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iLOVE
Le città, per loro natura, si modificano, evolvono e mutano il loro aspetto esattamente come fanno le società che le abitano. Da questa naturale tendenza è nata la volontà di ri-creare e far risplendere nuovi “spazi” culturali che ospitassero le creatività di oggi e del futuro. Tre zone periferiche di Torino si sono unite per riqualificare luoghi che risultavano insoliti e inconsueti per ospitare l’arte e il teatro. Fra questi troviamo bellARTE, un teatro sorto all’interno di una fabbrica tessile dismessa e gestito dal 2006 dall’associazione Tedacà. BellARTE, insieme a Cubo Teatro e San Pietro in Vincoli Zona Teatro, sono luoghi di incontro e dialogo, ma soprattutto si propongono come fonte di stimolo per affrontare e indagare i temi del quotidiano e del nostro sistema sociale: un “fertile terreno” da coltivare per far crescere nuove risorse culturali e artistiche. Nel programma dei tre teatri si presentano numerose opportunità per incontrare artisti di grande levatura nazionale, ma anche emergenti giovani promesse, in una dimensione di vicinanza che genera una cifra comunicativa immediata e diretta.
Il 31 marzo, in linea con la poetica e la ricerca sociale che si è andata a costituire, al Teatro bellARTE è stato presentato il duetto iLove di Fattoria Vittadini. Questa Compagnia estremamente eterogenea, è nata a Milano qualche anno dopo rispetto allo spazio bellARTE, nel 2009, dalla volontà di undici giovani (ex)allievi del corso di teatro danza della nota scuola milanese Paolo Grassi, cerca di sviluppare una ricerca personale e una poetica che spazzi all’interno della molteplice pluralità linguistica dell’arte scenica dei nostri tempi. Fattoria Vittadini è riuscita nel giro di pochi anni a conquistare l’attenzione della critica proprio per i suoi segni distintivi che hanno la capacità di avvicinare sempre nuovo pubblico a lavori artisticamente elevati e di forte impronta sociale.
Il tema presentato alla Città di Torino con il duetto iLove non risulta particolarmente innovativo: una coreografia autobiografica che parla di un amore e nella quale due personaggi si ritrovano a condividere lo stesso spazio, inizialmente lavorativo, successivamente esteso alla sfera intima e privata. “L’amore è come questo viaggio in treno. Ci si lascia e ci si ritrova …” e proprio così i due performer si incontrano, si indagano l’un l’altro, si presentano e iniziano un viaggio di condivisione. Cercano loro stessi e la propria identità, studiano la loro relazione e l’affetto reciproco che li sovrasta. I due performer non vanno mai ad annullarsi ma proprio l’unione delle loro personalità fa emergere caratteristiche individuali e strettamente personali: uno si presenta come un personaggio dai gesti chiari e decisi, che a partire dalla lingua dei segni (LIS) espande il proprio essere verso il compagno, l’altro, più introverso, proietta sé stesso in continui slanci solistici pur ricercando un legame corporeo verso l’altro.
A prima vista risulta inconsueto per il Teatro bellARTE ospitare all’interno della propria stagione di ricerca uno spettacolo come iLove. Ma in scena ci sono due uomini a presentare il loro legame amoroso al pubblico. Un amore fra due uomini? Un amore omosessuale è il tema di questo splendido duetto? Due persone dello stesso sesso, nella società odierna ormai definita evoluta, possono condividere lavoro, vita privata e sentimentale? Non per questo sono meno uomini e meno umani. Questa è l’indagine analizzata e presentata dai due giovani danzatori, Cesare Benedetti e Riccardo Olivier. La loro proposta scenica si presenta come una danza fortemente astratta che esalta la potenza del segno per portare agli occhi dello spettatore un’analisi sul significato dell’essere uomini “maschili”. Sono queste forse, come molte altre espressioni, etichette con cui i danzatori giocano in una scena spoglia.
Questo duetto è nato quando ancora Cesare e Riccardo erano una coppia; poi si sono separati continuando a condividere la sfera lavorativa. Il risultato di questa relazione è stato proprio questo elegante duetto che tocca la sensibilità del pubblico sul tema dell’individualità nella coppia e dell’amore maschile.
