Attore formidabile e regista scrupoloso, Carlo Cecchi porta a Torino Dolore sotto chiave e Sik Sik, l’artefice magico, due testi di Eduardo De Filippo, riuniti da lui in un unico spettacolo.
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Filumena Marturano al Carignano di Torino
Si sono da poco concluse le repliche di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, andato in scena dal 31 ottobre al 12 novembre al teatro Carignano di Torino per la stagione del Teatro Stabile.
Regista Liliana Cavani che, per la prima volta, si cimenta nel teatro di prosa scegliendo di rappresentare uno dei testi più significativi del nostro Novecento.
La Cavani decide di restare aderente al testo, evitando voli di fantasia che sarebbero risultati poco coerenti con l’ idea di Eduardo.
Nei panni della protagonista, ad incarnare perfettamente , con i suoi capelli scuri e le forme generose, la figura della donna partenopea, troviamo Mariangela D’Abbraccio.
Alternando scatti d’ ira degni di Santippe (apprezzata la sonora sberla ai danni di Diana – Ylenia Oliviero, amante di Don Domenico) ad emozioni strappalacrime,come quelle che inevitabilmente colpiscono l’ animo dello spettatore che, coinvolto, ascolta il monologo della Madonna delle Rose, la D’Abbraccio ci restituisce, forse con un pizzico di drammaticità in più, l’immagine delle rappresentazioni passate, tanto fedele quanto lo sono le scelte registiche .
Al suo fianco, impegnato a ripercorrere le orme del maestro, Geppy Gleijeses che ricopre il ruolo di Don Domenico Soriano.
L’attore napoletano fa arrivare direttamente al pubblico un profilo ben delineato del personaggio, scivolando, ogni tanto, in contrappunti cabarettistici che la simpatia del dialetto e le battute ben congeniate rendono superflui.
Lanciandosi nel viale dei ricordi fatto di viaggi, amoretti e corse di cavalli, Don Domenico, dovendo fare i conti con il passare degli anni, affronta un percorso di maturazione che deve la sua genesi al meccanismo azione/reazione scatenato dal primo matrimonio con Donna Filumena, estortogli con l’ inganno.
I maggiori responsabili di questo cambiamento sono i tre figli di Filumena interpretati da Agostino Pannone, Gregorio De Paola e Adriano Falivene, ai quali Don Domenico, emozionandosi nel sentirsi chiamare papà, consegnerà le redini di quei cavalli che un tempo correvano per lui.
La D’Abbraccio e Gleijeses si spalleggiano bene, giocando a rubarsi la scena e sostenuti da due personaggi secondari ai quali il testo regala una comicità irresistibile, Rosina (Nunzia Schiano) e Alfredo ( Mimmo Mignemi), che si prestano bene a far comprendere al pubblico le incomunicabilità derivate dal contrasto tra i due protagonisti.
Compito gradito anche per le difficoltà generate dal dialetto napoletano in terra piemontese. E’ infatti consigliata una lettura peventiva del testo o una lunga vacanza a Napoli a tutti coloro che non hanno confidenza con il dialetto campano, onde evitare l’irritazione dei vicini di poltrona ponendo continuamente la domanda “che hanno detto?”.
Divergenze linguistiche a parte, il pubblico, soprattutto quello femminile composto sia da chi è madre sia da chi non lo è, reagisce bene alla commedia, identificandosi con facilità con la figura della donna che si sacrifica per un bene più grande: un lavoro, un uomo, una passione, così come per Filumena sono indifferenti i suoi figli, perchè ” i figl so figl e so tutt’egual”.
Emily Tartamelli
QUESTI FANTASMI! Guardare ma non vedere, o vedere ma fingere di non vedere?
“Pasquà ma dove hai preso tutti ‘sti soldi? E‘sto diamante?” chiede, in preda alla rabbia e al nervosismo, Maria (Carolina Rosi) a suo marito Pasquale Lojacono (Gianfelice Imparato).
