di Sieni. Il celebre autore fiorentino, infatti, sembra aver conservato del testo sacro gli aspetti morali più alti, in una lettura dei valori di ascolto e di comunione mai trattata in modo esageratamente astratto. Umano e umanesimo si confrontano tra palcoscenico e teoria della danza.

Lo spettacolo colpisce per l’indiscutibile livello di qualità al quale la Compagnia Virgilio Sieni può permettersi di operare. La scenografia è scarna ma efficace: un grande disco dorato, appositamente realizzato da artigiani toscani, fa da tappeto ai sei danzatori, vestiti di soli pantaloni grigio-azzurri, calzatura francescana, il torso è nudo. La musica, eseguita dal vivo dall’autore (il contrabbassista Daniele Roccato, già punto di forza di molti spettacoli del coreografo fiorentino) è minimale ma estremamente presente. Austera, perpetua, sembra dialogare in tempo reale con gli interpreti della compagnia. Le luci creano uno spazio d’azione tanto devozionale quanto maestoso, in un’atmosfera ieratica dove si fondono l’aurora e il crepuscolo. È soprattutto nella qualità del movimento però, che la firma di Sieni si distingue maggiormente e si conferma come suo tratto più caratteristico: uno stile asciutto, quasi freddo, dove niente è lasciato al caso. La scrittura coreografica è rapida e lineare, fatta di gesti, ancora prima che di danza, che si susseguono fluidi, precisi, articolati, mai barocchi. Le masse muscolari si fanno leggere, sospese in una differente gravità, accogliendo nel proprio territorio il corpo dell’altro senza apparentemente mutare stato. Un’estetica impeccabile che, mentre attinge dall’iconografia pittorica medievale, ridisegna quella della danza contemporanea all’italiana.

Il finale lascia un boato nello spettatore il quale, se anche non coglie appieno i possibili riferimenti citazionisti e non possiede i corretti strumenti interpretativi relativi alla danza, dimentica la necessità di tale comprensione per una buona ora di coinvolgimento artistico, dove la sensualità diventa percepibile dall’intelletto. Spiace la mancanza di pubblico e l’apparente distacco di quest’ultimo, forse abituato ad una lettura critica che se funziona con l’arte museale non è detto che si possa adottare anche con quella orchestica.

Coerente con una poetica della povertà, del cenobitico e del sacrale, il Cantico dei cantici si fa portavoce di un “manifesto religioso” più che politico, reso linguisticamente democratico da una sintassi fatta di rinunce e cedevolezze motorie, scritta sul e col corpo. Una poetica che Sieni percorre da anni attraverso i diversi orizzonti produttivi: dai lavori per la Compagnia Virgilio Sieni a quelli per le comunità, dai “cammini popolari” ai soli, all’improvvisazione coreografica.

L’opera manifesta la sua «confluenza di poemi mesopotamici», stando alle parole di Sieni, dove «si odora di origine». Essa rievoca per sussurri e sensazioni quella mezzaluna fertile, culla dell’umanità e della sacralità. Tra Babilonia e Gerusalemme la danza di Sieni graffia la tradizione religiosa proprio a partire dalla rievocazione fedele di quella stessa tradizione che, democraticamente, va ad infrangere. Una tale definitiva, consapevole e rispettosa rottura si rivela forse l’unica via di riappropriazione cultuale in un’epoca connotata da forti sentimenti irreligiosi ed irreparabili lacerazioni tra contemporaneità e consapevolezza storica.