ILove si apre con la coppia sul palco in ombra. La loro vicenda si muove a ritroso: si sono già separati e al centro della scena, sotto un cono luminoso, campeggia un ortaggio: un finocchio. La prima e breve sezione è ricca di gesti che sottolineano l’attuale lontananza e separazione ma poi, come in un flashback cinematografico, tutto ricomincia dal principio e quello a cui assistiamo è il ricordo dei primi momenti assieme, gli attimi più felici condivisi in coppia. L’importanza degli sguardi con il pubblico e che i due si scambiano l’uno per l’altro costituiscono un elemento di forte persuasione e seduzione. Proprio da uno sguardo nasce il duetto, che pur giocoso nasconde le difficoltà tecniche come anche la difficoltà del vivere assieme. Vestiti con pantaloni e felpe i due performer si presentano come ragazzi qualunque che iniziano a giocare tra loro.
Segue un momento conviviale, intimo, un esilarante quanto serio attimo che raffigura un fugace pasto consumato assieme, dove il finocchio dell’incipit torna in scena per venire divorato dai danzatori. L’azione avviene vicino a un microfono sul proscenio, rendendo a tutti i presenti udibile il rumore dei morsi. Subito i due uomini si spogliano, sottolineando come l’abito è solo una parte di ciò che realmente siamo. Si diffonde una sensazione di smembramento e di incomunicabilità: assistiamo al progressivo allontanamento di Cesare dalla relazione creatasi, mentre Riccardo diviene “appiccicoso”, quasi morboso nel seguire il partner. La rottura finale è inevitabile e commovente: non aleggiano parole, non ci sono insulti e scontri, ma solo un senso profondo di tristezza, solitudine e vuoto.
Matteo Ravelli
Regia, Coreografia, Colonna sonora
Cesare Benedetti, Riccardo Olivier
Light design
Roberta Faiolo, Giulia Pastore
Direzione Tecnica
Giulia Pastore
Produzione
Fattoria Vittadini
Lo spettacolo è parte della rassegna di danza Il Corpo Racconta e della rassegna Amor Novo di Fertili Terreni Teatro, il progetto di Acti Teatri Indipendenti, Cubo Teatro, Tedacà, Il Mulino di Amleto dedicato alla drammaturgia contemporanea e al teatro di innovazione. Realizzazione in collaborazione con Associazione Quore, Arcigay, Queever e progetto "Omofobia. No Grazie"
NID Platform 2017 – Le mode e le manie italiane della danza contemporanea
La piattaforma nel gergo del mercato dello spettacolo dal vivo è uno spazio espositivo nel quale gli artisti possono presentare i loro lavori direttamente ad un gran numero di operatori, riuniti a raccolta, che diversamente sarebbe difficile raggiungere. Direttori di teatri, di circuiti e di festival sono chiamati a vedere quella che viene considerata dalla commissione preposta alle scelte la migliore offerta di spettacolo di cui dispone un determinato territorio. Qui si possono incontrare direttamente artisti e compagnie senza mediazioni e (in teoria) senza pregiudizi, per acquistare, promuovere, supportare le produzioni che si reputano più adatte al settore di riferimento. Un “testa a testa” fra domanda e offerta che prende anche il nome, più appropriatamente, di vetrina.
Nel caso della NID Platform, manifestazione giunta quest’anno alla sua quarta edizione e tenutasi a Gorizia, al confine italiano con la Slovenia, il prodotto al centro dell’attenzione del mercato è la nuova danza italiana: New Italian Dance è infatti il significato dell’acronimo che le dà il nome. L’obiettivo della vetrina è quindi, oltre a vendere le produzioni proposte, quello di creare una solida rete attraverso la circuitazione coreografica che arrivi ad attrarre anche operatori stranieri, così da far competere la danza locale sui mercati internazionali.