Così si apre il terzo e ultimo atto di Questi Fantasmi, commedia scritta da Eduardo De Filippo nel 1945, che ben si presta però anche ai giorni nostri.
Quanti di noi, almeno una volta nella vita, non hanno non pensato al fatto che, seppur il denaro non fosse tutto, qualche spicciolo in più non avrebbe guastato per essere felici? Questo, il protagonista- interpretato da un composto Gianfelice Imparato- lo sa bene: egli, difatti, rinunciando ai suoi valori di uomo e ai suoi doveri coniugali, e accogliendo con estrema passività le vicende della vita, si dimostra un uomo debole, ma soprattutto, un inetto disposto a tutto pur di possedere del denaro. È un personaggio per cui è impossibile non provare un po’ di tenerezza; un uomo apparentemente normale, che anzitutto pensa a se stesso e che non intende rinunciare ai piccoli piaceri della vita: un pollo caldo e del buon cibo; le sigarette e il caffè che si prepara in assoluta autonomia, dal momento che la moglie -essendo, a detta sua, di un’altra generazione- non è in grado di prepararlo come si deve. Pur di non abbandonare tutto questo, Lojacono, spogliatosi oramai di qualsiasi “virtus” in senso lato, accetta qualsiasi cosa: cosa sono, infatti, un tradimento e la perdita dell’onore in confronto alla perdita dell’agiatezza economica? Per Lojacono sicuramente alcunché di tollerabile: tant’è vero che, alla domanda che gli rivolge la moglie, quest’ultimo non è in grado di rispondere, né è interessato a farlo: entrambi, infatti, sanno che tutto il denaro e i gioielli ricevuti in dono, sono una gentile “offerta” da parte di Alfredo Marigliano, amante della moglie, che ripaga Lojacono per l’accordo che, tacitamente tra i due, è venuto a stabilirsi.
È questo il vero dramma: entrambi sanno di sapere eppure fingono di non vedere, un po’ per vergogna di loro stessi, un po’ per comodità; ecco perché, fino alla fine della commedia, indosseranno, senza mai togliere, la loro maschera, qui rappresentata da uno dei temi più cari al pubblico napoletano, quello del “munaciello”, ossia del fantasma. In una società dove è più importante l’apparenza rispetto alla sostanza, dove è meglio sembrare anziché essere; dove è necessario possedere per sopravvivere, anche al prezzo di svendere la propria identità, indossare un velo bianco da fantasma sembra quasi inevitabile. Lojacono stesso arriverà ad affermare che “I fantasmi non esistono… li creiamo noi, siamo noi i fantasmi!”.
Lo spettacolo si apre nell’ingresso di una casa che- come leggenda vuole- sarebbe infestata da diversi e stravaganti fantasmi, e per questo sino a ora disabitata. Nonostante ciò, e al corrente di tale fatto, accompagnato dallo sgrammaticato portiere, interpretato da un esilarante Nicola Di Pinto, Lojacono decide di trasferirsi nell’abitazione- a titolo gratuito- insieme alla moglie, ignara del fatto. Non è, però, il solo ad aver mentito, o meglio, ad avere omesso dettagli apparentemente insignificanti ma che in realtà racchiudono il succo della vicenda: Maria, infatti tradisce il marito con Alfredo Marigliano (Massimo De Matteo).
Lojacono non paga alcunché di affitto, deve però, rispettare alcuni “rituali” stabiliti, in precedenza, con i vecchi proprietari: sbattere un tappetto sui sessantotto balconi della casa, cantare e apparire sempre felice e spensierato per sfatare la leggenda agli occhi dei vicini. Ecco che anche qui, ci imbattiamo nuovamente, nel tema della maschera, tanto caro alle opere pirandelliane, e cardine di tutto lo spettacolo.