Tobia Rossetti

Un’introduzione alla danza contemporanea – Introdans fra van Manen, Childs, Kylián e Duato

Fonderie Limone di Moncalieri gremite per la sesta serata di Torino Danza. È olandese la storica compagnia Introdans che per l’occasione presenta quattro spettacoli del suo repertorio, creati da alcuni tra i più celebri coreografi viventi, ben distribuiti sul territorio europeo e non: Hans van Manen, Lucinda Childs, Jiří Kylián e Nacho Duato, provenienti, nell’ordine, da Olanda, Stati Uniti, Repubblica Ceca e Spagna. La ricca proposta si dimostra una degna introduzione alla danza contemporanea, come vuole il nome della compagnia, fondata negli anni Settanta con l’arduo intento di diffondere l’arte tersicorea nei Paesi Bassi ad un pubblico il più vasto possibile. Nella serata torinese infatti, Introdans porta in scena una fetta della più grande coreografia degli ultimi vent’anni del Novecento, eccezion fatta per il pezzo di Lucinda Childs che la celebre artista newyorchese ha creato solo due anni fa appositamente per la Introdans, ma che esteticamente e ideologicamente si integra alla perfezione con le altre tre proposte del programma.

Ad aprire la scena è Polish Pieces, un variopinto ed eccentrico balletto di Hans van Manen scritto su musica di Górecki nel 1995. Una dozzina di danzatori vestiti di lycra dai colori sgargianti ed una coreografia dinamica ed esuberante: queste le connotate di uno spettacolo astratto, nel senso proprio dell’astrattismo pittorico cui sembra farsi portavoce, e che ha i toni di un cartone animato ma il ritmo di una competizione sportiva. Forme bellissime si fanno e si disfano attraverso l’anatomia dei corpi perfettamente disegnata dai costumi attillati e non vogliono aggiungere altro al piacere della geometria e al divertimento dei colori.

Decisamente più contemporary nell’estetica (ma forse non nell’intenzione) è il secondo pezzo, Canto Ostinato, che Lucinda Childs ha recentemente ideato sulla omonima composizione del musicista olandese Simenon ten Holt. I giochi di luce che formano la scenografia sono costituiti da linee luminose che si incrociano parallele sul fondale. I danzatori, vestiti in bianco, si dichiarano più neutri rispetto alla gaiezza cromatica del brano precedente. La coreografia, fatta di simmetrie ripetitive ed ossessive, ammicca a certo minimalismo compositivo tutto americano, ribadendo la provenienza della coreografa. Al di là di queste suggestioni, che analizzate singolarmente sembrerebbero prese in prestito dalla danza contemporanea, lo stile coreografico è tuttavia insolitamente rigoroso, quasi accademico, potremmo dire moderno. I quattro ballerini, due uomini e due donne, si muovono all’interno di una costruzione modulare effettivamente ostinata, come da titolo, che si spegne in una leggera dissolvenza finale.

Più dichiaratamente drammatico è il Kylián del terzo balletto, Songs of a Wayfarer, che l’autore compone ispirato dai toni solenni dei Lieder di Mahler nel 1982 per il Nederlands Dans Theater. Cinque struggenti passi a due si incrociano in un ambiente agreste, oscuro e bucolico, dove lo stile coreutico raggiunge i picchi più lirici (ricordiamo che la coreografia è anche la più anziana fra le quattro proposte) ed esalta romanticamente i caratteri della coppia uomo-donna.

Chiude la serata Nacho Duato con il quarto ed ultimo pezzo, Rassemblement, il più lungo in durata ed il più ricco di contenuti drammaturgici. Un alto numero di ballerini racconta la storia dello schiavismo africano tout court evocando suggestioni che parlano di terre lontane. Immaginifico ed esotico, questo balletto del 1990 coniuga la cultura occidentale con quella dell’Africa attraverso alcuni escamotage visivi e contenutistici che, se oggi si rivelano facili cliché, negli anni Novanta erano ancora semanticamente innovativi (il danzatore di colore didascalicamente frustato da due guardie, i canti rituali intonati in una lingua a noi sconosciuta, i richiami coreografici a danze, movenze e gestualità marcatamente africane ecc.). Un inno a quel territorio di comunione culturale in cui comunità diverse possano incontrarsi, che commuove a tal punto la platea da far passare quasi inosservata la timida caduta di una danzatrice. Lo spettacolo di Duato è quello abitato dal ritmo più serrato e coinvolgente: le sequenze più evocative e toccanti si trovano qui e si scoprono alla fine della serata, cogliendo sapientemente il pubblico di sorpresa. Gli applausi sono fragorosi e partecipati.