Diciassette spettacoli, proiezioni cinematografiche, lezioni, convegni e tavole rotonde animano Gorizia nei quattro giorni della vetrina, rilevando e consolidando l’importanza e l’autonomia che l’arte tersicorea è andata rapidamente assumendo negli ultimi anni, attraverso una capillare diffusione del suo linguaggio su più strati sociali. Un processo di crescita che è frutto di precise politiche di multidisciplinarità e di audience development oggi condivise da tutto il sistema dello spettacolo, a loro volta inserite nella più vasta direzione dell’internazionalizzazione dei mercati. Strategia, questa, espressamente finalizzata ad una migliore e più fertile comunicazione tra sistemi, tanto produttivi quanto culturali, di diversi paesi. L’europeismo, o mondialismo che dir si voglia, svolge infatti in epoca contemporanea un ruolo per niente secondario ai fini della nuova definizione storica, estetica e filosofica dell’attività artistico-culturale propria di ogni paese, settore, contesto umano. Per quel che riguarda la produzione coreutica basti sottolineare che quest’anno si è scelta come regione ospitante la vetrina di danza il Friuli-Venezia-Giulia, al confine strategico fra Italia e Slovenia. Ma se un confronto con l’Europa si è effettivamente ed inevitabilmente aperto sotto ogni aspetto, la coreografia italiana sarà in grado di far valere un suo linguaggio definito e condiviso, all’altezza di quelli rivali ed altrettanto capace di veicolare lo spirito nazionale (se di uno spirito nazionale ancora si può parlare)? La domanda è viva e necessaria. Le mode che l’appuntamento NID ha presentato al pubblico di operatori riguardano tendenze già più o meno sviluppatesi e consolidatesi all’interno del contesto della produzione della danza contemporanea. Ma quanto di italiano c’era in quello che abbiamo visto? Per farci un’idea proviamo a delineare una panoramica delle principali mode (e manie) ivi emerse ed i relativi nomi di punta che le han generate, soffermandoci sui soli spettacoli cui abbiamo assistito.
La più “classica” ed intramontabile tendenza riguarda una certa inclinazione esistenzialista, proveniente direttamente dalla tradizione drammaturgica novecentesca. Questa è sicuramente il motore di In girum imus nocte et consumimur igni, lungo e travagliato spettacolo di Roberto Castello, celebre coreografo torinese proveniente dalla storica esperienza dei Sosta Palmizi, che riflette sulla condizione umana appoggiandosi alle riflessioni ideologiche di Guy Debord, tra la denuncia e la commiserazione. Alla stessa linea guida appartiene Everything is ok, un solo del giovane autore Marco D’Agostin che porta in scena il tacito disagio dello sguardo contemporaneo, costantemente sovraccaricato di immagini fino alla soglia della volgarità.
Una seconda attitudine sembra essere quella che interessa la riflessione digitale e la condizione umana nell’epoca del web, spesso condotta con tanto di software e computer direttamente utilizzati sul palco in tempo reale. A cimentarsi in questa sperimentazione è lo spettacolo Home alone, di Alessandro Sciarroni. Il coreografo marchigiano tenta però di strutturare il lavoro sposando anche i dettami di quella che si presenta come una terza tendenza della danza contemporanea: la produzione di spettacoli coreutici pensati appositamente per un pubblico giovane. Il risultato, un collage di più stilemi, confusi e non adeguatamente portati a compimento, sembra mancare di entusiasmo creativo. Anche Il gatto con gli stivali, realizzato appositamente per i più piccini da Roberto Lori, con la direzione artistica di Simona Bucci, adotta una drammaturgia ed una coreografia ancora troppo povere per convincere tanto gli adulti quanto i bambini.
Altra moda tutta contemporanea è quella di un’estetica del gesto tanto accurata da motivare da sola l’intero spettacolo di danza. È il caso di We_pop, breve pezzo di Davide Valrosso, fra i più giovani autori della vetrina, il quale, in scena con Maurizio Giunti (entrambi danzano nella Compagnia Virgilio Sieni), costruisce e decostruisce delicate linee plastiche e precisissime trame coreografiche che nel loro costante mutamento definiscono una sintesi tra universo concettuale e universo pop. Tendenza questa ampiamente condivisa da Trigger, attraente assolo di Annamaria Ajmone, coreografa e danzatrice altrettanto giovane, che abita spazi non teatrali costruendovi plastiche coreografie site-specific, scritte nel rispetto e nel dialogo con l’architettura degli ambienti in cui si inserisce e dei corpi del pubblico seduto intorno a lei. La danzatrice risponde alla condivisa necessità di abitare luoghi storici e/o inconsueti secondo modalità nuove e inattese, percorrendo quella che è sicuramente una diretta linea ideologica già propria di Virgilio Sieni, e che va oggi ampiamente diffondendosi tra i nuovi coreografi italiani.