Egli poi, vorrebbe affittare le restanti stanze della casa e adibirle a pensione. Purtroppo però, i piani non vanno come aveva sperato: nessuno si presenta per l’affitto; inoltre, Lojacono non gode nemmeno più dei benefici economici del “fantasma buono”, il quale ha smesso, di punto in bianco, di far trovare danari nella tasca della giacca appesa all’appendiabito nell’ingresso. A Pasquale non resta che sperare in un suo ritorno e per farlo, tenderà una trappola al fantasma, al fine di poterlo sorprendere e chiedergli quanto ha bisogno. Fingerà quindi, di partire, ma invece si nasconderà sul balcone.
Finalmente sorprenderà Alfredo, il fantasma venuto per fuggire con la sua amante, il quale commosso dalla disperazione di Pasquale, decide di concedergli un ultimo aiuto economico, a patto che quest’ultimo acconsenta alla sua fuga con Maria; gli lascerà sul tavolo un ultimo fascio di banconote, prima di scomparire per sempre.
Nel frattempo la donna- interpretata da una fredda e decisa Carolina Rosi- stufa del comportamento vile del marito, sceglierà la libertà, slegandosi da ogni tipo di dovere coniugale: ma non per fuggire con il suo amante, bensì per “fuggire” con se stessa, dimostrando di avere molto più carattere del marito Pasquale.
In questa regia, affidata a Marco Tullio Giordana, -vincitore di quattro David di Donatello, e due Nastri d’oro per I cento passi e La meglio gioventù– che ormai da tempo affianca la regia cinematografica a quella teatrale, il personaggio di Maria diventa padrone del proprio destino.
Nel frattempo, Pasquale conta le banconote sul balcone di fronte al professor Santanna – l’anima utile, che non si vede-, lo ringrazia per lo stratagemma da lui suggerito, con quelle che sono le ultime parole dell’intera commedia: “Mi ha lasciato una somma di denaro… però dice che ha sciolto la sua condanna… che non comparirà mai più… Come?… Sotto altre sembianze? È probabile. E speriamo…”!
C’è chi va dall’oculista per vedere meglio; altri, per lo stesso motivo, utilizzano una lente di ingrandimento mentre leggono o sono alla disperata ricerca di minuziosi dettagli; chi invece, come Pasquale Lojacono, seppur dotati di un’ottima vista, si ostinano a non voler vedere. Costruirsi un alibi, una scusa quando qualcosa non ci piace è un tipico atteggiamento che riguarda ognuno di noi; è una sorta di medicina che ci auto prescriviamo, un’automedicazione essenziale e inevitabile per delle creature fragili e spaventate quali siamo, ma come tutte le medicine, bisogna, però, esser capaci di saper dosare, altrimenti è un attimo cadere nel baratro e perdere tutto, ma soprattutto perdere noi stessi.
In questa commedia, che valse a De Filippo un successo europeo, egli, con strema franchezza, ci mette di fronte al fatto compiuto: siamo tutti alla ricerca del quieto vivere e della fantomatica e agognata felicità. Si sa, il lavoro modesto non paga molto e chi vive una vita dignitosa, sogna di diventare milionario; chi è milionario, invece, sogna di poter tornare a star bene e in buona salute; ogni persona e ogni famiglia ha il suo cruccio; ogni persona vive come un’anima in pena e trovare la serenità di questi tempi, sembra, sempre di più, diventare una ricerca utopica.
Martina Di Nolfo
QUESTI FANTASMI!
Di Eduardo De Filippo
Regia Marco Tullio Giordana
Con Gianfelice Imparato, Carolina Rosi, Massimo De Matteo,
Paola Fulciniti, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto,
Viola Forestiero, Giovanni Allocca, Gianni Cannavacciuolo, Carmen Annibale
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Francesca Livia Sartori
Musiche Andrea Farri.
ELLEDIEFFE- LA COMPAGNIA DI TEATRO DI LUCA DE FILIPPO
A caccia di consapevolezza
Nel buio e nel silenzio del teatro si apre il sipario. Undici attori vestiti di nero sono disposti a schiera –in proscenio- con le spalle al pubblico. All’incirca al centro, il dodicesimo guarda verso la platea e veste di bianco. Intanto una gigantesca stella cometa -tempestata di 4300 crisantemi giallo-oro- discende dall’alto, molto lentamente, accompagnata dalle note dolci di Tu scendi dalle stelle.