In quasi mezzo secolo la Introdans, oggi diretta da Roel Voorintholt, dimostra di aver rispettato il suo obiettivo, riuscendo a diffondere su larga scala la danza di alto livello, veicolandone in modo efficace e riconoscente i significati. Un’introduzione alla danza contemporanea che presenta quattro spettacoli appartenenti a quello stile e quel particolare contesto produttivo precedente il sistema contemporaneo e che anticipa e apre la strada alla danza di oggi, definibile contemporanea in senso più stretto. Un invito alla comprensione di ciò che è adesso la coreografia, che di essa omaggia la grandezza e la coralità, attraverso una compagnia di alto calibro, e un repertorio che, preso per singoli frammenti drammaturgici, a tratti ancora incanta come fuori dal tempo. Tre classici e una novità, già anch’essa a suo modo classica, che convincono della riscoperta dei valori coreografici, di contro a certo già démodé concettualismo coreico. Un’introduzione alla danza europea (e non) che Torino può andar fiera di ospitare e diffondere, oggi, in Italia e che non a caso il pubblico ha dimostrato di apprezzare calorosamente.

«Il futuro è costruire su quanto di buono è stato fatto nel passato. Ci vedo un compito per i media, ma anche per i governi» dice Hans van Manen provocando le nuove generazioni di intellettuali, ancor prima che di danzatori, a farsi adeguatamente carico del passato, delle tradizioni e dei valori che la danza ha veicolato. L’invito, esplicitamente rivolto al vecchio continente, è, in questo momento storico, quello di saper leggere ed integrare i vecchi valori e, a partire da questi, fondarne di nuovi. Senza illudersi di poter applicare i paradigmi contemporanei alla storia del passato. Per farsi protagonisti del proprio tempo e non soltanto spettatori.

 

 

 

 

Tobia Rossetti

Roméo et Juliette – Angelin Preljocaj

Prima serata per TorinoDanza 2017 che, in collaborazione con La Francia in Scena, offre al suo pubblico un classico della danza contemporanea, inserito in MITO SettembreMusica. Angelin Preljocaj, francese di origini albanesi, è infatti uno dei piú affermati nomi della danza d’autore ascrivibile alla macroetichetta del neoclassico. Quello che porta in scena, sul palco del celebre festival torinese, è il suo storico balletto Roméo et Juliette, datato 1990, che reinterpreta in chiave moderna il classico shakespeariano, già molto ambito dai coreografi dopo che nel 1935 Prokof’ev ne scrisse un adattamento musicale per balletto.

Si entra nella sala del Teatro Regio a sipario già alzato, suoni bassi e solenni accolgono lo spettatore che si accomoda fra i tanti sedili, ancora distratto nei convenevoli. Fin dalle prime scene quella del franco-albanese si presenta come una versione dinamica e spettacolare che fonde il dramma dei due amanti al contesto sociale est-europeo degli anni ’80, ancor più sul piano estetico che su quello drammaturgico. Scenografie imponenti e futuristiche riproducono un grande muro, che a prima vista separerebbe due mondi opposti, con al centro una grande e totemica torretta di controllo da cui si dipana una passerella sospesa che successivamente scopriremo predisposta alla ronda notturna di una sentinella e del suo pastore tedesco. L’architettura fa da cornice ad uno spettacolo fantascientifico-distopico, se questo genere si puó applicare ad un lavoro di danza, il cui carattere fortemente cinematografico lo rende un kolossal coreutico, esplicitamente atto ad intrattenere positivamente un grande pubblico di massa, e non per forza di esperti. Passionale ed appassionato, Preljocaj pone due mondi a confronto: la milizia incaricata di assicurare l’ordine al di qua del muro (i Capuleti), contro i senzatetto rivoluzionari che vivono fuori dalla barriera, ma che di tanto in tanto riesco ad intrufolarvisi (i Montecchi).