Una danza meta-coreografica è poi quella di Silvia Gribaudi, autrice di R.OSA_ 10 esercizi per nuovi virtuosismi, che, attraverso il corpo atipico, per misure e capacità tecniche, di Claudia Marsicano, riflette con acume ed ironia sullo stesso mondo della danza, dello spettacolo e dell’apparire.
Infine citiamo ancora il doppio spettacolo della compagnia Aterballetto di Reggio Emilia, punto di riferimento per l’intera produzione coreica italiana, che già pochi giorni prima aveva registrato il sold out alla sua prima assoluta per Torino Danza. Cristiana Morganti è la coreografa del primo pezzo, Non sapevano dove lasciarmi…, al quale restituisce l’influenza della sua lunga collaborazione con Pina Bausch, attraverso citazioni, commistione di stili teatrali e coreici, attenzione nei confronti delle singole personalità degli interpreti. Il secondo pezzo è Wolf, dell’autore israeliano Hofesh Shechter, proveniente dalla Batsheva Dance Company di Ohad Naharin, e che della celebre compagnia ha conservato, esportandoli, i caratteri di potenza e di aggressività corale perfettamente inscritti in coreografie impeccabili, debitrci di quel “metodo Gaga” che ha reso famoso Naharin in tutto il mondo.
A questo punto vien da chiedersi quale sia, o quali siano, se ve ne sono, fra tutti gli stilemi qui sintetizzati (in modo assolutamente non esaustivo) quelli più specificatamente italiani? La domanda è aperta a tutti e da tutti la nostra danza necessita di una risposta. Ne va di una sana intesa critica, fondamentale al ristabilirsi di un rapporto di fiducia tra spettatore e mondo dello spettacolo. Nonché della possibilità di orientarsi nel complesso orizzonte contemporaneo in cui opera la danza stessa, nel quale non esistono più generi specifici e dove l’offerta sembra diventare pressoché illimitata. A sostegno di una rifondazione della fiducia dello spettatore ricordiamo che lavorare per incrementare il pubblico dello spettacolo dal vivo non significa né andare acriticamente incontro alle sue passioni, né convincerlo ad amare le novità: in entrambi i casi il rischio è di preservare la distanza fra spettatore e mondo dello spettacolo. Sul piano di un’etica della cultura, dove ancora se ne possa delineare una, creare un bisogno che non esiste è quanto di più anticulturale l’industria della cultura possa fare. In un indesiderabile contesto del genere si rischierebbe infatti l’affermazione incontrollata di una grossa quantità di produzione artistica che, non facendo più riferimento a nessun orizzonte di senso condiviso, verrebbe promulgata con volgarità nei confronti di un pubblico il quale, pur non avvertendone il bisogno, non saprebbe più far altro che subirla. La questione è molto complessa è non è permesso sottovalutarla.
Quello della NID Platform si è dimostrato tuttavia, al di là delle possibili problematiche di sostanza etica e di confronto internazionalista, un resoconto molto positivo. La danza contemporanea cresce e si vede, si ampliano il mercato ed il relativo pubblico interessato, gli spazi dedicati (festival, centri di produzione, programmazione all’interno dei teatri) aumentano di giorno in giorno. Ma soprattutto si sviluppa il rispetto nei confronti di una materia che aggrega e produce cultura ormai ben al di là della ristretta “comunità della danza”. La qualità coreografica è un prodotto gradualmente più riconoscibile e riconosciuto dal pubblico.
Se come emerso da dibattiti e conferenze tenutesi nel periodo della vetrina, la danza contemporanea si dimostra oggi il linguaggio che meglio veicola le più complesse tematiche sociali e i cruciali quesiti umani del nuovo millennio, e lo fa tra l’altro proponendo la ricerca più avanguardistica, quanto essa ha ancora da invidiare ad altre meno incisive forme d’intrattenimento? La specificità dell’espressione coreutica avverte davvero la necessità di essere “appoggiata” da quella teatrale? Tale prospettiva, che ha sicuramente motivo di esistere sul piano produttivo-economico, richiede una particolare accortezza nei confronti delle nuove estetiche coreiche affinché queste si conservino autonome e ne venga rispettato il naturale sviluppo.