Nessuno ha ancora proferito parola, eppure lo spettacolo ha già rivelato – a questo punto- molto di sé. Uno degli elementi scenici più simbolici è in scena, e l’aria pesante, mesta e sofferta –costante nel corso dello spettacolo- inizia, fin da subito, ad impregnare la sala. Latella, sin dall’inizio, sembra volerci avvisare: siamo di fronte a un testo più crudo e più violento di quel che si pensa, o che si è sempre pensato.
Inizia così questo percorso che attraverso la famiglia Cupiello ci parla anche e soprattutto di Eduardo De Filippo e della sua grande eredità. Ma l’eredità, come diceva lo stesso Eduardo, è la vita che continua: la vita che dalla morte viene rigenerata. Ed è esattamente su questo che Latella sembra voler rivolgere la propria attenzione.
Antonio Latella, attore e regista teatrale anticonvenzionale, ha da tempo a cuore il problema dell’eredità. Convinto, da un lato, dell’importanza della tradizione e della conoscenza del nostro passato teatrale, egli sottolinea, dall’altro, la necessità di assimilarla, digerirla, e quindi di interiorizzarla. Rifare significa morire, poiché la riproposta del teatro dei grandi maestri del passato preclude la possibilità -urgente e necessaria- di procedere: “I morti non ritornano” ci dice -non a caso- l’Arlecchino (interpretato da Roberto Latini) de Il servitore di due padroni (riscrittura integrale a cura di Ken Ponzio, regia di Antonio Latella).
Da qui uno spettacolo distante dall’ormai lontana messinscena eduardiana, di fronte al quale la perplessità del pubblico è palpabile. Ai più lo spettacolo non piace. Tra questi c’è chi ritiene indegno stravolgere in tal modo un capolavoro qual è l’originale Natale in casa Cupiello. A loro si aggiunge chi si sforza di capire, ma il cui sguardo nasconde in realtà una forte disillusione. Altri, semplicemente non riescono a mantenere la concentrazione. Per queste ragioni, durante l’intervallo che separa la prima parte (I e II atto) dall’epilogo(III atto), molte persone abbandonano la sala.
Ora, che il lavoro di Latella sfoci verso l’intellettualismo è evidente. Così come è chiaro l’impegno e la preparazione che le sue messinscene presuppongono. Per meglio capire ciò di cui si sta parlando è bene soffermarsi un momento sull’interpretazione delle didascalie, elemento caratteristico e importante della rappresentazione. Ormai da tempo Latella adotta la particolare soluzione di affidare agli attori non soltanto la recitazione delle battute, ma anche quella delle didascalie: si tratta di un accorgimento tanto usato dal regista da essere stato più volte definito una sua cifra stilistica. Siamo di fronte a una modalità non sconosciuta prima di lui, ma sicuramente inusuale. Soluzione antinaturalistica e talvolta straniante, essa infatti, se da un lato amplia lo spazio scenico stimolando l’immaginazione dello spettatore –così come un romanzo-, dall’altro presuppone una conoscenza più o meno approfondita del testo, senza la quale, la fruizione dello spettacolo diventa problematica.
Chiarito questo, ci si potrebbe interrogare sulle svariate motivazioni per le quali il pubblico potrebbe avere ragione o meno a non apprezzare il lavoro di Latella, ma sarebbe un’operazione superficiale, oltre che scontata. E’ chiaro che uno spettatore digiuno di Eduardo e che per di più di napoletano se ne intende ben poco non capisca granché della messinscena del regista e per questo ne resti amareggiato. Più interessante sarebbe invece soffermarsi su un particolare atteggiamento -ormai diffuso, e, purtroppo, non solo interno al teatro-, che sembra attanagliare, sempre più, l’uomo moderno.