Un divertissement pop, formalmente sospeso tra accademismi e rappresentazione di genere, esteticamente oscillante tra il Terry Gilliam di Brazil e i migliori videoclip musicali dell’epoca, in una retorica profondamente anni ’90, tanto ambigua quanto dissacrante.

TorinoDanza apre la stagione guardando al passato, con un degno spettacolo di evasione, a tratti ancora d’impatto, ad altri già stucchevole: ad emozionare sono le intramontabili sequenze corali, robuste ed incalzanti, supportate dalle potenti musiche del compositore russo; a distrarre invece, forse per eccessiva enfasi didascalica, i passi a due, recitati piú che danzati, con certa marcata impostazione tutta accademica. La suspense e le sfumature da thriller, qualità affatto scontate per un balletto, e che questo Romeo e Giulietta possiede, sembrano assopirsi proprio alla fine, quando fra i consueti ammazzamenti amorosi il pubblico non sa se applaudire o se rimanere in attesa.

Si conferma tuttavia una storia splendida, degna dei più alti ed astorici connotati narrativi, ma altrettanto integrata nel contraddittorio contesto sociale (e artistico) dell’Europa dell’Est dell’ultimo ventennio del XX secolo. Forse non poi così diverso, per coloro che volessero amarsi al di là delle dinamiche politiche, da quello delle importanti famiglie del Cinquecento italiano. Il tutto, ovviamente, raccontato con la capacità unica di trascendere e ridefinire i linguaggi della favola, propria della danza, che se a tratti banalizza la drammaturgia, ne accentua poi enormemente il carattere barocco, onirico e fiabesco.

Spettacolo senza dubbio retorico, ma di una retorica che a conti fatti regge bene il confronto con i suoi ventisette anni.

Tobia Rossetti

 

 

Il Balletto Teatro di Torino con Chopin, “In Chopin”

Dove la musica si fa corpo e ogni spasmo di fibra muscolare si riverbera nell’aria e nella memoria come una nota dolce, ecco lì sta l’essenza di ‘In Chopin’.

Il Balletto Teatro di Torino nella sua tourneé ha toccato anche il Teatro Giacometti di Novi Ligure, il 24 gennaio2017,  portando la sua poetica davanti a un pubblico, se non numerosissimo, attento e coinvolto.

Uno spettacolo che parla di amore, quello firmato dal giovane coreografo Marco De Alteriis, ma anche di relazioni in senso più ampio, di desiderio di scoprire gli altri e prima ancora se stessi, di solitudine.  E lo fa in maniera delicata, attraverso immagini più che narrazioni, lasciando come vero protagonista un corpo che si sostituisce alla parola, planando nello spazio etereo creato da quel compositore che, citando Daniel Barenboim, sa “piangere e ridere allo stesso tempo, nei grandi come nei piccoli pezzi”.

In scena si entra con una rottura: lontano dall’immaginario di chiunque si approcci a vedere un brano danzato di Chopin, lo spettatore è accolto da una sedia, pesante, moderna, verde, illuminata da un cono di luce che circoscrive lo spazio limitandolo alle figure disegnate dalla danzatrice che vi è seduta.  Un raffinato virtuosismo del coreografo israeliano Itzik Galili, su musica di John Cage, che unito al talento dell’unica performer porta in scena tutte le contraddizioni e le metamorfosi dell’essere femminile. Al centro dello spettacolo brilla un altro pezzo firmato dal prestigioso coreografo: ‘Fragile’. Un passo a due intimo, essenziale, astratto, che richiama le incertezze e le paure dell’uomo, superabili grazie al contatto e alla forza insita nella donna.