Tobia Rossetti
Il Cantico dei Cantici di Virgilio Sieni
Attribuito a Salomone, terzo re d’Israele, il Cantico dei cantici è un testo biblico suddiviso in otto capitoli che ragiona sulle tematiche amorose offrendosi a numerose possibilità interpretative. In tale gioco esegetico si è recentemente cimentato Virgilio Sieni, coreografo di punta della danza contemporanea italiana, ispiratosi al cantico per una delle ultime produzioni della sua compagnia. Lo abbiamo visto all’Auditorium Melotti, all’interno del complesso architettonico che ospita il Mart, a Rovereto, dove la solenne modernità progettistica di Mario Botta entra in dialettica con il silenzio primitivo evocato dalla coreografia di Sieni. Il celebre autore fiorentino, infatti, sembra aver conservato del testo sacro gli aspetti morali più alti, in una lettura dei valori di ascolto e di comunione mai trattata in modo esageratamente astratto. Umano e umanesimo si confrontano tra palcoscenico e teoria della danza.
Lo spettacolo colpisce per l’indiscutibile livello di qualità al quale la Compagnia Virgilio Sieni può permettersi di operare. La scenografia è scarna ma efficace: un grande disco dorato, appositamente realizzato da artigiani toscani, fa da tappeto ai sei danzatori, vestiti di soli pantaloni grigio-azzurri, calzatura francescana, il torso è nudo. La musica, eseguita dal vivo dall’autore (il contrabbassista Daniele Roccato, già punto di forza di molti spettacoli del coreografo fiorentino) è minimale ma estremamente presente. Austera, perpetua, sembra dialogare in tempo reale con gli interpreti della compagnia. Le luci creano uno spazio d’azione tanto devozionale quanto maestoso, in un’atmosfera ieratica dove si fondono l’aurora e il crepuscolo. È soprattutto nella qualità del movimento però, che la firma di Sieni si distingue maggiormente e si conferma come suo tratto più caratteristico: uno stile asciutto, quasi freddo, dove niente è lasciato al caso. La scrittura coreografica è rapida e lineare, fatta di gesti, ancora prima che di danza, che si susseguono fluidi, precisi, articolati, mai barocchi. Le masse muscolari si fanno leggere, sospese in una differente gravità, accogliendo nel proprio territorio il corpo dell’altro senza apparentemente mutare stato. Un’estetica impeccabile che, mentre attinge dall’iconografia pittorica medievale, ridisegna quella della danza contemporanea all’italiana.
Il finale lascia un boato nello spettatore il quale, se anche non coglie appieno i possibili riferimenti citazionisti e non possiede i corretti strumenti interpretativi relativi alla danza, dimentica la necessità di tale comprensione per una buona ora di coinvolgimento artistico, dove la sensualità diventa percepibile dall’intelletto. Spiace la mancanza di pubblico e l’apparente distacco di quest’ultimo, forse abituato ad una lettura critica che se funziona con l’arte museale non è detto che si possa adottare anche con quella orchestica.
Coerente con una poetica della povertà, del cenobitico e del sacrale, il Cantico dei cantici si fa portavoce di un “manifesto religioso” più che politico, reso linguisticamente democratico da una sintassi fatta di rinunce e cedevolezze motorie, scritta sul e col corpo. Una poetica che Sieni percorre da anni attraverso i diversi orizzonti produttivi: dai lavori per la Compagnia Virgilio Sieni a quelli per le comunità, dai “cammini popolari” ai soli, all’improvvisazione coreografica.
L’opera manifesta la sua «confluenza di poemi mesopotamici», stando alle parole di Sieni, dove «si odora di origine». Essa rievoca per sussurri e sensazioni quella mezzaluna fertile, culla dell’umanità e della sacralità. Tra Babilonia e Gerusalemme la danza di Sieni graffia la tradizione religiosa proprio a partire dalla rievocazione fedele di quella stessa tradizione che, democraticamente, va ad infrangere. Una tale definitiva, consapevole e rispettosa rottura si rivela forse l’unica via di riappropriazione cultuale in un’epoca connotata da forti sentimenti irreligiosi ed irreparabili lacerazioni tra contemporaneità e consapevolezza storica.
Tobia Rossetti