Ciò su cui preme far luce è una generale attitudine a rimanere sulla superficie delle cose. Lavoriamo per associazioni e accenniamo a due termini: società liquida -coniato dal sociologo, da poco mancato, Z. Bauman- e cultura della fretta, che Stephen Bertman crea per indicare il modo in cui si vive nel nostro tipo di società. Ci bastino per comprendere alcune delle ragioni di tale atteggiamento “superficiale”. Ma in cosa consiste, nello specifico, questa incapacità di entrare nel significato profondo delle cose, in relazione allo spettatore che -addirittura innervosito per i soldi sprecati- lascia la sala a rappresentazione inconclusa? La risposta è semplice e breve tanto che la si potrebbe ridurre ad una sola parola: consapevolezza. O meglio nella mancanza di consapevolezza che lo spettatore dimostra nel presentarsi ad uno spettacolo senza conoscere, se non il testo, per lo meno la linea artistica- in questo caso fortemente anticonvenzionale- del regista. Come si è detto prima questa non vuole essere una polemica, ma una presa di coscienza, che ci permette di definire superficiale (non nella sua accezione negativa, ma come dato di fatto) l’atteggiamento di chi abbandona la sala con frustrazione, come se gli fosse stato fatto un torto. Quando, in realtà, l’unico responsabile del torto che pensa gli sia stato fatto è sé stesso.
Che il teatro sia fonte di divertimento non significa che esso rappresenti una banale evasione che ci permette di “spegnere il cervello”. Il teatro, così come altre forme di intrattenimento presuppone una certa consapevolezza. Che ci si trovi di fronte ad uno spettacolo teatrale, o ad un film, anche nel caso in cui esso sia un cinepanettone -per fare due esempi-, è diritto dello spettatore sapere dove si trova e cosa sta facendo.
Latella non contamina né rielabora i contenuti del testo. La sua messa in scena restituisce allo spettatore il testo intonso. E’ l’interpretazione visiva quella che varia, funzionale al regista per allontanarsi dall’autore quanto necessario a ritrovarlo. Sì, si può certo non essere in sintonia con la linea artistica di Latella. No, non ci si può indispettire di fronte ad uno spettacolo perché esso non è “come ci aspettavamo”. Per quanto possa sembrare strano, anche quando la rappresentazione non piace il teatro può essere importante, ancora una volta è motivo di confronto, di riflessione. Anzi è importante soprattutto quello che “non piace”, che lascia “insoddisfatti” perché aiuta a formare un gusto e una consapevolezza che permetterà di essere critici e di pensare con la propria testa.
Di Eduardo De Filippo
Drammaturgia Linda Dalisi
Con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
Regia Antonio Latella
Scene Simone Mannino, Simona D’amico
Costumi Fabio Sonnino
Luci Simone De Angelis
Musiche Franco Visioli
Teatro di Roma
“Mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”: Natale in casa Cupiello
Martedì 10 Gennaio 2017 debutta al Teatro Carignano di Torino “Natale in Casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, con laregia di Antonio Latella.
La tragicommedia è stata scritta nel 1931 e De Filippo la porta in scena con la sua compagnia fino agli anni Settanta, apportando continue modifiche. Attraverso la figura del protagonista Luca Cupiello, che cerca di riunire la famiglia ispirandosi all’ideale del presepe, che diventa per lui quasi un’ossessione, l’autore vuole mettere in evidenza l’impossibilità di ricreare il nucleo familiare, ormai sfasciato, solo durante una ricorrenza annuale come il Natale.