Lo spettacolo è un susseguirsi di quadri diversi che vedono l’alternarsi di passi a due, assoli e pezzi danzati da tutti e cinque i danzatori della compagnia: Wilma Puentes Linares, Julia Rauch, Viola Scaglione, Axier Iriarte, Agustin Martinez.

L’uso sapiente di luci, ombre e fumo crea immagini evocative, che distanziano del tutto l’azione coreutica dalla realtà, confinandola in una dimensione onirica, di non-luogo. Ogni dipinto alla fine si chiude in se stesso con un buio che mette termine alla suggestione, in attesa della successiva: come se si venisse svegliati ogni volta, strappati da un sogno e con la frustrazione di averlo già perso, mentre si applaude.

Unico filo conduttore resta quindi l’indagine profonda di questi rapporti tra anime, più che tra persone. Anime che si cercano e si fuggono, che si stringono in abbracci per poi lasciarsi cadere, o che si aggrappano con uno sguardo, senza toccarsi mai. Come le mani dei danzatori, che, morbide e se vogliamo ‘secondarie’ nella partitura coreografica tracciata da De Alteriis, attirano su di loro l’attenzione nei momenti di contatto.

La centralità del corpo, con uno stile dichiarato fatto di movimenti ampi, frequenti passaggi a terra e prese, richiede una preparazione tecnica, fisica e di ascolto dell’altro, che tutti i danzatori dimostrano largamente di possedere, portando in secondo piano a volte il concept, per lasciarsi ammirare in passaggi di palpabile bellezza.

Un tema non nuovo, in sintesi, con musiche non nuove, che forse proprio per questo mettono in risalto il principale merito di De Alteriis e del BTT: quello di riuscire a tratti a creare una ‘musica visiva’. Una melodia suonata dal movimento, che non vuole limitarsi ad accompagnare le note, ma pretende di coincidere con esse.

Suggestioni a discapito della narrazione insomma; corpo a discapito di un’espressività facciale ricercata che però, quando c’è, è  autentica. Il tutto unito ad un interessante scelta dei costumi che, se da un lato sottolinea gli stacchi tra i quadri, dall’altro ne amplifica il senso emotivo, come nell’apoteosi del colore rosso in ‘Maestoso’, coreografia che vede in scena l’intera compagnia e che chiude lo spettacolo.

 

Chiara Borghini

 

Balletto Teatro di Torino

Coreografia MARCO DE ALTERIIS

Musiche FREDERIC CHOPIN

Costumi MARIA TERESA GRILLI

Luci DAVIDE RIGODANZA

Incursioni musicali CONCETTA CUCCHIARELLI

NÒSTOI/VIEWROOM. Quando il ritorno a casa è un punto di partenza.

Conversazione davanti a un caffè con Andrea Zardi, danzatore, ideatore e regista dello spettacolo Nòstoi/Viewroom, nonché referente all’interno del DAMS di Torino del team di ricerca per gli esperimenti neuroscientifici sulla ricezione della danza in collaborazione con il NIT (Centro Interdipartimentale di Studi Avanzati di Neuroscienze). Lo spettacolo di danza contemporanea andrà in scena venerdì 18 novembre alle Fonderie Teatrali Limone di Moncalieri. Continua la lettura di NÒSTOI/VIEWROOM. Quando il ritorno a casa è un punto di partenza.

Rising. Danzando verso il Cosmo

Danzatore anglo-indiano di Kathak e Bharata Natyam, due danze tradizionali dell’India, Aakash Odedra è stato ospite della Lavanderia a Vapore di Collegno il 18 aprile. Lo spettacolo si compone di quattro assoli che, certamente, possono avere vita autonoma sulla scena, ma allo stesso tempo accompagnano lo spettatore in un percorso che trae origine dalla Madre Terra, percossa con i piedi, passa attraverso una dimensione animalesca a tratti felina, giunge a una sfuggente
dimensione umana per approdare, infine, alle più alte sfere del Cosmo. Continua la lettura di Rising. Danzando verso il Cosmo