Antonio Latella supera il naturalismo della rappresentazione di De Filippo, rivolgendosi al pubblico attraverso simboli e invitandolo a immaginare il contesto in cui si svolge la storia. Il sipario si apre rivelando una disposizione lineare e simmetrica degli attori, con al centro il protagonista, Luca Cupiello, interpretato da Francesco Manetti, vestito di bianco, diversamente dagli altri personaggi che indossano abiti di tonalità scure e con gli occhi coperti da una mascherina. Al segnale del bastone di Luca, immagine della malattia incombente, tutti i personaggi iniziano a camminare verso il proscenio mentre dietro di loro viene calata una grande stella cometa, che rimanda al presepe tanto amato dal protagonista, e unico oggetto della scenografia presente nel primo atto. Latella utilizza pochi oggetti di scena, ma fortemente simbolici. Infatti ad ogni personaggio nel corso del secondo atto verrà attribuito un “pupazzo” raffigurante un animale che lo rappresenta (ad esempio Nicolino ha un maiale che rimanda ai suoi comportamenti rudi verso la moglie Ninuccia), ad eccezione di Concetta, moglie di Luca, che traina un carro grande quanto il peso delle vicende familiari che ricadono tutte sulle sue spalle. Nel terzo atto invece l’oggetto predominante è una grande culla, all’interno della quale si trova Luca ormai in fin di vita, circondato dai familiari disposti a formare il presepe, che richiama il tanto agognato sogno familiare del protagonista, che a quanto pare può realizzarsi solo in prossimità della morte. È chiaro dunque che Latella riduca la scenografia lavorando su immagini metaforiche che diventano macroscopiche.
Tornando al primo atto, dopo il posizionamento della stella cometa, gli attori, sempre su segnale del bastone di Luca, iniziano a recitare coralmente e fedelmente le didascalie mentre vediamo Luca che muove la mano come se stesse scrivendo: Latella sembra così voler sottolineare la fedeltà al testo eduardiano immettendo eccessi di teatralità, ad esempio quando gli attori pronunciano, all’interno delle battute, anche gli accenti (gravi, acuti o circonflessi) accompagnandoli con movimenti che ricordano passi di danza. Inoltre Luca “scrive” l’opera mentre si sta compiendo quasi per ricordare al pubblico la presenza dell’autore, poiché la storia dello spettacolo è un patrimonio di confronto che non deve essere dimenticato tanto che, nel secondo atto, risuona costantemente la voce di Eduardo De Filippo “mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”, per rammentare la sua presenza persistente, mentre gli attori si guardano spaesati attorno, come per cercarlo.
Da segnalare sono sicuramente due aspetti: in primo luogo l’uso sapiente delle luci, statiche per quasi tutto lo spettacolo e che mettono così in risalto l’intensità delle azioni e dei sentimenti, che diventano poi intermittenti e artificiose a metà del secondo atto, dove la tensione accumulata a causa del triangolo amoroso che vede protagonisti Nicolino, Ninuccia e Vittorio, esplode in una danza frenetica durante la quale risuonano versi di animali come in una “giungla” di conflitti familiari. Nel finale le luci tornano a creare un’atmosfera cupa, che rimanda all’incombenza della morte, e forti chiaroscuri che rendono la scena come un dipinto. In secondo luogo, gli attori sono molto abili a passare dall’italiano delle didascalie al dialetto napoletano delle battute e dei dialoghi repentinamente, in particolare possiamo mettere in evidenza la bravura di Monica Piseddu, che interpreta Concetta.
È rilevante il cambiamento apportato da Latella al finale: il figlio Tommasino uccide, soffocandolo con un cuscino, Luca, con l’approvazione di tutti i presenti, ponendo così fine alle sue sofferenze. Da un lato questo può essere considerato un gesto di amore e pietà nei confronti del padre, nonostante per tutta la vicenda Tommasino si sia dimostrato ingrato e scansafatiche, dall’altro potrebbe anche essere uno spunto del regista per esortare le nuove generazioni a fare tesoro dell’insegnamento della tradizione ma, al contempo, a superarla, rinnovando e sperimentando, facendo così rinascere il teatro.
Alice Del Mutolo
Stefania Pero
NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone,
Emilio Vacca, Alessandra Borgia
drammaturga del progetto Linda Dalisi
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino – luci Simone De Angelis – musiche Franco Visioli
Teatro di Roma